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Fausto Bertinotti
(Milano, 1940)



Dal 1994 segretario generale del Partito della Rifondazione comunista. A partire dagli anni sessanta svolge attività sindacale nella CGIL, di cui dirige la federazione piemontese (1975-1985) ed è membro della segreteria nazionale (1985-1994). È deputato alla Camera e del Parlamento europeo.

[…] proverò semplicemente a raccontare come un militante della mia generazione ha appreso la lezione di Lelio Basso.
La mia vuole essere la testimonianza di un apprendimento, più o meno riuscito, di fronte a una figura che, nel momento in cui la incontrammo, portava già con sé il carico di una grande autorevolezza sia sul terreno teorico, sia su quello della direzione pratica del movimento operaio e dei partiti che ne erano espressione.
Per la mia generazione è stata indubbiamente una presenza molto significativa; ci colpiva ciò che a noi sembrava la sua consistente originalità: nell’ambito del partito in cui militava e nel panorama della sinistra del movimento operaio italiano.
[…] la sua capacità di farsi tramite di una istanza di liberazione, una caratteristica che a me sembra quella più pregnante per definirne la lezione. L’istanza di liberazione richiama insieme il retroterra culturale di Basso, solidamente determinato dall'impianto marxiano su cui ha lavorato per una intera vita, e la sua capacità di trascendimento, di non essere cioè banalmente marxista ma di forzarne continuamente le categorie interpretative in un rapporto molto sofferto con la cultura di origine.
[…] il legame che Basso istituiva tra la ricerca, teorica e sperimentale, e l'imperativo etico-morale di partecipare a una formazione organizzata del movimento operaio; un legame che ha determinato un elemento di contraddizione molto fecondo e molto ricco. Non è mio compito, né saprei farlo, stabilire quale delle diverse fasi della vita di Lelio Basso sia stata la più ricca di insegnamenti, tuttavia tendo a credere, ma forse solo per vicinanza di umore, che proprio la sua esperienza di direzione dei partiti del movimento operaio abbia dato luogo a una ricerca, sia pure carica di elementi di ansia e di sofferenza, particolarmente ricca di valori e di insegnamenti.
Questa sua tensione, difficile da comporre, tra la libertà della ricerca e l'esigenza dell’organizzazione pratica delle donne e degli uomini impegnati nella politica, mi fa venire in mente il protagonista di un noto libro di uno scrittore angolano in cui si raccontano le vicende della lotta di liberazione di quel paese. Questo personaggio, che raffigura il ruolo di un rivoluzionario chiamato il comandante, sa pressoché tutto ciò che succederà a lotta di liberazione vinta: sa che avverranno delle faide, dei conflitti etnici, dei processi corruttivi; sa che i vincitori diventeranno a loro volta sopraffattori; insomma, sa che la battaglia in cui è impegnato non darà luogo a una liberazione compiuta degli uomini e delle donne al fianco dei quali combatte. Tuttavia egli sa anche che non c'è altra possibilità che provare e riprovare, che prendere parte a questo processo di liberazione: continuare a combattere pur conoscendo tutti gli elementi non solo di rischio ma di alta probabilità, connessi a quella impresa, di ricadere in nuove forme di oppressione.
Penso che l'itinerario politico di Lelio Basso sia contrassegnato da questa consapevolezza degli elementi intrinsechi alla formazione politica e all'organizzazione stessa e al contempo dalla necessità, per condurre un'azione collettiva di liberazione, di passare attraverso di essi. Forse è anche per questo che egli, come molti grandi del suo tempo, non ha dato luogo a filiazioni dirette, a organizzazioni politiche direttamente ricalcate sul suo profilo culturale politico-programmatico, ma per lo stesso motivo si può dire che egli abbia dato luogo a una ancor più generosa disseminazione, di tipo orizzontale invece che verticale: non una filiazione per “fedeltà” e per ripetitività, piuttosto una lezione messa a disposizione, attraversata e contaminata da coloro che l’hanno appresa.
Penso che oggi questo tipo di filiazione possa essere particolarmente utile anche a chi crede che, ormai, la prova della storia abbia prodotto non un solo marxismo ma tanti marxismi e, di fronte agli enormi mutamenti che riguardano l'organizzazione della società, si pone il problema della trasformazione di questa società. Per questi, il problema non è quello di ereditare qualche classico per tradurlo in realtà ma, piuttosto, di poter fare i conti con le diverse esperienze, le differenti lezioni, le diverse imprese che si sono realizzate nella storia del movimento operaio. Tra queste, appunto, quella di Lelio Basso a me sembra molto significativa, perché è l'esperienza di un uomo che ha lavorato a un’ipotesi di rivoluzione evitando i due errori che hanno contrassegnato il suo tempo: l'economicismo e lo stalinismo.
