Leo Valiani
(Fiume, 1909 – Milano, 1999)
Protagonista della Resistenza e della
nascita dell'Italia repubblicana, storico, giornalista, senatore a vita.
Partecipa alla lotta clandestina contro il fascismo e subisce il carcere,
il confino e l’esilio. È in
Spagna come giornalista e come militante durante la guerra civile. Nel
1939, dopo un periodo di militanza comunista, aderisce a “Giustizia
e Libertà”. Partecipa alla Resistenza ed entra nel Partito
d’Azione di cui è uno dei massimi dirigenti. Con lo scioglimento
del PdA abbandona la politica militante per dedicarsi allo studio e al
giornalismo. Nel 1980 è eletto senatore a vita.
Ho conosciuto Lelio Basso nel 1928, più di sessanta anni fa,
al confino di polizia di Ponza ove eravamo stati assegnati in quanto
militanti antifascisti, dopo le leggi eccezionali del '26 che avevano
messo fuori legge tutti i partiti politici antifascisti e soppresso ogni
libertà di stampa. È naturale quindi che io sia qui per
ricordarne, al di là di ogni dissenso ideologico e politico, la
memoria. Egli partecipò alla lotta antifascista e si segnalò sin
da allora per la sua straordinaria intelligenza e la sua grandissima
cultura.
Se prendo la parola però è anche per un altro motivo. II
relatore ci ha detto molto bene la grande ammirazione che Lelio Basso
nutriva già allora, nel '28 a Ponza, per Rosa Luxemburg. Naturalmente
anche altri erano gli autori che prediligeva: Piero Gobetti, di cui fu
collaboratore, Rodolfo Mondolfo, Gangale, direttore di Conscientia,
dal quale prese la tesi della gravità della mancata riforma protestante
in Italia.
Rosa Luxemburg resterà immortale nella storia per molti motivi,
non ultimo per il suo detto classico, classico perché vergato
in quelle condizioni, in prigione, nel 1918, mentre la rivoluzione trionfava
già in Russia e maturava in Germania. Essa diceva: "la libertà è sempre
la libertà di chi la pensa diversamente. Anche il sultano
- che allora era il governante più tirannico del mondo, il sultano
di Turchia - tollerava quelli che erano d'accordo con lui. Il difficile è accettare
quelli che sono di parere diverso. È lì il banco di prova
della libertà".
Rividi Lelio durante la Resistenza. Nella Resistenza egli era entrato
sempre con la sua passione, con il suo coraggio, con la sua speranza
di una rivoluzione proletaria socialista. Io non condividevo più quella
speranza; mi sembrava che la situazione internazionale e la stessa
dinamica dell'economia moderna consentissero in Italia soltanto una rivoluzione
democratica e non ancora una rivoluzione socialista.
Lelio stesso, in fondo, ne convenne alla fine, verso il culmine della
Resistenza. Egli aveva iniziato la Resistenza stessa fuori dal Partito
socialista, con un giornale bellissimo, dal titolo "Bandiera Rossa",
che aspirava ad una rivoluzione socialista di tipo classista, luxemburghiano
se così posso dire, e poi invece rientrò nel Partito socialista
che chiedeva - come chiedevamo noi del Partito d'azione - la rivoluzione
democratica.
Negli ultimi mesi della Resistenza proponemmo un'alleanza delle sinistre
nel Comitato di liberazione nazionale Alta Italia e in generale
nel Paese, fra socialisti, comunisti, Partito d'azione, comprendente
eventualmente anche i repubblicani, che erano fuori dal CLN, e la sinistra
democratico-cristiana. Scopo dell'alleanza sarebbe stato quello di attuare
la rivoluzione democratica. Essa doveva avere quale sbocco
la convocazione di un'Assemblea costituente che si avocasse il potere
di riformare le istituzioni, le leggi, le strutture, con una democratizzazione
profonda della vita italiana e con l'eliminazione rapida degli istituti
ereditati dal fascismo e dall'Italia prefascista.
Questa iniziativa - che ebbe il consenso dei socialisti e della direzione
comunista dell'Alta Italia, quindi di Morandi, di Pertini, di Longo,
di Secchia-non fu condivisa dalla Direzione nazionale del partito
comunista. Prevaleva allora in questo partito la concezione tipicamente
staliniana secondo la quale una rivoluzione - fosse essa democratica
o socialista - sarebbe stata possibile soltanto nei paesì in procinto
di essere occupati dall'Armata sovietica. Nei paesi occidentali
era considerato inevitabile l'avvento del capitalismo sul piano
economico e di una democrazia parlamentare sul piano politico. Conseguenza
di questa impostazione fu la ricerca costante, da parte di Togliatti,
di un accordo con la Democrazia cristiana. Credo che l'esperienza dei
quattro decenni e più passati da allora abbia dimostrato la fondatezza
della nostra aspirazione ad una rivoluzione democratica messa in
atto attraverso i poteri sovrani che l'Assemblea costituente si
sarebbe potuta attribuire e non si attribuì, principalmente per
l'opposizione delle forze conservatrici, ivi compresi i comandi delle
forze alleate di occupazione, ma anche per la paralisi nella quale la
concezione stalinista, alla quale ho precedentemente accennato, metteva
la sinistra in Italia e - anche se in condizioni diverse - in Francia.
