Bruno Trentin  
      (Pavie, 1926) 
       
        
       
      Partecipa ai movimenti di resistenza contro il nazi-fascismo
          in Francia e in Italia. Nel dopoguerra milita nel Partito d’Azione
          e, dal 1950, nel Partito comunista italiano. Eletto deputato nel 1962
          e poi nel 1966. Nel sindacato della Cgil sin dal 1948, nel 1958 è eletto
        vicesegretario, nel 1962 segretario generale della Fiom, nel 1977 segretario
        confederale. Dal 1988 al 1994 è segretario generale della Cgil.
        Nel 1999 è eletto al Parlamento europeo. 
         
        […]
        Quando sono arrivato a Roma ero un giovane di sinistra senza partito
          e la prima rivista in cui ebbi l’opportunità di scrivere
          fu proprio “Quarto Stato”, diretta da Lelio Basso nel 1949-50.
          Il rapporto con Basso mi offrì moltissime altre opportunità,
          non solo riguardo alle questioni che sono state dibattute: partecipai,
          per esempio, alla grande battaglia guidata da Lelio sul fronte dei
          diritti umani, dei diritti civili, dei diritti politici, attraverso
          il Tribunale Russell e in modo particolare quello sull'America latina,
          in cui ho avuto l'occasione e l'onore di collaborare direttamente con
          lui. Sono stato quindi diviso tra molte tentazioni e ho finito poi
          per scegliere l’impegno nel sindacato.  
        Non credo sia casuale la coincidenza […] per la quale ho anch’io
        riletto il contributo di Lelio al convegno sulle tendenze del capitalismo
        europeo del 1965, dove ho ritrovato, in nuce, nonostante tutte le incrostazioni
        che ancora sopravvivevano nel suo pensiero, ciò che a me sembra
        il tratto essenziale della sua ricerca: liberarsi continuamente da quelli
        che a lui apparivano dei cascami dogmatici e ideologici, confrontandosi
        sempre con una cultura acquisita e costruita. 
        Se oggi fosse vivo Basso non direbbe mai: “io non so cos'è il
        marxismo-leninismo” perché, pur non essendo stato un marxista-leninista,
        egli si è dolorosamente e duramente confrontato con questa costruzione
        ideologica al servizio di una strategia di partito. Il particolare interesse
        che riveste quell’intervento di Basso deriva anche dal fatto che
        esso si presentava in polemica con un altro intervento, quello di Giorgio
        Amendola, che appariva, singolarmente, in quel dibattito, come l'espressione
        di una volontà unitaria nei confronti della sinistra intera. Amendola
        aveva proposto in quel convegno l'obiettivo del partito unico della sinistra
        ma, come cercherò di dire, a partire da una analisi e da un tipo
        di proposta che era agli antipodi di quella che Basso cercava di sviluppare. 
        La relazione di Basso si regge su un punto centrale che sottolinea, proprio
        riferendosi a Rosa Luxemburg, la grande difficoltà con la quale
        si deve misurare un movimento socialista, quella cioè di operare
        giorno per giorno all'interno della società presente con l'intento
        però di superarla; poggiare fermamente i piedi nella realtà quotidiana
        ma avere la testa bene al di fuori per spaziare lontano con lo sguardo;
        insomma, esser presenti nell'oggi capitalistico e insieme nel domani
        socialista. Dicendo questo, Basso poneva dei terribili problemi a un
        movimento operaio, a una forza di sinistra; tanto più nelle condizioni
        del capitalismo moderno. Siamo appunto negli anni sessanta, nel momento
        in cui il fordismo è al suo apogeo, almeno in Europa, e il movimento
        operaio - scrive Basso - “corre il pericolo di perdere il legame
        fra l'azione quotidiana e lo scopo finale, di dividersi fra un oggi capitalista
        in cui esso è impegnato in tutta una serie di rivendicazioni e
        un domani socialista che rimane confinato nei discorsi domenicali, con
        il rischio che fra l'uno e l'altro vi sia magari una contraddizione,
        come accade quando le rivendicazioni quotidiane sono più espressioni
        di malcontento che di lotta socialista, quando si difendono posizioni
        superate e condannate dallo sviluppo storico”. Mi vengono in mente,
        per esempio, le recenti rivendicazioni dei tassisti romani, quando cioè le
        lotte sono frutto di un compromesso con la classe avversaria che ne rafforza
        la posizione. 
        In questo senso c'è un esempio classico che Basso fa nei confronti
        della socialdemocrazia, secondo me ingeneroso perché potrebbe
        assolutamente coinvolgere l'intero arco delle forze di sinistra in Italia
        e in Europa in quel periodo, quando cioè lui parla della “teoria
        della compensazione”, secondo la quale i socialdemocratici sono
        disposti a negoziare miglioramenti immediati nelle condizioni di vita
        in cambio di concessioni in termini di potere.  
