Elena Paciotti
Magistrato, deputato al Parlamento europeo,
Presidente della Fondazione Lelio e Lisli Basso – Issoco. Dal 1967
nella magistratura, svolge gran parte della sua attività presso
il Tribunale di Milano come giudice civile e penale. Nel 1986 è eletta
membro del Consiglio superiore della magistratura. Per due volte presidente
dell’Associazione
nazionale magistrati nei bienni 1994-1995 e 1997-1998. Al Parlamento
europeo dal giugno 1999 partecipa alla redazione della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea approvata a Nizza nel luglio 2000
e ai lavori della Convenzione per l’elaborazione della Costituzione
europea.
La "scoperta" di Lelio Basso ha coinciso per me con la scoperta
della ineliminabile politicità del diritto e della giurisdizione,
avvenuta allorché, nel 1967, sono entrata in magistratura
(da poco erano state infatti ammesse anche le donne).
Subito aderii a Magistratura Democratica, un movimento di giudici progressisti,
da poco fondato, che negli anni successivi della sua contrastata crescita
vide spesso in Lelio Basso non solo un compagno di singole battaglie
- come quella contro la legge Reale - ma anche l'ispiratore di grandi
prospettive di valori democratici ed egualitari nel mondo del diritto.
Era ancora viva all'epoca l'eco delle polemiche suscitate dal conflitto
ideale che aveva percorso e diviso il Congresso nazionale dei magistrati
svoltosi a Gardone nel novembre del 1965: da un lato i sostenitori della
tesi secondo la quale i giudici debbono essere interpreti e garanti
dell'indirizzo politico fondamentale incorporato nella Costituzione
(costituito da un insieme di valori- elevato a finalità di tutto
l'ordinamento e da un correlativo sistema di garanzie essenziali, che
non può essere modificato dalle contingenti maggioranze di governo)
e, dall'altro, i sostenitori della tradizionale visione del giudice
come mero applicatore delle leggi esistenti (non importa se ispirate
a sistemi di valori precostituzionali, come gran parte delle leggi e
dei codici vigenti, emanati nel periodo fascista), di cui sarebbe vietata
ogni interpretazione "evolutiva", pena lo sconfinamento
nell'ambito riservato al potere politico.
Lelio Basso, intervenuto nel dibattito per appoggiare la prima tesi -
con quella sua straordinaria capacità di rendere comprensibili
a tutti, con semplici riferimenti alla realtà dei fatti, anche
concezioni teoricamente complesse - dopo aver ricordato il suo contributo
alla formulazione degli artt. 3 e 49 della Costituzione, nei quali si
introducono principi metagiuridici che debbono guidare l'interpretazione
delle leggi, e dopoo essersi soffermato sul peso esercitato dalla
giurisprudenza nell'attuazione o non attuazione dell'indirizzo politico
costituzionale, fece esplicito riferimento critico all'interpretazione
della legge sull'amnistia in senso favorevole ai collaborazionisti
e sfavorevole ai partigiani, alla forzatura delle norme costituzionali
per asserire la liceità della serrata, alle assoluzioni di mafiosi
accusati dell'uccisione di sindacalisti.
Gli esempi, calzanti, furono sentiti come una sferzata da una platea
di magistrati che in grandissima parte erano di formazione precostituzionale,
abituati ad ossequi formali e insofferenti d'ogni critica. Invano tentarono
di impedire a Basso di parlare. Egli concluse fra gli applausi e,
alla fine, il Congresso approvò per acclamazione una mozione nella
quale si dichiarava "decisamente contrario alla concezione che pretende
di ridurre l'interpretazione ad un'attività puramente formalistica,
indifferente al contenuto ed all'incidenza concreta della norma
nella vita del paese. Il giudice, all'opposto, deve essere consapevole
della portata politico-costituzionale della propria funzione di garanzia,
così da assicurare, pur negli invalicabili confini della sua subordinazione
alla legge, un'applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali
volute dalla Costituzione".
Quel lontano, emblematico episodio è rimasto a lungo nella memoria
dei giudici democratici. In una nota di Marco Ramat, pubblicata recentemente,
si legge: "che io sappia e ricordi, ci fu soltanto una grande figura
della sinistra a cogliere, in quegli anni, il senso progressista, democratico,
della lotta per l'indipendenza della magistratura: Lelio Basso. Il quale
non ebbe ritegno, l'ho già ricordato, a sostenere con Maranini,
avanti la Corte Costituzionale, le ragioni del Consiglio Superiore della
Magistratura contro il Ministro; neppure fu un caso che si ritrovarono
insieme, al Congresso di Gardone, a sfidare la Vandea... Basso ne provocò le
urla di protesta perché nel suo intervento indicò come
esempio di non indipendenza i processi fatti e non fatti contro la mafia.
