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Norberto Bobbio
(Torino, 1909)



Filosofo e giurista. Antifascista vicino alle posizioni di "Giustizia e libertà". Docente di Filosofia in varie università, dal 1984 è senatore a vita. Il suo pensiero è considerato uno dei principali punti di riferimento politico e culturale della sinistra italiana.


Ricordavamo spesso di esserci conosciuti la prima volta all'inizio degli anni Trenta in una scampagnata guidata da Barbara Allason a Pecetto, dove essa aveva una casa di campagna.
Era probabilmente quella giornata di Pasquetta che nelle "Memorie di un antifascista" la vecchia amica Barbara descrisse così: "fu una lieta giornata quella Pasquetta del 1933 che passammo nel mio paese in collina, tra quello sbocciare di alberi fruttiferi che ammanta i colli di una meravigliosa fioritura bianca e rosata".
La festa era stata organizzata per fare conoscere agli amici torinesi la giovane coppia dei Basso. Per quanto io allora frequentassi ambienti antifascisti degli antifascisti militanti sapevo ben poco. Dubito che allora sapessi che quel giovane avvocato era stato un collaboratore di 'Rivoluzione liberale' e fosse già noto come scrittore politico. Dopo quell'incontro sentii riparlare di lui quando negli anni della cospirazione si ebbe notizia della formazione di un gruppo clandestino che si era staccato dal PSI con propositi di profondo rinnovamento: il Movimento di unità proletaria, cui aderirono molti amici che avremmo voluto avere come compagni nell'allora sorto Partito d'azione. Uno dei fondatori del movimento era stato Lelio Basso e il suo nome spiccava tra quelli dei più autorevoli animatori dei gruppi di opposizione al fascismo. Quando e come ci si sia ritrovati dopo la Liberazione non saprei dire, tanto viva è la mia memoria delle vicende legate alla liberazione, tanto sfocata quella degli anni successivi in cui tornai all'insegnamento e agli studi. Fu soltanto in occasione del mio primo pubblico dibattito politico, i cui documenti furono poi raccolti nel volume "Politica e cultura", uscito alla fine del 1955, che ebbi un invito a partecipare a una serie di conferenze organizzate dalla Casa della cultura di Milano su vari aspetti della democrazia. L'invito mi era stato trasmesso da Lelio Basso. Mi era stato assegnato il compito di parlare di "democrazia rivoluzionaria e democrazia liberale", mentre Basso si era proposto di trattare il tema "democrazia e paesi sottosviluppati", un tema che mostrava chiaramente sin da allora una costante direzione dei suoi interessi destinati a diventare quasi prevalenti negli ultimi anni. Gli scrissi per proporgli di cambiare il tema assegnato in uno a me più congeniale "democrazia e liberalismo". Ci davamo ancora del lei: "Caro onorevole", "Caro professore"
Conservo ancora la lettera del 24 dicembre 1954 in cui mi concedeva di parlare dell'argomento che gli avevo proposto, ma, forse perché gli era parso troppo dottrinale, insisteva che gli organizzatori volevano porre l'accento, oltre che sulle idee, sulle circostanze storiche in cui concretamente queste idee hanno potuto in tutto o in partejealizzarsi e sulle forze sociali da cui erano state espresse. Per uno come me, che dopo lo scioglimento del Partito d'azione si era ritirato dalla politica attiva, la notorietà di Basso era dovuta non solo alla sua azione politica, ma alla sua attività di membro dell'Assemblea costituente nella quale, sia per la sua preparazione di giurista sia per la sua cultura storico-politica, egli fu indubbiamente uno dei protagonisti. Ho già avuto occasione di ricordare altrove che il dibattito politico di quegli anni, accesissimo, tra il pullulare di riviste di battaglia spesso nate morte e i dibattiti in Parlamento, fu molto povero di solidi libri di storia e di teoria politica. Uno dei pochi che merita di essere ricordato è il "Principe senza scettro" uscito da Feltrinelli nel 1958 che, pur essendo un'opera essenzialmente di polemica politica contro la democrazia dimezzata quale era quella attuata in Italia sotto l'egemonia democristiana, conteneva una parte di storia della democrazia che rivelava l'attitudine dello studioso che non venne mai meno nonostante il forte e continuo impegno politico.