        Ho fatto questa citazione perché mi sembra che qui sia il cuore
        della riflessione sofferta di Lelio Basso, e delle sue evoluzioni che
        non mancheranno di manifestarsi anche dopo quell'intervento; qui c'è l'immagine
        di una trasformazione che muove dall'esperienza quotidiana, come egli
        diceva, e che costruisce nel presente un progetto socialista, la condizione
        per poter poi delineare, prefigurare una società diversa che non
        può essere mai immaginata a priori e tanto meno esportata. Qui
        c'è veramente la rottura con alcuni dati fondamentali del dogma
        marxista-leninista, se vogliamo ricorrere a questa terminologia, e ritroviamo
        una salda continuità non solo con tutto un filone del pensiero
        di Rosa Luxemburg - per esempio con i contributi degli austromarxisti
        che Basso conosceva molto bene; mi vengono in mente le tante Bastiglie
        da abbattere, da conquistare nella società civile di cui parlava
        Otto Bauer - ma anche con una concezione della formazione economico-sociale
        (ne ha parlato Senese) come dato fondante della forma di Stato e non
        viceversa. Su questo Basso insiste ripetutamente, anche nella relazione
        a cui ho fatto riferimento: non è lo Stato che poggia su una società e
        il potere del capitalismo non deriva dal controllo dello Stato, ma deriva
        dal controllo della società civile. Ciò vuol dire rovesciare
        ciò che era diventato un dato di senso comune, e che secondo me
        sopravvive ancora oggi in molte forme, vuol dire cioè rovesciare
        i rapporti che si erano costruiti nella dottrina socialista e comunista
        tra Stato e società civile (da Kelsen a Stalin starei per dire):
        lo Stato come creatore di società, come fonte dei diritti della
        società civile. Vuol dire anche, naturalmente, mettere in discussione
        la funzione dell'avanguardia rispetto alla massa, per usare termini che
        allora erano assolutamente correnti, una massa che è più o
        meno consapevole ma che trova il proprio riscatto soltanto nell'azione
        illuminata di un’avanguardia che si separa, perciò, dai
        problemi quotidiani della classe operaia o della massa, diventati soltanto
        funzionali alla conquista del potere. Vuol dire, infine, rompere con
        quella concezione che ha rappresentato un articolo di fede per il movimento
        socialista, quella che io chiamo la “storia a tappe”, e cioè una
        transizione rigorosamente distinta dall'obiettivo finale, una transizione
        immune dalle illusioni che potranno soltanto tradursi nella conquista
        del potere. 
        Ritrovo, invece, nelle obiezioni avanzate da Giorgio Amendola, quando
        oppone all'intervento di Basso una classe operaia che sa farsi carico
        degli interessi della nazione - quasi mettendo fra parentesi non le sue
        resistenze corporative ma i suoi problemi fondanti proprio di classe
        consapevole della trasformazione - una conferma che siamo in presenza
        di un dibattito di fondo che interesserà la storia della sinistra
        nel suo insieme.  
        Inoltre, in quello stesso discorso di Basso si avverte già, nella
        raffigurazione di una classe operaia che costruisce nella sua esperienza,
        nella quotidianità un'idea di società diversa, la presenza
        dei temi del potere e dei diritti. C'è quasi una trascuratezza
        nel descrivere, in modo qualche volta un pò apocalittico, gli
        sviluppi delle società capitalistiche, una trascuratezza degli
        aspetti, come dire, della miseria: l'elemento centrale per lui è il
        rapporto di dominio nello Stato, nella società, nel luogo di lavoro;
        qui si ripropone appunto, respingendo l'idea di una storia a tappe, l'attualità irriducibile
        e per lui mai posponibile dei diritti, dei diritti delle persone, dei
        diritti delle collettività e delle associazioni. C’è anche,
        non sempre esplicitata, una concezione della politica che trae i suoi
        fondamenti dall'emersione nella società di una domanda di diritto
        e di potere che va ben oltre Marx, il Marx delle libertà e dei
        diritti formali per forza di cose fondati sulla legittimazione della
        diseguaglianza, che naturalmente va ben oltre Lenin e lo stesso Gramsci,
        va ben oltre la possibilità di immaginare un “rendere la
        libertà”, che sarà soltanto realizzata in ultima
        istanza al momento della fine della storia. Per Basso, invece, i diritti
        e le libertà hanno delle frontiere estremamente mutevoli, nascono
        nella storia, ma il primo confine della libertà va oltrepassato “qui
        ed ora”, subito, è un’esigenza non posponibile. In
        questo senso si intreccia, mi sembra, l'acutezza dell'analisi che Lelio
        ha potuto fare in molti suoi scritti proprio sulla storia delle società civili
        e dei diritti civili con una forte, radicale componente etica che io
        […] non definirei volontarista o attivista. Basso ha infatti ben
        presente la storicità dei diritti, sennonché pensa che
        questa sia la questione sulla quale cominciare a costruire una società diversa
        in questa società e non certamente posponibile a un'altra epoca,
        addirittura all'epoca in cui finisce la storia. Viene il dubbio, anche
        vedendo i molti esempi che Basso fa in quella relazione, e in tutti i
        suoi scritti successivi, su quanto rimanga ancora valida, alla luce di
        una analisi di questo tipo, la distinzione che ci portiamo dietro fra
        diritti politici, diritti civili e diritti sociali; quando, invece, è necessario
        rivisitare queste categorie sapendo distinguere quelle che possono essere
        delle conquiste importanti di carattere sociale ma legate certamente
        sia a un momento di storicità sia alla contingenza del conflitto
        sociale, da quelli che diventano invece dei diritti universali che è assurdo
        dividere da diritti di cittadinanza che hanno titolo nella polis politica.  