Urla che salirono al cielo ... Presiedeva la seduta Nicola Serra, sfingeo,
contrastato tra il desiderio di mettersi coi suoi e quindi di zittire
Basso, e la necessità di tener conto dell'altra parte, che
gridava 'parli, parli' e che alla fine prevalse con un grande applauso
all'oratore".
Ma ben altro, e di ben altra portata, è stato il contributo che
Lelio Basso ha fornito ai giuristi progressisti, e in particolare
ai magistrati democratici: in molti restammo affascinati dalle potenzialità evolutive
introdotte nel sistema dal "suo" art. 3, capoverso, della Costituzione,
nel quale si impone di "rimuovere gli ostacoli di ordine economico
e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei
cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica
e sociale del Paese". Ci sembrava che questa potente denuncia del
sistema esistente, contenuta nella carta costituzionale - la rivoluzione
promessa di cui parlava Calamandrei - fosse uno strumento di reale legittimazione
sia dei nostri tentativi di introdurre nell'attività giudiziaria
contenuti di maggiore democrazia sia delle nostre critiche alla legislazione
e alla giurisprudenza prevalenti, che ignoravano il modello di società prefigurata
dalla Costituzione. E apprezzavamo, comprendendole appieno, le parole
di Basso: "La ragione per cui ho tenuto ad inserire questo articolo
era proprio questa: che esso smentisce tutte le affermazioni della Costituzione
che danno per realizzato quello che è ancora da realizzare (la
democrazia, l'uguaglianza ecc.), mette a nudo il valore puramente
ideologico di certe affermazioni e tende a demistificarle".
Su questi temi ci confrontammo nel successivo Congresso nazionale dei
magistrati svoltosi a Trieste nel settembre 1970 (in cui tenni la
relazione per conto di Magistratura Democratica), presente Lelio Basso,
che condivise le nostre critiche alla funzione repressiva delle lotte
sindacali attribuita in quegli anni alla magistratura. Illuminante
e di grande spessore fu poi la relazione conclusiva di Lelio Basso al
convegno sul tema "Giustizia e Potere" tenutosi a Chianciano
nell'ottobre del 1971. In essa sono analizzati, dal punto di vista dello
studioso del marxismo, gli errori commessi dal movimento operaio nel
sottovalutare i problemi istituzionali e di ordinamento giuridico,
così da trascurare, all'indomani della Resistenza, "una revisione
abbastanza radicale e profonda della legislazione fascista", limitandosi "a
ritocchi dei codici assolutamente insignificanti". "Mi sono
domandato allora e mi domando ora - osservò Basso, e in seguito
più volte mi è tornato in mente in altri contesti questo
interrogativo - se questo atteggiamento fosse dovuto ad un marxismo piuttosto
rozzo che tendeva a sottovalutare i fenomeni sovrastrutturali o se fosse
invece dovuto ad un ottimismo che portava a sopravvalutare le possibilità future
della sinistra". Ricordando l'impegno di Marx in favore delle
conquiste legali, in Inghilterra, dell'estensione del diritto di voto
e della legislazione sulle fabbriche, non tanto perché queste
leggi miglioravano la condizione dei lavoratori quanto perché introducevano
una logica nuova, la "logica socializzatrice della classe operaia" all'interno
del vecchio sistema di leggi, Basso esaltò, contro ogni massimalismo
e ogni empirismo, il ruolo progressista della battaglia per un nuovo
diritto. Sottolineando la funzione ideologica dell'ordinamento giuridico
("cioè quella di far credere ai cittadini che essi sono
tutti uguali di fronte alla legge, mentre nella realtà, nel substrato
che si cerca di nascondere, i cittadini sono profondamente disuguali"),
osservò: "Se noi ci limitassimo, quando leggiamo 'La
legge è uguale per tutti' a dire 'non è vero'... se noi
in queste frasi... vedessimo solo delle bugie e non anche la forza che
se ne può trarre, avremmo commesso lo stesso errore. Attraverso
questi principi generali che sono, ripeto, in contraddizione con
la realtà... noi abbiamo già una prima strada di inserimento
per il futuro mondo che su questi principi sarà basato, e che
viene preannunciato già all'interno della vecchia società dalla
loro semplice proclamazione".
Non è difficile immaginare l'interesse con il quale queste riflessioni
vennero accolte da quei magistrati progressisti contro i quali allora
e negli anni seguenti fu condotta una vera e propria crociata, affinché fossero
espulsi dalla magistratura. Può far sorridere oggi ricordare le
parole pronunciate dal Procuratore generale di Firenze, Mario Calamari,
all'inaugurazione dell'anno giudiziario 1973: "Ma ora il fiore
del male è sbocciato nel nostro campo, dove alcuni, scarsi di
numero, ma estremamente combattivi, hanno disorientato la pubblica opinione
per avere abbandonato quella veste di riserbo e di rigorosa imparzialità che
rappresenta il connotato tipico della figura tradizionale del buon giudice
...". A quei tempi ironizzavamo bensì su queste frasi, ma
eravamo consapevoli che non restavano senza effetti, in termini di procedimenti
disciplinari, limitazioni di carriera, diffamazioni. E ci era di conforto
trovare nelle parole di Lelio Basso, pronunciate a conclusione del convegno
di Chianciano, conferma dell'utilità della nostra scomoda battaglia: "Credo
che ... si siano già fatti in Italia passi notevoli rispetto al
passato, per merito principalmente di Magistratura Democratica ...