Nel momento in cui Lelio Basso è stato dirigente autorevolissimo del movimento operaio italiano, l’economicismo se non era cultura dominante certo era molto influente; da esso discendeva una sorta di primato della meccanica della rivoluzione, l'idea cioè che in qualche misura il processo di superamento del capitalismo fosse intrinseco alla formazione economico-sociale stessa e che quindi il soggetto della rivoluzione, la classe operaia, che liberando sé avrebbe potuto liberare tutto e tutti, era in qualche modo incorporato nello stesso meccanismo di organizzazione e di formazione della società capitalistica. La critica di Basso a questa interpretazione della società è sempre stata molto vigorosa a partire dai primi scritti come dirigente del Partito socialista italiano, nell'immediato dopoguerra, fino all'esperienza della rivista “Problemi del socialismo”. La sua critica all'economicismo è stata costante, fondata su di un’indagine attenta alle soggettività, alle culture, alla teoria e ai comportamenti.
L'altro errore evitato da Basso fu quello che ho chiamato dello “stalinismo”, ma più ancora che di stalinismo, potremmo parlare di “primato dell'organizzazione”, che dello stalinismo costituisce, in qualche modo, il fondamento più dignitoso. Si può infatti dire che se molte delle esperienze del movimento operaio italiano hanno saputo essere critiche nei confronti dello stalinismo, molto meno lo sono state verso quel suo fondamento, appunto il primato dell'organizzazione, della disciplina dell'organizzazione. Anche in questo la critica di Lelio Basso è stata sempre molto stringente, capace di ispirare un comportamento pratico.
Non è possibile esaminare in questa sede il lungo percorso intellettuale di un dirigente del movimento operaio che ha attraversato la vicenda sociale, politica e culturale del paese, dalla sua organizzazione agro-industriale fino al neocapitalismo, ogni volta sapendo indagare, con grande sforzo di ricerca, le novità, i passaggi di fase, i cambiamenti, rifiutando ogni pigrizia intellettuale e analitica, tentando anzi di sperimentare sempre le frontiere più insidiose che venivano proponendosi. Non l’ho mai visto, per esempio, sottovalutare l'avversario, né propendere per una critica distruttiva dello stesso avversario strutturale, in un paese in cui era vezzo prevalente anche della sinistra liquidare il capitalismo italiano come vecchio straccione. Basso ne ha sempre indagato gli elementi di modernizzazione, non per soggiacerne al fascino, ma per poter ravvivare la capacità critica del proprio impianto culturale in un conflitto ai livelli alti della sfida posta dall'avversario.
Ciò vale per tutto il suo lungo percorso di vita, dalla lotta di liberazione nazionale alle lotte anticolonialiste […] fino alla capacità di pensare a esperienze significative di liberazione nel Terzo mondo. Da questo punto di vista credo si possa considerare Basso, o almeno così è apparso a me, un protagonista del grande capitolo della ricerca della soluzione al problema della rivoluzione in Occidente. Nella stessa critica allo stalinismo e persino in quella all’Unione Sovietica post-staliniana non ha mai espresso giudizi cattedratici: egli ha sempre indagato il rapporto tra quegli errori, e anche quegli orrori, e la rivoluzione mancata in Occidente; mancata cioè in questa parte d'Europa, da questo movimento operaio sulle cui spalle è ricaduta, in qualche misura, anche la responsabilità più generale di aver impedito il dispiegarsi di una grande suggestione: l’idea di liberazione dell'umanità.
In questo senso credo che Basso abbia potuto giovarsi molto dell'insegnamento di una rivoluzionaria straordinaria come Rosa Luxemburg. Non sono uno storico, ma credo si possa dire che dobbiamo moltissimo a Lelio Basso della conoscenza di Rosa Luxemburg in Italia: attraverso le sue traduzioni, i suoi commenti, il lavoro di lunga lena svolto sull’“aquila della rivoluzione”, per usare una definizione famosa. In una fase in cui imperavano i catechismi, aver avuto non dico il coraggio ma la forza intellettuale di mettere in luce la straordinaria esperienza e la straordinaria forza di comunicazione, la straordinaria modernità del pensiero di Rosa Luxemburg, ha costituito un potente fattore di svecchiamento delle culture del movimento operaio e marxista italiani.
