Giovanni Bianchi
(Sesto San Giovanni, 1939)

Impegnato nelle file del cattolicesimo sociale,
come studioso e come dirigente. Negli anni settanta è presidente
regionale delle Acli lombarde e alla fine degli anni ottanta viene
eletto presidente nazionale. Dal 1994 deputato per il Partito popolare
italiano di cui è presidente
nel biennio 1995-1996.
[…] Vorrei notare e far rilevare due tratti essenziali e
costitutivi della riflessione di Lelio Basso intorno alla questione cattolica.
Più precisamente:
1) La questione del partito cattolico non si sovrappone mai né esaurisce
la sua analisi intorno alla questione cattolica. Ovvero: secondo Basso
il partito cattolico, divenuto nell'Italia repubblicana la Democrazia
cristiana, non è per se stesso espressione globale ed esaustiva
del mondo cattolico. È da rilevare che Basso insiste su questo
concetto - tornando più spesso ad accennare al popolarismo democratico
- in anni in cui discorsi cultural-politici come il suo stentano ad affermarsi
o, quanto meno, a trovare pacifica accoglienza e diritto di cittadinanza
nella sinistra e, in particolare, nel partito in cui milita e di
cui è dirigente.
2) Nel far ciò Basso, contemporaneamente, non esaurisce il senso
della sua battaglia solo in una questione specifica di tattica politica
- a cui pure guardava. Questa battaglia presume una convinzione profonda
che egli-intende far acquisire al "popolo della sinistra in
Italia" e cioè il superamento di un linguaggio - e quindi
anche di una cultura di cui tale linguaggio sarebbe espressione - vetero-socialista.
[…] Mi soffermerò particolarmente sul primo punto e tralascerò il
secondo. Tuttavia, prima di entrare in medias res, credo sia opportuno
tentare di individuare il nesso che li lega.
Quando nel dicembre 1978 Lelio Basso muore, scompare una delle ultime
figure in cui la sfera del politico e quella dell'intellettuale si fondevano
insieme e si riconoscevano nella loro reciproca autonomia, ciascuno
riferendosi a campi distinti, ma in cui i punti interrogativi della prima
rinviavano alla seconda e viceversa.
Da questo lato è vero, com'è stato detto, che con Basso
scompare l'ultima figura rilevante per l'elaborazione e lo sviluppo del
'marxismo occidentale', cioè di una stagione di intellettuali
e di attori politici per i quali movimento operaio, fascismo, stalinismo,
revisionismo, riformismo, nonché i problemi e le conseguenze di
una rivoluzione fallita erano cose vive e presenti. Ma questo rilievo
di per sé non esaurisce il problema. Dire questo significa affermare,
almeno implicitamente, altre due cose: la fine di una corrente di pensiero
politico, da una parte e, dall'altra, la fine di un disegno per
una "riforma intellettuale e morale" che Basso rappresentava,
non tanto e non solo come individuo, ma soprattutto come generazione
di figure intellettual-politiche della sinistra europea.
Non è un caso, credo, che in Basso si svolgessero contemporaneamente
e spesso si intrecciassero la passione bibliofila sul socialismo europeo
della Seconda Internazionale e la ricerca appassionante sui valori politici.
Solo una lettura disattenta accomunerebbe questi due filoni a un
desiderio di restaurazione del carattere culturale p imigenio del socialismo
nella battaglia politica di Lelio Basso.
