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Salvatore Senese
(Tarsia, 1935)



Magistrato. Deputato nell’XI legislatura e senatore nelle legislature XII e XIII. Membro di varie commissioni parlamentari. È stato presidente della Fondazione internazionale Lelio Basso per il diritto e la liberazione dei popoli e presiede l’Associazione per la storia e le memorie della Repubblica. Si occupa di politica della giustizia.


[…] Basso fu fin nel profondo “uomo di sinistra”, al di là delle apparenti contraddizioni di una personalità estremamente ricca. Poche personalità politiche ebbero così forte il senso della laicità come Lelio Basso, una laicità nei confronti degli schemi consolidati, delle vulgate di scuola o di partito, delle dottrine politiche; egli fu portatore di una inquietudine intellettuale di fondo che gli impedì sempre di rimanere intrappolato entro gabbie concettuali.
Fu certamente uno dei più profondi conoscitori del marxismo, ma delle cui categorie seppe avvalersi in particolare per rompere quegli schemi concettuali sclerotizzati che assai spesso pretendevano di legittimarsi con il richiamo al marxismo. Il marxismo per lui fu soprattutto una lezione di metodo, una grammatica della concretezza per calare entro i processi storici reali l'istanza di liberazione del soggetto umano. Basso dunque maestro di concretezza? Ecco una prima provocazione che lancio agli illustri ospiti della nostra tavola rotonda. Questa istanza di liberazione lo accompagnò per tutta la vita e fu il contrassegno più profondo del suo essere di sinistra, un’istanza etico-politica che attraverso il marxismo si depurava dalle impazienze e dai massimalismi. Egli sapeva cogliere e valorizzare i risultati parziali, di cui scorgeva le potenzialità non solo sul terreno economico-sociale, ma anche su quello istituzionale, culturale, artistico-scientifico, del costume; sempre fedele all'idea, certamente di derivazione marxiana, della formazione economico-sociale come totalità che, sono sue parole: “abbraccia non soltanto il processo economico nei suoi diversi momenti, ma tutti gli elementi della società e l'intera vita sociale, comprese le forme giuridiche, politiche e culturali”.
Una totalità non monolitica né indifferenziata, nella quale i vari momenti non solo non perdono la loro relativa autonomia, ma rappresentano altrettanti terreni sui quali si gioca la partita della liberazione del soggetto, via via che se ne presentano le condizioni, e dunque la possibilità. Ecco un altro tema che propongo […]: il concetto di liberazione come possibilità e non come fatalità, non come necessità storica. Questo fu uno dei capisaldi della concezione storico-politica di Basso, rifiutare cioè ogni beota fiducia in una sorta di immancabile radioso futuro dell'umanità e al tempo stesso ogni disarmante rassegnazione dinanzi all'esistente. La “possibilità” di liberazione fondava in lui la speranza, altro contrassegno del suo pensiero politico, e insieme la tensione dell’intelligenza per individuare le condizioni di un intervento cosciente e volontario, anche in vista di risultati parziali che egli insegnò a non disprezzare mai, raccomandando solo che essi si accompagnassero alla presenza cosciente dello scopo finale nel quale inquadrarli. Ed è proprio in questa cornice che si colloca quella valorizzazione del ruolo del diritto propria della migliore cultura di tradizione marxista e troppo a lungo sacrificata dalle varie vulgate che riducevano il diritto a meccanismo puramente sovrastrutturale, senza indagare le possibilità che esso presenta e le sfide che esso propone. Lelio vedeva il trasferimento della struttura contraddittoria della società nelle istituzioni e nel diritto, ed egli insegnò che questo era un terreno su cui impegnarsi anche per valorizzare la logica contraddittoria che sempre pervade la totalità.
[…]
Dall’attenzione per gli obiettivi parziali deriva anche il suo insistere perché non ci si estraniasse dai processi che si sviluppano all'interno della società capitalistica e ci si sforzasse, invece, di cogliere all'interno di tali processi i segni di una logica antagonista che la contraddizione immanente tra sviluppo delle forze produttive e carattere dei rapporti di produzione fatalmente genera. Da queste premesse nasce il suo rifiuto di accogliere la distinzione, all'epoca ancora molto in voga nella sinistra, tra riformisti e rivoluzionari, e anche l'individuazione di terreni d'impegno apparentemente eccentrici o addirittura estranei all'orizzonte della sinistra del tempo. Ne voglio citare soltanto alcuni. Uno di questi è il terreno dei diritti umani.