Basso ha trasmesso a noi l'idea della rivoluzione come processo storico, non semplicemente come assalto al Palazzo d'Inverno, non come presa del potere dalla quale poi sarebbe discesa, più o meno meccanicamente, la trasformazione della formazione economico-sociale della società civile e persino la creazione dell'uomo nuovo. La sua lezione si svolgeva in un momento in cui non era facile dire quelle cose - adesso lo è sin troppo - quando cioè il soprassalto volontaristico dell’attacco al Palazzo d’Inverno appariva necessitato. Oggi mi sembra davvero ingeneroso non comprendere le ragioni di fondo di quell'assalto al cielo, ma ieri, quando appunto il catechismo imperante spiegava che solo quella opzione era feconda per il movimento operaio e, anzi, andava generalizzata nel tempo e nello spazio, chi, come Basso, proponeva - io credo in sintonia con la più profonda ispirazione marxiana - la necessità di pensare alla rivoluzione come a un processo storico, come a un processo da affondare nel punto più alto dello sviluppo capitalistico, rischiava l’isolamento.
Una delle cose più importanti che dovremmo aver imparato, e non è detto che ci siamo riusciti, da Lelio Basso è la capacità di coniugare un pensiero radicale, una prospettiva radicale a una pratica applicativa quasi minimalista. La capacità, cioè, di operare uno sfondamento del pensiero corrente, di aspirare al superamento radicale dell'organizzazione sociale esistente, di pensare alla liberazione delle donne e degli uomini e insieme operare e individuare ogni possibilità di condizionamento in senso migliorativo della realtà. Lelio Basso non si è mai spaventato del miglioramento, sia sul terreno sociale che su quello del diritto, sia sul terreno culturale che su quello della vita quotidiana. Lui ci ha proposto una critica molto severa della democrazia rappresentativa e dei suoi limiti, ha indicato la possibilità di alimentare forme di democrazia diretta, una nuova idea di organizzazione dei rapporti statuali ma, al tempo stesso, ci ha proposto di valorizzare ogni elemento contenuto proprio in quella democrazia rappresentativa, in uno Stato di diritto in grado di costruire le garanzie per il cittadino o per una minoranza, qualunque essa sia.
Allo stesso modo, Basso proponeva un ragionamento sulla laicità dello Stato, nelle forme più radicali e più organiche ma, contemporaneamente, si interrogava sulle culture cattoliche, sul rapporto con i cattolici in Italia e nel mondo, leggendone le evoluzioni non come osservatore esterno ma come osservatore partecipe e capace di raccoglierne alcune eredità. Altrettanto, nella sua capacità di proporre e di riproporre un processo di trasformazione della società capitalistica nella sua unicità e contemporaneamente di mettere in rilievo il valore di tutte le autonomie.
Parlo della mia esperienza, di chi incominciava allora, nei primi anni sessanta, l’attività sindacale e ricorda il contributo importante di un uomo esterno al sindacato come Lelio Basso sul tema dell’autonomia, di quella del sindacato come di tante altre; penso, per esempio, all’autonomia dei comuni nei confronti dello Stato centrale su cui lui ha detto e scritto pagine assolutamente straordinarie.
Dunque questa radicalità coniugata alla capacità di pensare la politica come intervento nel reale, credo sia stata l'esperienza e la lezione più significativa di Lelio Basso. Egli aveva condotto una critica sistematica nei confronti del riformismo, nelle sue espressioni teoriche e in quelle pratiche. Ricordo la sua critica al centro-sinistra che non fu di tipo politicista, né di schieramento, fu invece la critica del rapporto tra il centro-sinistra e il grande processo di modernizzazione neocapitalista. La sua posizione è stata ben rappresentata con un ossimoro formulato, se non ricordo male, da André Gorz in Socialismo difficile, che lo identificò come un pensatore “riformista-rivoluzionario”; una categoria che Gorz attribuiva a Lelio Basso ma anche a Bruno Trentin, a Pietro Ingrao, a Vittorio Foa e ad altri dirigenti del movimento operaio italiano. Con quell’ossimoro si esplicitava una ricerca in corso che io credo sia ancora oggi di grande interesse, un'idea di trasformazione della società capace di fare i conti con il processo di modernizzazione, senza tuttavia subirne la primazia, senza rischiare di cadere in un atteggiamento conformista e senza tentare fughe in direzione di una protesta rabbiosa o aristocratica, riproponendo invece la via del cambiamento.
Questa via del cambiamento ha sempre avuto in Lelio Basso un perno che ancora oggi, in un mondo così radicalmente cambiato, è attuale: l'obiettivo di ogni azione andava raccordato all'obiettivo di un'altra società, la società socialista.

[Tratto da Fondazione Internazionale Lelio Basso – Fondazione Lelio e Lisli Basso-Issoco – Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli, Lelio Basso e le culture dei diritti, Atti del Convegno internazionale, Roma, 10-12 dicembre 1998, Roma, Carocci, 2000]