Le leggi democratiche che sono state fatte con grave ritardo si sarebbero
potute fare molto meglio allora, molto più tempestivamente, con
maggiore adeguatezza alle condizioni concrete. Comunque del senno
di poi son piene le fosse. Lo stalinismo è rimasto dominante a
lungo e il relatore ha parlato anche delle conseguenze sgradevoli
che ciò ha avuto per un militante socialista, che pure era un
sostenitore dell'unità delle sinistre, come Lelio.
Un'analisi critica dello stalinismo in Italia è stata fatta ancora
insufficientemente, si sono cioè messi in rilievo soltanto gli
aspetti più brutali, più feroci. Ma come mai milioni di
persone non solo in Unione Sovietica o negli altri Paesi a dittatura
comunista, ma anche nei paesi democratici hanno potuto credere fanaticamente
nello stalinismo e plaudire alle sue peggiori follie? Anche qui
in Italia i grandi processi staliniani del dopoguerra - le forche di
Praga, di Budapest, di Sofia, la rottura con la Jugoslavia di Tito -
furono applauditi e non solo da masse ignare, ma dalla grande maggioranza
dello stesso ceto intellettuale di sinistra. In ogni modo questo è un
problema che appartiene alla storiografia, anche se la storiografia
italiana ha appena cominciato ad affrontarlo criticamente. Rimane invece
il problema politico attuale. Come si fa a mandare avanti il movimento?
Noi abbiamo oggi per la prima volta una maggioranza di sinistra alla
Camera dei deputati. L'avremmo potuta avere già nell'Assemblea
costituente se la sinistra democratico-cristiana avesse avuto come Dossetti
- uomo indubbiamente disinteressato e lungimirante - l'incentivo a schierarsi
con i partiti della sinistra. Ma i grandi partiti di sinistra, rinunciando
alla rivolùzione democratica, non offrivano alla sinistra
democratico-cristiana nessuna possibilità di iniziativa. Vinsero
così le forze della conservazione, poi via via disgregate dall'anacronismo
di alcune loro posizioni, seppure aiutate da un'evoluzione capitalistica,
tecnocratica, che ha giocato a favore di esse perché esse si trovavano
alle leve di comando. Adesso questa maggioranza di sinistra c'è,
sia pure per pochi voti, ma con la sinistra della Democrazia cristiana
i voti sarebbero molto più numerosi.
Come mai essa non riesce a prendere corpo e come mai non riesce neanche
a precisarsi? Sembra che l'inesistenza o inconsistenza di una maggioranza
di sinistra, che alla Camera dei deputati pure ci sarebbe numericamente,
sia una fatalità. I motivi sono tanti. Naturalmente c'è il
motivo del sistema elettorale per cui gli eletti dipendono più dalle
segreterie dei partiti che dai loro elettori e qui c'è un altro
discorso - che io non posso fare ovviamente adesso - su quale sarebbe
il sistema elettorale suscettibile di legare di più gli elettori
e gli eletti, le masse che vogliono dei cambiamenti ai deputati
o senatori che vogliono anch'essi dei cambiamenti veri e non fittizi
soltanto. C'è in ogni modo un altro problema più profondo
ed è quello che sì riallaccia di più ai sogni e
ai desideri, anche alle illusioni, di Lelio e cioè quello del
programma. Che cosa è la rivoluzione democratica o anche la rivoluzione
socialista nell'88, nell'89, che non solo non è più l'epoca
di Marx, ma non è più neanche il 1945? A mio avviso Marx
diceva cose sostanzialmente giuste per la sua epoca. Manchester, quando
Engels la vide, nel 1843, presentava quel fenomeno di immiserimento,
di contrapposizione di classe che egli descrisse e che Marx teorizzò.
L'analisi che c'è in Marx ed Engels negli anni '40-'50-'60 dello
scorso secolo è valida ancora negli anni '70-'80, benché poco
dopo, negli anni '90, cominci la nuova espansione produttiva, non è più valida
nel 1988 per il motivo che lo stesso Marx diceva e cioè che un
modo di produzione non muore finché può sviluppare forze
produttive, e le forze produttive si sono impetuosamente sviluppate,
e il Paese industrialmente più avanzato mostra la via del
domani ai Paesi che si industrializzano e non viceversa. Marx non voleva
essere un comunista primitivo che sogna di restaurare l'età dell'oro
dì cui parla Ovidio, senza Stato, senza leggi, senza diseguaglianze.