Fu nello stesso 1958 che avvenne uno dei nostri primi scambi di idee che continuarono poi per molti anni, privatamente per lettera o pubblicamente in convegni. Mi è accaduto spesso di sentir iniziare un suo intervento con queste parole. "Mi dispiace di non essere ancora una volta d'accordo con l'amico Bobbio", si discutesse di guerra e pace a Milano o di non violenza a Perugia. Ma io sono sempre stato un moderato. Con Calamandrei ritenevo che i modelli di socialismo per il nostro paese dovessero essere il laburismo inglese e la socialdemocrazia svedese e che il marxismo, come guida teorica del socialismo, avesse fatto il suo tempo. Basso, invece, era un marxista convinto, seppure alieno, da quello spirito libero che era, da ogni forma di bigotteria. Quale fosse lo scritto che egli mi aveva mandato non saprei dire,' n6ho conservato la mia lettera in cui evidentemente lo rimproveravo di avere parlato male di Turati. Probabilmente si trattava di uno scritto su Turati pubblicato sul secondo fascicolo di "Problemi del socialismo" di quello stesso anno. Mi rispose il 1° maggio del 1958 (ci davamo ancora del lei) dicendomi che mi dava ragione sul fatto che il PSI aveva sempre oscillato tra una via e l'altra, ma, contrariamente a me, non ne deduceva che una terza via non si potesse trovare. Mi ricordava il libretto appena scritto "Partito socialista italiano" e un articolo su "Nuovi argomenti" per ulteriori chiarimenti. Si trattava dell'articolo "La via pacifica al socialismo e la realtà italiana di oggi" (nota bene: egli preferiva parlare di via pacifica anziché di via democratica) pubblicato sull'ultimo numero del 1957. Il primo passo su questa via era l'attuazione della Costituzione, il cui cardine era, come ebbe a dire più volte, l'articolo 3 che considerava un po' come una sua creatura, vale a dire il passaggio dalla democrazia formale a quella sostanziale, passo che non doveva essere concepito come un balzo unico e improvviso, ma come un processo lento e continuo sino a che le vecchie classi avessero perduto la forza di opporsi con la violenza, rendendo così anche superfluo l'uso della violenza rivoluzionaria. La proposta politica si poggiava su un'analisi spietata della storia della politica attuale della nostra classe dirigente, che non aveva mai avuto né tradizioni né spirito democratici, e del resto era possibile - egli si chiedeva - un'autentica democrazia in una società capitalistica che restava una società di classe?
Intanto uno dei presupposti per l'attuazione di questa nuova via al socialismo era quella di respingere la tentazione di un'alleanza con la Democrazia cristiana. Solo un'alternativa di sinistra avrebbe potuto dare inizio a quel lungo processo di allargamento delle basi della democrazia da cui sarebbe nato il nuovo stato socialista. Di questa tesi si farà portatore nel documento preparato per il 33° congresso socialista, svoltosi a Napoli nel 1959, in cui, contro coloro che si abbandonavano alle illusioni di una "apertura a sinistra" della DC, riaffermava la tesi, cui sarebbe rimasto fedele sino all'uscita dal partito di cui pure era stato uno dei fondatori, che "solo una politica che si presenti come una alternativa alla DC è oggi una politica che risponde agli interessi dei lavoratori e della democrazia". Nella lettera menzionata spiegava: "Anche questa via è fatta di riforme, ma - e questo mi pare il punto essenziale di differenziazione dal riformismo - di riforme che siano sempre nella linea di un accrescimento di potere delle masse lavoratrici e quindi di una modifica strutturale del sistema, e non, come accade per il riformismo turatiano di cui ho parlato e come accadrebbe per un'eventuale apertura a sinistra, nella linea di un appoggio a un rafforzamento del sistema". Di questa posizione avrebbe tratto con coerenza tutte le conseguenze pochi anni dopo.