Certo questi giudici sono una minoranza. Le loro decisioni possono essere
riformate o cassate. Tuttavia ciò, a mio giudizio, non diminuisce
il significato del fenomeno ... È un lavoro lento, paziente, per
trasformare e modificare i valori culturali. Si tratta di trovare
in queste brecce, in queste contraddizioni, lo strumento per un'interpretazione
alternativa. Non c'è bisogno di gesti vistosi e di frasi ad effetto
... Noi che magistrati non siamo abbiamo il dovere di comprendere e assecondare
questo sforzo".
Negli anni successivi partecipai con entusiasmo alle attività di
sostegno e diffusione dell'opera del secondo Tribunale Russell contro
la repressione in America Latina: ma di questa straordinaria espressione
della creatività e dell'entusiasmo di Lelio Basso e della sua
capacità di scoprire, suscitare e diffondere simili doti negli
altri, non spetta a me parlare, avendo partecipato marginalmente a questa
grande impresa, che coinvolse centinaia di persone in diverse parti del
mondo. Dal mio punto di vista non si trattò soltanto di un'opera
di grande valore politico e morale, di denuncia e di condanna di regimi
dittatoriali inumani, ma anche di un'elaborazione culturale tesa al superamento
di concezioni meramente individualistiche del diritto, alla legittimazione
come soggetti del diritto internazionale dei popoli anziché degli
Stati. Un'elaborazione che culminò con la formulazione, nel 1976,
della "Dichiarazione universale dei diritti dei popoli",
la Carta di Algeri.
Gli "anni di piombo" che ci separano da quella stagione attenuano
il ricordo del fervore di solidarietà e della tensione morale
e ideale che animò tanti. Ora quell'opera è proseguita,
in altre forme, da pochi. Ma forse è giunto il momento di tornare
a riflettere su quei temi, di raccogliere l'eredità di Lelio Basso,
quella felice sintesi di passione politica e di originale ricerca intellettuale
che egli ha saputo esprimere anche sui temi del rapporto dialettico fra
società e diritto, fra lotta politica e presenza istituzionale,
fra popoli e stati.
In un mondo sempre più dominato da spietate logiche mercantili,
nel quale le risorse naturali e i beni essenziali sono rapidamente
distrutti a momentaneo beneficio di pochi e a permanente danno di tutti,
ma nel quale sta sorgendo una diversa coscienza della necessità di
difendere la vita, la pace, l'ambiente al di là degli egoismi
distruttivi, l'insegnamento che si trae dall'opera di Lelio Basso è un'eredità preziosa.
Egli ci ha insegnato a pensare e costruire un mondo diverso dentro il
mondo presente, in tensione costante con questo, superando schemi
mentali radicati ma falsi, che nascondono la realtà anziché interpretarla.
Il suo modo di approccio ai problemi collettivi, appassionato ma privo
di pregiudizi, può rivelarsi attuale in molti campi nei quali
si è esercitato il suo impegno di studioso e di uomo di azione:
nella lotta contro i risorgenti razzismi, nel confronto col mondo cattolico,
nei rapporti con culture e religioni diverse.
Anche ai movimenti delle donne Lelio Basso dedicò attenzione e
interesse.
In questi ultimi anni, dopo la sua scomparsa, i movimenti femministi
hanno denunciato con forza la falsa universalità dei modelli culturali
maschili, la falsa uguaglianza che è riconoscimento di parità soltanto
a coloro che sono simili, omologabili al proprio modello: lo stesso inganno
per cui si è chiamato suffragio "universale" l'estensione
del voto a tutti i maschi maggiorenni.
Quando taluno stenta a comprendere la semplice verità di questi
assunti mi piace ripetere quanto con semplice efficacia usava ricordare
Lelio Basso: che fra quanti il 4 luglio 1776 approvarono la Dichiarazione
d'Indipendenza degli Stati Uniti e la relativa Dichiarazione dei
diritti dell'uomo, secondo cui "tutti gli uomini nascono liberi
e uguali", vi erano proprietari di schiavi!
[Tratto da AA.VV., Socialismo
e democrazia. Rileggendo Lelio Basso, Concorezzo, Gi. Ronchi Editore,
1992 che raccoglie le relazioni e gli interventi dell’omonimo convegno
svoltosi a Milano nel 1988]
|