2
giugno: una festa senza trombe e uniformi
di LELIO BASSO
Sono personalmente grato al ministro Forlani per
avere deciso la sospensione della parata militare del 2 giugno, e naturalmente
mi auguro che la sospensione diventi una soppressione.
Non avevo mai capito, infatti, perché si dovesse
celebrare la festa nazionale del 2 giugno con una parata militare. Che lo si
facesse per la festa nazionale del 4 novembre aveva ancora un senso: il 4
novembre era la data di una battaglia che aveva chiuso vittoriosamente la prima
guerra mondiale. Ma il 2 giugno fu una vittoria politica, la vittoria della
coscienza civile e democratica del popolo sulle forze monarchiche e sui loro
alleati: il clericalismo, il fascismo, la classe privilegiata. Perché avrebbe dovuto il popolo riconoscersi in quella sfilata di uomini
armati e di mezzi militari che non avevano nulla di popolare e costituivano
anzi un corpo separato, in netta contrapposizione con lo spirito della democrazia?
C’era in quella parata una sopravvivenza del
passato, il segno di una classe dirigente che aveva accettato a malincuore il
responso popolare del 2 giugno e cercava di nasconderne il significato di
rottura con il passato, cercava anzi di ristabilire a tutti i costi la
continuità con questo passato. Certo, non si era potuto dopo il 2 giugno
riprendere la marcia reale come inno nazionale, ma si era comunque cercato nel
passato l’inno nazionale di una repubblica che avrebbe dovuto essere tutta tesa
verso l’avvenire, avrebbe dovuto essere l’annuncio di un nuovo giorno, di una
nuova era della storia nazionale. Io
non ho naturalmente nulla contro l’inno di Mameli, che esalta i sentimenti
patriottici del Risorgimento, ma mi si riconoscerà che, essendo nato un secolo
prima, in circostanze del tutto diverse, non aveva e non poteva avere nulla che
esprimesse lo spirito di profondo rinnovamento democratico che animava il
popolo italiano e che aveva dato vita alla Repubblica.
La Costituzione repubblicana, figlia precisamente
del 2 giugno, aveva scritto nell’articolo primo che l’Italia è una repubblica
democratica fondata sul lavoro.
Una
repubblica in primo luogo. E invece quel tentativo di rinverdire glorie
militari che sarebbe difficile trovare nel passato, quel risuonare di armi
sulle strade di Roma che avevano appena cessato di essere imperiali,
quell’omaggio reso dalle autorità civili della repubblica alle forze armate, ci
ripiombava in pieno nel clima della monarchia, quando il re era il comandante
supremo delle forze armate, “primo maresciallo dell’impero”. Le monarchie, e
anche quella italiana, eran nate da un cenno feudale e la loro storia era
sempre stata commista alla storia degli eserciti: non a caso i re
d’Italia si eran sempre riservati il diritto di scegliere personalmente i
ministri militari, anziché lasciarli scegliere, come gli altri, dal presidente
del consiglio. Ma che aveva da fare tutto questo con una repubblica che,
all’art. 11 della sua costituzione, dichiarava di ripudiare la guerra come
mezzo di risoluzione delle controversie internazionali? Tradizionalmente le
forze armate avevano avuto due compiti: uno di conquista verso l’esterno e uno
di repressione all’interno, e ambedue sembravano incompatibili con la nuova
costituzione repubblicana.
Repubblica democratica in secondo luogo. In una
democrazia sono le forze armate che devono prestare ossequio alle autorità
civili, e, prima ancora, devono, come dice l’art. 52 della costituzione,
uniformarsi allo spirito democratico della costituzione. Ma in questa direzione
non si è fatto nulla e le forze armate hanno mantenuto lo spirito
caratteristico del passato, il carattere autoritario e antidemocratico dei
corpi separati, sono rimaste nettamente al di fuori della costituzione. I
nostri governanti hanno favorito questa situazione spingendo ai vertici della
carriera elementi fascisti, come il
gen. De Lorenzo, ex-comandante dei carabinieri, ex-capo dei servizi
segreti ed ex-capo di stato maggiore, e, infine, deputato fascista; come
l’ammiraglio Birindelli, già assurto a un comando Nato e poi diventato anche
lui deputato fascista; come il generale Miceli, ex-capo dei servizi segreti e
ora candidato fascista alla Camera. Tutti, evidentemente, traditori del
giuramento di fedeltà alla costituzione che bandisce il fascismo, eppure erano
costoro, come supreme gerarchie delle forze armate, che avrebbero dovuto
incarnare la repubblica agli occhi del popolo, sfilando alla testa delle loro
truppe, nel giorno che avrebbe dovuto celebrare la vittoria della repubblica
sulla monarchia e sul fascismo. E già che ho nominato De Lorenzo e Miceli,
entrambi incriminati per reati gravi, e uno anche finito in prigione, che dire
della ormai lunga lista di generali che sono stati o sono ospiti delle nostre
carceri per reati infamanti? Quale prestigio può avere un esercito che ha
questi comandanti? E quale lustro ne deriva a una nazione che li sceglie a
proprio simbolo?
Infine,
non dimentichiamolo, questa repubblica democratica è fondata sul lavoro. Va
bene che, nella realtà delle cose, anche quest’articolo della costituzione non
ha trovato una vera applicazione. Ma forse proprio per questo non sarebbe più
opportuno che lo si esaltasse almeno simbolicamente, che a celebrare la
vittoria civile del 2 giugno si chiamassero le forze disarmate del lavoro che
sono per definizione forze di pace, forze di progresso, le forze su cui dovrà
inevitabilmente fondarsi la ricostruzione di una società e di uno stato che la
classe di governo, anche con la complicità di molti comandanti delle forze
armate, ha gettato nel precipizio?
Vorrei
che questo mio invito fosse raccolto da tutte le forze politiche democratiche,
proprio come un segno distintivo dell’attaccamento alla democrazia. E vorrei
terminare ancora una volta, anche se non sono Catone, con un deinde censeo: censeo che il reato di vilipendio delle forze armate (come tutti i reati
di vilipendio) è inammissibile in una repubblica democratica.