La storia dei diritti umani in questa seconda metà del secolo è una storia che andrebbe studiata con grande attenzione in un momento in cui tutti si affannano, e specialmente oggi che ricorre il cinquantenario della dichiarazione universale, a rivendicarne la bandiera. A un primo sguardo storico bisogna dire che la Dichiarazione universale dei diritti umani nasce soprattutto per volontà delle potenze occidentali e si fonda, all'inizio, su di una innegabile ipocrisia: presente già nella Carta dell'ONU, dalla quale la Dichiarazione deriva per il dettato degli articoli 55 e 56, che afferma i diritti dell'uomo e al tempo stesso lascia sussistere gli imperi coloniali. Il superamento degli imperi coloniali non è infatti visto nella Carta delle Nazioni unite come un imperativo cogente ma soltanto come una meta lontana, come qualcosa che dovrà raggiungersi a conclusione di un processo, mentre la Dichiarazione universale pone con carattere di cogenza la tutela e la difesa dei diritti umani. Ciò ha fatto sì che per qualche decennio i diritti umani siano stati la bandiera di una delle parti del mondo diviso in due blocchi, una bandiera alla quale l'altra parte rispondeva agitando il vessillo del diritto dei popoli. Ancora alla metà degli anni settanta uno studioso attento come Antonio Cassese poteva scrivere che se si dà uno sguardo all'insieme del mondo questo appare diviso in due metà: l'una che innalza il vessillo dei diritti umani e l'altra che innalza, sull'altra barricata, il vessillo dei diritti dei popoli.
Lelio Basso ruppe assai precocemente tanto l'ipocrisia quanto la dicotomia. Agli inizi degli anni settanta egli si fece promotore del Tribunale Russell America latina con cui, attraverso un approccio induttivo, lanciando la denuncia delle gravissime violazioni dei diritti umani, al tempo stesso legava queste violazioni ai processi storici più ampi che negavano i diritti dei popoli. Diritti umani e diritti dei popoli venivano così mostrando come gli uni non possano sussistere senza gli altri. Quando inaugurò il Tribunale Russell sull'America latina egli lanciò una sorta di appello in cui motivava l'iniziativa con la necessità di colmare il vuoto istituzionale esistente nella società internazionale circa la protezione dei diritti umani, ma al tempo stesso sollecitava la coscienza delle donne e degli uomini a una mobilitazione che desse concretezza a quegli stessi diritti umani, costringendo la società internazionale a uscire fuori dai suoi schemi classici ancora legati a quelli di Westfalia.
Sono passati venticinque anni e oggi vediamo Pinochet perseguito per violazione dei diritti umani su una sfera transnazionale. C'è stato un cambiamento nel paradigma giuridico e nel paradigma politico, e ciò è avvenuto proprio sotto la spinta della coscienza di milioni di donne e di uomini, quella stessa coscienza che faceva arricciare il naso ai marxisti ortodossi allorché Lelio la evocava come fattore di cambiamento, come fatto reale, come elemento del processo storico che, unito agli altri elementi, può andare avanti. Su tutto ciò credo valga la pena riflettere.
Mi sovviene poi il tema dell'ambiente, oggi persino scontato, ma nel 1973 non era così, quando Lelio denunciava per la prima volta il saccheggio dell'Amazzonia e metteva in guardia contro i gravissimi disastri che, proprio per i diritti degli uomini e per i diritti dei popoli, ne sarebbero derivati.
Potrei citare la questione del debito estero, che egli con grande lungimiranza additò come una delle cause dello squilibrio mondiale; e ancora la visione lucida dell'interdipendenza, che in qualche modo anticipava l’attuale scenario di globalizzazione.
Tutti quei punti si trovano poi mirabilmente racchiusi nella Dichiarazione universale dei diritti dei popoli, proclamata ad Algeri il 4 luglio del 1976. E sono espressi in formule normative che ancora oggi, anzi oggi più che mai, hanno una loro validità, direi anche euristica: una serie di punti in cui il disordine mondiale emerge come fattore di sollecitazione e trova delle risposte.
Prendiamo, per esempio, il tema dell'autodeterminazione, che tante volte in questi anni è divenuto vessillo di posizioni assolutistiche, retrive, passatistiche. Nel testo della Dichiarazione di Algeri l'autodeterminazione, che pure viene affermata come un diritto fondamentale, incontra il limite dell'altrui diritto all'autodeterminazione e più in generale della necessaria coesistenza di sfere diverse, individuali e collettive. Un limite, quello della interdipendenza, che scorgiamo in tutti i diritti fondamentali elencati nel testo.
A proposito di Basso si è parlato di un’ispirazione libertaria-umanistica, è ciò è vero, ma questa ispirazione è svincolata da momenti di astrattezza.
[…] vorrei terminare con una domanda che ci riporta all'oggi: si è spesso scritto che Lelio fu un isolato (ricordo che, forse dieci anni fa, Stefano Rodotà ebbe a rispondere con garbo e brio che se la sua fu solitudine, mai solitudine fu così affollata di allievi, di persone desiderose di entrare in contatto con lui e di recepirne gli stimoli e gli insegnamenti) e certamente lui, che fu uomo di partito, che sentì profondamente il partito, visse gli ultimi anni della sua vita fuori da ogni partito. A cosa è dovuto questo? Cosa indica, quali spiegazioni, quali chiarimenti possiamo dare? Non è forse questo la spia di una crisi più generale per affrontare la quale abbiamo bisogno delle categorie teoriche e soprattutto di uno sguardo distaccato dall'immediato contingente quale Lelio ci ha insegnato ad avere?

[Tratto da Fondazione Internazionale Lelio Basso – Fondazione Lelio e Lisli Basso-Issoco – Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli, Lelio Basso e le culture dei diritti, Atti del Convegno internazionale, Roma, 10-12 dicembre 1998, Roma, Carocci, 2000]