Questo comunismo Marx lo ripudiava già nel 1845 e rispetto a esso
diceva: l'ignoranza non ha mai fatto del bene a nessuno. E lo diceva
al sublime sognatore che era l'ex carcerato comunista primitivo Weitling.
Ma neppure Marx poteva, e nessuno può, indovinare il futuro.
Adesso abbiamo quello che all'epoca di Marx era il futuro, oggi lo abbiamo
come presente. Qual è il programma della sinistra? Voi ne
discuterete, spero. Voglio solo osservare, a proposito del programma
economico dei partiti di sinistra, che mi sembra di essere tornato indietro
di due secoli: all'inizio dell'Ottocento i movimenti di sinistra chiesero
la tassazione della terra, della casa, dei titoli di Stato, e fu un progresso
quando già nella seconda metà dell'Ottocento chiedevano
l'imposta progressiva sul reddito. Adesso le sinistre tornano a
chiedere l'imposta sulla casa e sui titoli di Stato, in un momento in
cui la proprietà della casa e di un modesto risparmio in
titoli di stato si è diffusa in tutti gli strati sociali, mentre
ben altri sono gli strumenti per una tassazione moderna e progressiva.
Il problema vero è quale può essere il programma di una
società migliore di quella odierna. È un problema che noi
oggi affrontiamo avendo conoscenze che Marx non poteva avere. All'epoca
di Marx si pensava ancora che le istituzioni economiche, sociali, politiche
fossero la cosa fondamentale e che cambiando queste istituzioni - che
possono essere cambiate attraverso una rivoluzione di pochi mesi
o attraverso delle riforme di pochi anni - si potesse cambiare tutto.
Le scienze del cervello e della mente, le neuroscienze, ci insegnano
oggi che, sì, le istituzioni sono importanti, ma ancor più determinanti
sono i processi psichici che derivano da un'eredità di centinaia
di migliaia, se non di milioni di anni. E queste strutture mentali cambiano
molto lentamente, in tempi lunghissimi, e non c'è modo di affrettarne
in larga misura il cambiamento. Questo è il vero limite di fondo
alle rivoluzioni, che cambiano le istituzioni, ma non possono cambiare
le menti degli uomini con la stessa rapidità. I neuroscienziati
dibattono oggi tutto questo anche a livello di popolarizzazione nelle
terze, quinte o settime pagine dei quotidiani, però ciò è rimasto
al di fuori degli orizzonti dei partiti e non solo dei partiti di sinistra
naturalmente. Così accade che si discute di tutto ma ultimo
resta sempre il problema dell'educazione delle menti, delle coscienze,
del sapere. Della scuola si parla soltanto in occasione degli scioperi
degli insegnanti tendenti a strappare aumenti di stipendi e di salari
che poi non significano molto perché con l'inflazione che cresce
- e cresce molto di più di quanto non dicano le statistiche, come
ogni massaia sa - vengono rapidamente neutralizzati. Le condizioni di
vita dei lavoratori si sono elevate, oltre che per le lotte, per
il progresso tecnologico, ma da ciò non è scaturita una
direzione di sinistra della società, perché gran parte
della sinistra vive ancora in miti, in slogan, in parole d'ordine passate
che un tempo avevano una certa giustificazione, ma che oggi l'hanno
perduta.
Ci dispiace certo che non sia più qui l'amico Lelio per motivi
anche affettivi, ma anche perché ci vorrebbero tanti intellettuali
come lui che mettessero in discussione i vertici delle sinistre, il problema
di che cosa può significare oggi il socialismo democratico.
Certamente non può significare la stessa cosa che significava
nel 1918-19, nelle prime rivoluzioni socialiste, democratiche o dittatoriali,
o nel 1945. Nel 1989 sarà celebrato in Francia con grandi convegni
il bicentenario della rivoluzione francese. Anche noi faremo in Italia
questa celebrazione; avremo grosse spese per convegni più o meno
utili, ma non so se avremo - e vorrei che lo avessimo - un franco, profondo
e sincero dibattito sugli obiettivi da raggiungere a vantaggio della
società e non semplicemente per guadagnare voti che poi non servono
a niente se questi voti non si sommano, ma rimangono sparpagliati, e
quindi, anche quando sono in maggioranza, come oggi alla Camera
dei deputati, formano tante minoranze divise fra di loro. Ecco quello
che volevo dire.
[Tratto da AA.VV., Socialismo e democrazia.
Rileggendo Lelio Basso, Concorezzo, Gi. Ronchi Editore, 1992 che raccoglie le relazioni
e gli interventi dell’omonimo convegno svoltosi a Milano nel 1988] |