Basso si considerò sempre marxista, ma come è ben noto il marxismo cui si ispirava fu quello basato sull'interpretazione di Rosa Luxemburg, che all'inizio del secolo aveva rifiutato il revisionismo bernsteiniano, e in seguito rifiuterà anche l'autoritarismo di Lenin. All'inizio degli anni '60 ebbimo uno scambio di conversazioni e di lettere per un'eventuale pubblicazione di una raccolta di scritti della Luxemburg che egli aveva proposto a Einaudi e di cui egli stesso aveva curato in tempi diversi la traduzione. Di fatto poi i suoi libri luxemburghiani uscirono altrove, per ragioni che non mi riesce più di ricordare. Ricordo invece benissimo che a nome del Centro Piero Gobetti, con il quale egli aveva sempre mantenuto rapporti amichevoli (ma sui rapporti tra Basso e Gobetti ci sarebbe un lungo e interessante studio da fare), lo invitai a tenere la prolusione nel giorno dell'inaugurazione annuale del Centro, che cade in febbraio, mese della morte di Gobetti, appunto su Rosa Luxemburg.
Basso era un oratore efficacissimo che ho sempre ammirato e un po' anche invidiato. Non indulgeva all'eloquenza comune agli uomini politici che sono anche avvocati. Era chiaro, rapido, tagliente, persuasivo. Sarebbe stato un bravissimo docente universitario. Ne ero talmente convinto che lo invitai due volte a tenere un seminario agli studenti dell'Istituto di scienze politiche quando nei primi anni '60 (il '68 era-alle porte) mi rendevo conto che gli studenti volevano ascoltare altre voci e occorreva rompere l'isolamento dell'Università e avvicinarla alla società e alle battaglie civili che vi si combattevano. Basso era l'uomo adatto. La sua forte vocazione politica non l'aveva mai distolto dagli studi, di cui erano nutriti i suoi saggi e i suoi discorsi, pubblicati nelle più diverse riviste italiane e straniere. Tra queste "Problemi del socialismo" si era subito contraddistinta come rivista di seria cultura politica. Proprio per queste sue qualità di uomo di cultura non dilettantesca egli fu uno dei non molti politici italiani i cui scritti siano stati ampiamente pubblicati su riviste di altri paesi e fu noto fuori d'Italia anche per l'attività spesa per il Tribunale dei popoli.
Uno degli ultimi incontri avvenne a Bologna tra il 24 e il 26 dicembre 1977 in un convegno dedicato a Rodolfo Mondolfo. Ne ho un ricordo vivissimo, sia per la serata trascorsa tra amici in una trattoria bolognese in cui Lelio tenne in mano il filo della conversazione raccontando alcune storielle divertenti con un brio straordinario (una di queste la ricordo ancora e mi è accaduto di raccontarla seppure senza il medesimo successo), sia per una famosa nevicata che aveva bloccato la stazione e gli impedì di partire e lo fece tornare al convegno anche l'ultima mattinata. Fu proprio durante l'ultima parte di questo convegno che egli mi rivolse alcune garbate critiche, che erano in realtà critiche a Mondolfo che io avevo difeso perché, avendo accolto allora le tesi dei menscevichi, aveva previsto quello che sarebbe avvenuto, vale a dire che sarebbe stata inevitabile la dittatura. Basso sostenne - ho conservato alcuni appunti delle sue osservazioni - che Mondolfo aveva avuto ragione teoricamente, ma non politicamente.