        Cos'è il diritto al controllo di cui parla sempre Basso? Cos'è il
        diritto allo studio, alla formazione? Possiamo dire che non è divenuto
        un diritto di cittadinanza ed è un diritto sociale distinguibile
        dal diritto di associazione, dal diritto di voto senza discriminazione,
        senza censo?  
        Mi sembra dunque che dalla riflessione, da tutto il lavoro portato avanti
        da Basso vengano queste suggestioni che ci inducono davvero a ripensare
        una categoria come quella dei diritti sociali, che tende a trasformare
        questi diritti indiscriminatamente come diritti a geometria variabile,
        funzione delle risorse e delle opportunità che ogni singolo Stato,
        ogni singola collettività può disporre.  
        E' molto importante vedere come su questo tipo di analisi Basso svolge,
        in quello scritto, una polemica durissima contro le posizioni massimaliste
        che esistevano nel movimento operaio, contro la tesi delle rivendicazioni
        o delle riforme che devono essere incompatibili e irrecuperabili altrimenti
        rischiano di essere delle fonti di integrazione del movimento operaio.
        Basso ironizza contro queste concezioni, concede che la conquista di
        alcuni diritti e di alcune riforme anche fondamentali abbiano consentito
        al capitalismo di mutare, di assorbire queste riforme, con la differenza,
        però, che in questo modo il capitalismo si è trasformato
        esso stesso. Qui egli è molto acuto […] nel criticare i
        ritardi, i limiti ricorrenti della sinistra di fronte alle grandi prove
        alla quale è stata sottoposta dalle trasformazioni dell'economia
        e della società civile all'indomani della prima guerra mondiale
        e all'indomani della seconda guerra mondiale. Basso portava un contributo
        decisivo a quello che resta in definitiva un grosso limite, un grosso
        tarlo della cultura delle sinistre; la sua polemica è contro la
        rivoluzione dall'alto, è contro la concezione teorizzata da Stalin,
        ma che non era solo di Stalin, secondo la quale la conquista del potere,
        la conquista dello Stato è necessariamente un prius rispetto a
        qualsiasi trasformazione possibile della società civile. Una critica
        profonda a una cultura che concepisce la politica come una scienza autonoma
        o, meglio, come scienza della conquista dello Stato e del governo dello
        Stato.  
        Molto è cambiato dall'epoca in cui Lelio scriveva e combatteva,
        in cui viveva la sua singolare solitudine che era al tempo stesso ricca
        di attenzioni e di partecipazione, ma il fondo della sua riflessione
        critica è estremamente attuale anche oggi, quando l'idea che,
        in definitiva, tutto comincia dal controllo della stanza dei bottoni,
        l'idea che ancora concepisce lo Stato come fondatore di una società civile,
        mi pare rimanga ancora un grande limite delle culture politiche della
        sinistra europea, in tutte le sue articolazioni 
        Limiti che hanno delle conseguenze pesanti se ancora oggi pensiamo che
        un progetto di trasformazione in questa società debba diventare
        un mezzo rispetto all'obiettivo prioritario della conquista del potere,
        una specie di pranzo à la carte, direbbero i francesi, in rapporto
        ai desideri contingenti e mutevoli del cliente, nel caso di un ristorante,
        dell'alleato, di questo o di quel gruppo sociale, di quel pacchetto di
        voti che magari può assicurare un successo momentaneo. Una cultura
        che privilegia ancora l'autoreferenzialità, l'autodifesa delle
        funzioni autarchiche di mediazione dei partiti o dei sindacati, che giustifica
        la difesa della diversità, che giustifica l’esemplare frase
        di Craxi, ma anche qui non era e non è solo di Craxi, “prima
        esistere, poi filosofare”. 
        Basso ci diceva: bisogna prima sapere dove si vuole andare, bisogna prima
        filosofare e solo il filosofare può dare ragione della nostra
        esistenza. 
         
        [Tratto da Fondazione Internazionale Lelio Basso – Fondazione
        Lelio e Lisli Basso-Issoco – Lega internazionale per i diritti
        e la liberazione dei popoli, Lelio Basso e
        le culture dei diritti, Atti
        del Convegno internazionale, Roma, 10-12 dicembre 1998, Roma, Carocci,
        2000] 
            |