A monte risiedeva la ricerca di uno snodo culturale: quello di permettere
al socialismo di ritrovarsi nelle sue matrici epistemologiche ed
ideologiche (prima ancora che nelle ipotesi politiche) e dunque di rifondarsi
attraverso una ricerca appassionata non tanto di ciò che
i socialisti avevano perduto, ma soprattutto di ciò che "non
avevano mai capito". La questione cattolica si collocava al centro
di questa sua ricerca proprio per colmare il vuoto culturale di
una tradizione politica che troppo aveva delegato ad una lettura che
aveva assorbito la battaglia laica solo nella sua versione polemica anticlericale
e, in seconda battuta, anticattolica. L'attenzione al "senso comune
socialista" – oltre che all'ideologia storica del socialismo
europeo - come luogo attraverso cui si erano codificati pezzi rilevanti
di una identità che non poteva più, da sola, fondare un
discorso politico esauriente, si riduceva in lui in riflessione
sui linguaggi socialisti, sulle simbologie, sui laboratori culturali,
sulle vulgate come sintesi e fonte per la "diffusione di massa" dell'ideologia,
in quanto sedi ed espressioni di "codici e scenari di senso" con
cui era urgente fare i conti. Ma tutto ciò non come "escamotage",
bensì come operazione cultural-politica di lunga lena e in
cui non ci fossero improvvisi e veloci lasciapassare o facili scorciatoie
(perché a Basso fu sempre presente che un'operazione politico-culturale
poteva fondarsi solo annullando la prassi politica secolarmente
affermatasi in Italia come modello di governo e come sistema delle
relazioni e del confronto politico: il trasformismo).
Il 7 dicembre 1978, nove giorni prima della sua morte, Lelio Basso teneva
al Senato il suo ultimo discorso. L'occasione era stimolata dal
dibattito sulla revisione del Concordato.
Se la chiusa del suo discorso, rivolta all'utopia, a quella fede - laica
o religiosa - che motiva tutti gli uomini di buona volontà a credere "che
tutti gli uomini avranno un giorno su questa terra pari e piena dignità sociale,
saranno da tutti considerati fini e non strumenti del potere altrui" è per
molti aspetti tipica della sua oratoria (la ritroviamo in quella parabola
sul rapporto notte/luce con cui chiudeva il 13 luglio 1949 un suo
celebre intervento alla Camera dei Deputati), tuttavia conviene cogliere
quell'aspetto trasversale della sua cultura, quello stesso che fu parte
grande della sua curiosità intellettuale e della sua battaglia
politica.
E da questa chiusa conviene partire. Dunque dice Basso: Rileggevo pochi
giorni fa, tra un viaggio in Brasile e un viaggio in Giappone, dove andavo
ad inseguire ovunque queste mie utopie, le Epistole di Paolo su cui avevo
lungamente meditato cinquant'anni fa quando preparavo la mia tesi di
laurea in filosofia, e come sempre mi colpivano le sue parole là dove
ammonisce che con il Vangelo non vi sarebbero stati né giudei,
né gentili, né greci, né barbari. Vorrei citare
a memoria - chiedo scusa se sbaglio - l'epistola ai colossesi, dove
dice appunto: qui non c'è né greco, né giudeo, né circonciso,
né incirconciso, né barbaro, né scita, né liberi
né schiavi, c'è Cristo in tutti. È forse utopia
lottare, anche se purtroppo non si ha la forza di Paolo di Tarso, per
preparare un'umanità in cui essere cattolici o protestanti, cristiani
od ebrei, musulmani o buddisti, credenti o atei, non debba più costituire
per nessuno né motivo di persecuzione, né titolo di
privilegio?
Ma per giungere a questa conclusione, una osservazione che tiene conto
non solo della fonte citata ma anche di altri luoghi delle scritture
di Paolo, è al nerbo di tutta la sua battaglia politica e culturale,
soprattutto quella dell'ultimo ventennio, che egli veniva richiamandosi.
Basso in quest'ultima occasione, infatti, ribadiva la sua tesi di sempre:
che la soluzione dei rapporti tra Stato e Chiesa non si sarebbe posta
in seguito alla stesura di un ordinamento giuridico, ma sarebbe discesa
da una "maturazione civile e democratica nella coscienza dei cattolici".
Rilevava che questo problema, quello del Concordato, aveva dato luogo
a insoddisfazioni, più che risolvere problemi, giacché "è sempre
più diffuso tra i laici il sentimento che il Concordato è un'umiliazione
per lo Stato e tra i cattolici è diffuso il sentimento che sia
un'umiliazione per la Chiesa stessa". E se non tutte le aspirazioni
del Concilio si erano realizzate, pure rimaneva viva "la grande
parola del Concilio, 'la Chiesa non chiede privilegi, ma libertà',
rimane la parola d'ordine delle nuove generazioni cattoliche, soprattutto
nei popoli che emergono da secoli oscuri di oppressione. Ed è la
parola d'ordine che un giorno tutta la Chiesa dovrà fare propria".