Un ulteriore scambio di idee - anche questo caratterizzato da un amichevole contrasto - avvenne pochi mesi prima della sua morte. L'avevo questa volta interrogato sul tema dell'estinzione dello Stato, non ricordo a proposito di quale suo scritto. Mi rispose con una lunga lettera del 18 maggio 1978, spiegando che la questione era in gran parte una logomachia, perché Marx distingue due funzioni dello Stato, lo stato amministrativo e quello politico (che è lo stato di classe che si serve della forza per governare), e solo di quest'ultimo prevedeva l'estinzione. Alla mia idea fissa di allora, non esservi in Marx una vera e propria teoria dello Stato, rispondeva che a Marx non interessava dare ricette per l'avvenire, ma descrivere la teoria di un processo e "questa ce l'ha data come poteva darcela uno che era uno studioso e non un indovino". Alla mia replica sullo stato attuale dell'Unione Sovietica che contraddiceva questo processo rispose con un'altrettanto lunga lettera del 27 giugno accennando a un libro cui stava lavorando da alcuni anni, in cui voleva dimostrare che Marx non aveva avuto veri e propri continuatori e che il leninismo aveva ben poco a che fare con il marxismo. D'accordo quindi con me con le critiche al socialismo reale, che però egli non considerava marxismo. D'accordo anche con coloro per cui il marxismo era in "crisi totale", il che non scalfiva minimamente il pensiero originale di Marx. Concludeva con questa frase che meglio di un lungo discorso dà la misura della serietà del suo impegno e della fermezza dei suoi ideali: "Riprendere il genuino pensiero di Marx è stato lo scopo della mia vita di militante anche se, in questa come in tante altre cose, sono andato incontro a sconfitte, che non mi hanno disanimato, sicché intendo :ancora continuare questa battaglia".
L'ultimo nostro dibattito pubblico avvenne due mesi prima della sua morte, nell'ottobre 1978, a Perugia, durante un convegno su "Non violenza e marxismo nella transizione al socialismo", svoltosi per iniziativa della fondazione Capitini. Nella mia relazione avevo contrapposto il religioso, di cui vedevo un esempio in Capitini, al rivoluzionario, che vedevo rappresentato nella tradizione marxistica, in base al criterio del rifiuto o dell'accettazione della violenza. Nel suo intervento Basso disse che mi conosceva da 45 anni, dal 1933 (ed era esattissimo), e mi stimava; poi aggiunse: "Credo che (Bobbio) Marx l'abbia letto poco, perché veramente tutto che scrive non ha niente a che fare con Marx; ha solo a che fare con quello che i deformatori hanno chiamato marxismo".
La battaglia era cominciata molto presto per lui, come racconta nel breve ma denso opuscoletto scritto nel '71, 'La mia prima tessera socialista': cominciò nel momento in cui aveva preso coscienza nel primo dopoguerra della tragica realtà delle ingiustizie sociali e si trovò d'istinto - come scrive - "dalla parte delle masse". Il socialismo gli si era presentato come un grande moto di redenzione umana; a questo moto diede per tutta la vita un contributo di lucida intelligenza e di irrefrenabile azione, con un'energia vitale e con una passione che gli anni e le delusioni politiche non diminuirono. Non aveva mai cercato il potere e per questo aveva fatto, quando era necessario, parte per se stesso, ma non era mai stato un isolato. Amava la compagnia dei giovani, cercava nei giovani quel fervore ideale che troppi compagni perdutisi nella lotta politica quotidiana avevano lasciato spegnere. Non aveva illusioni, ma non si abbandonava mai allo sconforto, aveva ferma la convinzione che questo grande moto di redenzione umana che era stato il socialismo era più vivo che mai nei paesi del Terzo Mondo che combattevano per la propria indipendenza. Aveva capito che in una prospettiva mondiale la storia del socialismo, contrariamente a quello che pensano coloro cui la paura di perdere il potere ha reso la vista corta, era appena cominciata.

[Tratto da AA.VV., Socialismo e democrazia. Rileggendo Lelio Basso, Concorezzo, Gi. Ronchi Editore, 1992 che raccoglie le relazioni e gli interventi dell’omonimo convegno svoltosi a Milano nel 1988]