E a questa nuova Chiesa che nasce ("muore una vecchia Chiesa che
si era appoggiata ai potenti e una nuova ne nasce che raccoglie il messaggio
di Giovanni XXIII che la sollecitava a guardare fiduciosa ad un
nuovo ordine di- rapporti umani", Basso si rivolgeva, convinto
che la strada verso la democrazia, verso una società di uomini
adulti e consapevoli, la si potesse percorrere con i cattolici e non
contro i cattolici. Perché "la dimensione religiosa è dimensione
di grande importanza per la vita dell'umanità e il momento religioso è momento
essenziale della vita di centinaia di milioni di uomini".
Alla luce di questo intervento, l'ultimo testo pubblico di Lelio Basso,
si possono individuare, sul tema della questione cattolica, alcune costanti
e allo stesso tempo ritrovare molti dei temi che furono di Basso
nell'arco di un lungo periodo di tempo e che - pur se la loro frequenza è maggiore
nel 1958-1963 - si strutturano secondo una costante: il confronto-scontro
con le istituzioni e il dialogo con gli uomini; il confronto con la Chiesa
istituzione e la DC e l'incontro con quegli uomini che all'interno
di quelle istituzioni sono all'opera per favorire la trasformazione.
Una distinzione questa che già negli anni della Resistenza
lo conduce a non esaurire la questione cattolica, e il problema cattolico,
come legato alla sola DC. Una distinzione che egli sempre individua
come originata da un vizio che imputa alla Chiesa istituzione: l'autofondarsi
di quest'ultima come contro soggetto politico rispetto allo Stato,
interpretandosi e autodefinendosi come luogo di riorganizzazione della
società civile. E in questo senso non solo portatrice di un altro
ordine, ma sovvertitrice non tanto di questo stato, ma dello Stato
moderno in quanto tale.
Ovvio che da tale definizione discendesse per Basso la necessità dì contrastare
il partito cattolico, non solo in quanto partito politico che riconosce
l'autorità ecclesiastica, ma che tenta la sua legittimazione
a partire dal riconoscimento di quell'autorità alle cui direttive
si ispira. È importante notare che per Basso quel partito non
sarà inaffidabile in prima battuta perché cattolico, ma
perché, così posto, esso non nutrirà nessun senso
dello stato. In quanto tale quel partito diventerà confessionale
e perciò non sarà affidabile.
Così definito il partito cattolico è essenzialmente antidemocratico.
Anzi, dire che esso possa diventare laico e autonomo è un non
senso perché, come osserva, "se le parole hanno un senso,
chi dice laicità dice una politica che non si fonda sulla connotazione
religiosa come criterio di distinzione".
E questo un criterio di lettura molto importante e a mio giudizio decisivo.
Pur non nominandolo, è indubbiamente a Luigi Sturzo e all'esperienza
del popolarismo democratico che Basso pensa come quell'esperienza politica
determinata dall'incontro "del laicato cattolico con una prassi
democratica che implica scelte, responsabilità e rischi personali".
In altri termini: la rottura di quel paradigma che vuole i cattolici
in politica come partito cattolico; la sua sostituzione per converso
e parafrasando Luigi Sturzo attraverso il Partito popolare come partito
democratico di cattolici e non come partito dei cattolici. Passaggio
delicato, sottile se vogliamo, ma fondamentale per l'affermazione di
una coscienza politica democratica da parte dei cattolici, come momento
di ridefinizione sul piano politico di una coscienza che si fa politica
e democratica e che deve maturare attraverso "la necessità di
un'autonomia e la responsabilità di decisione in sede politica,
la necessità cioè di una distinzione tra la sfera
dell'operare politico e la sfera dell'attività e della fede religiosa".
Un'ipotesi politica che non vede nei cattolici in quanto tali una forza
ostile e preconcettamente avversaria, ma che presume una lettura
plurima e variegata della loro realtà interna e che per sprigionarsi
ha bisogno che i cattolici si sottraggano al controllo politico
della Chiesa e del partito cattolico, pur conservando essi la loro fede
religiosa.
Il nodo da sciogliere diviene quindi l'unità politica dei cattolici:
finché essa sussiste, ritiene Basso, non sarà possibile
nessun progresso verso la democrazia all'interno del mondo cattolico.
Un processo che comunque Basso non vede possibile se non attuato dall'interno
dello stesso mondo cattolico e in cui altre forze (Basso pensa al
movimento socialista) possono intervenire ma solo come momento di incontro
e come palestra pedagogico-politica, non come luoghi dell'identità ideologico-politica.
Un processo che peraltro è reso più difficile a suo avviso
sia dalla conformazione storica dell'esperienza della maturità politica
della DC - in quanto più arretrata rispetto a quella rappresentata
dal popolarismo sturziano - sia dal comportamento politico della
sinistra italiana che individua nella DC il partito dei cattolici, non
permettendo una reale evoluzione dei processi e degli scontri interni
al mondo cattolico e favorendo la pretesa di assorbire tutto il
mondo cattolico in quanto tale. Per questa via l'incontro tra DC e PSI
sarà da lui rifiutato perché interpretato come ipotesi
di congelamento del "processo di maturazione democratica della base
cattolica, facendo rientrare molti propositi di autonomia".
È possibile dunque un incontro tra cattolicesimo ed esperienza democratica.
Ma questa si può produrre per due motivi: sia perché si danno
elementi valoriali propri del cristianesimo che possono condurre a un impegno
democratico profondamente vissuto (eguaglianza, rispetto della persona
umana, sia perché i democratici non cattolici devono liberarsi dal "pregiudizio
religioso" radicato in quella cultura anticlericale a cui lo stesso
movimento socialista si è spesso storicamente ispirato. "Pregiudizio
religioso" che significa ritenere che "cessando di essere cattolico,
il cittadino possa diventare un democratico e un socialista".
È in questo senso e non certo casualmente che Basso fu sensibile
al messaggio conciliare e al pontificato di Giovanni XXIII. "Quello
che a noi sembra di dovere principalmente sottolineare nell'opera di Giovanni
XXIII - scrive a pochi giorni di distanza dalla morte del Pontefice - è appunto
lo sguardo nuovo con cui egli ha guardato al mondo, agli uomini tutti,
credenti e non credenti, è l'aver sentito che la religione, anche
per chi la crede rivelata, è sempre un fatto umano, e che l'amore
cristiano, se non vuol essere una parola vuota, non può essere che
l'amore degli uomini reali, degli uomini come sono nella vita e nella
storia. Tutto questo s'è tradotto nella preminenza palesemente accordata
da Giovanni XXIII al momento pastorale sul momento teologico: pur senza
dissolvere la teologia nello storicismo, pur riaffermando i valori
teologici di cui la Chiesa si considera depositaria, Giovanni XXIII voleva
l'aggiornamento della Chiesa perché essa sapesse parlare agli uomini
del suo tempo".
È probabile che a un linguaggio politico "accorto e navigato",
come si dice, le indicazioni e il desiderio di dialogo di Basso possano
oggi apparire scontati. A noi resta però il dovere di sottolineare
l'impegno intellettuale e morale di un uomo che all'interno di una generazione,
certo la più segnata, dalla storia collettiva del '900 italiano,
cercava di superare steccati e lacerazioni tutt'altro che laterali. Una
battaglia politica e intellettuale ancora per molti aspetti attuale,
almeno nei termini generali. Il fatto che oggi il mondo cattolico è percorso
da diversi fermenti e guarda a più di un partito politico è il
risultato anche di quel movimento di idee e di passioni a cui Basso si
rivolgeva con attenzione e con rispetto. Da uomo politico, ma anche da
uomo di cultura che non irride le culture altrui e non considera la propria
superiore alle altre.
È anche per questo che sono qui a ricordarlo con voi, non già perché io
sia figlio della sua tradizione politica, ma a testimonianza di un dialogo
possibile.
[Tratto da AA.VV., Socialismo e democrazia. Rileggendo
Lelio Basso, Concorezzo, Gi. Ronchi Editore, 1992 che raccoglie le relazioni e gli
interventi dell’omonimo convegno svoltosi a Milano nel 1988]
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