IL TESTO INTEGRALE DEL DISCORSO DELL’ON. BASSO ALLA
CAMERA
Signor
Presidente, onorevoli
colleghi, rompo
un silenzio che durava in quest'aula da quasi cinque anni, testimonianza muta di un dissenso permanente con la linea
politica del mio Partito, ma al tempo stesso di un profondo e responsabile
attaccamento al
Partito stesso. Avevo sempre sperato, nel corso di questi cinque anni, che sarebbe venuto un giorno in cui avrei potuto
riprendere la parola in un clima di rinnovata unità che mi desse di nuovo la gioia di sentirmi all'unisono
con il Partito. Il corso delle vicende ultime è andato purtroppo in senso contrario a ogni mia
speranza e io prendo oggi la parola per esprimere questo dissenso a nome di 25 deputati. Sono i compagni Maria
Alessi, Alini, Angelino, Avolio, Basso, Cacciatore, Ceravolo, Curti, Foa, Franco, Gatto, Ghislandi,
Lami, Luzzatto, Malagugini, Menchinelli, Minasi, Naldini, Passoni, Perinelli, Pigni, Raia,
Sanna, Valori, Vecchietti. Devo dire subito, per respingere la facile accusa di massimalismo che ci viene
spesso rivolta, che il nostro giudizio negativo su questo governo non nasce dal permanere
nell'animo nostro di residui della vecchia intransigenza, che poté avere una funzione negli anni in cui il movimento
operaio si faceva le ossa e irrobustiva la sua coscienza di classe ma che consideriamo oggi superata; non
nasce neppure da un
nostro rifiuto di collaborazione con il movimento cattolico con il quale la
sinistra socialista non si stancherà di cercare un incontro su posizioni avanzate di lotta. Del resto quando si
trattò di dare l’appoggio
esterno del nostro Partito all'esperimento Fanfani, il voto del nostro Comitato centrale fu
in proposito
unanime. Che cosa, dunque, differenzia quel governo da questo, che cosa giustifica la coscienza che noi abbiamo di
dover rifiutare la fiducia al governo dell'on. Moro? Ecco: il governo Fanfani
era precisamente un esperimento, un “cauto esperimento” come fu
definito dallo stesso on. Moro: era un compromesso valevole per un breve periodo, lo scorcio di una legislatura, su
un programma preciso che comportava l'impegno di alcune realizzazioni programmatiche importanti ma
soprattutto lasciava il PSI autonomo nelle sue scelte fondamentali, senza alcuna dichiarata pretesa di
irretirlo in una formula, di catturarlo in un sistema.
Un esperimento?
Ma
oggi non siamo più in
presenza di un esperimento, di un compromesso provvisorio su una piattaforma ben delimitata:
siamo in presenza
della volontà chiaramente manifestata dal Presidente del Consiglio e dal suo Partito di attirare il PSI nella
cosiddetta “area democratica”, cioè nell'insieme di forze schierate a difesa dell'ordine costituito; siamo
in presenza addirittura del disegno, espresso senza reticenze dall'on. Saragat, di spingere su
questa strada il PSI fino alla scissione e alla successiva unificazione con la socialdemocrazia contro la quale i socialisti
hanno sempre unanimemente combattuto. E le ragioni di questo disegno politico sono anch'esse
chiare: sono quelle che l'onorevole Moro definì al congresso di Napoli come “stato
di necessità” per la DC e che espresse
ancora in questa
sede, nel suo discorso programmatico, come mancanza di altre alternative. Non si tratta, a nostro giudizio, di una stato
di necessità meramente aritmetico per la formazione di una maggioranza parlamentare; si tratta di uno
stato di necessità politico in cui si trova la DC se vuole, come vuole, mantenere il suo monopolio del
potere. Viviamo in
un'epoca di grandi trasformazioni tecniche, economiche, sociali, politiche che rendono precari i passati equilibri,
che sovvertono vecchi centri di aggregazione umana e ne creano di nuovi su nuove e più vaste basi, che
porgono in crisi autorità
tradizionali, che rendono ormai insopportabili secolari ingiustizie e non più
differibile la soluzione di annosi problemi, che fanno maturare soprattutto nelle giovani generazioni una
più avanzata coscienza sociale e politica e una più decisa volontà di conquistare non soltanto
condizioni migliori di vita ma una più diretta partecipazione all'esercizio del potere nella società e nello Stato
Il centrismo
Tutto
ciò ha reso sempre più difficile - e in questo momento storico addirittura
impossibile - conservare in Italia il blocco
di potere su cui la classe dirigente
si è retta per quasi un secolo, cioè l'alleanza dei ceti imprenditori
del Nord, che rappresentavano la punta avanzata di un progresso sempre lento e prudente, con le forze più retrive di
tutto il Paese, lasciando le classi lavoratrici in regime di oppressione poliziesca, di bassi salari, di carenza di
istruzione, quasi ai margini della vita politica e sociale. Di questa
politica tradizionale della classe dirigente
italiana, il centrismo è stata l'ultima incarnazione. Ma il centrismo
era stato sconfitto sul terreno elettorale,
aritmetico, fin dal 1953, quando il congegno ideato per perpetuarlo, la legge truffa, non poté scattare perché ai quattro
partiti alleati mancò la maggioranza dei suffragi nel Paese, anche se, per effetto dei meccanismi elettorali,
essi conservarono una leggera maggioranza di seggi in Parlamento. Le elezioni del 1958 videro però un
ulteriore spostamento del Paese e sinistra che preoccupò la socialdemocrazia e
la spinse a cercare, insieme con i repubblicani, nuove formule, donde le oscillazioni che caratterizzarono la passata legislatura
fra il primo tentativo dell'on.
Fanfani sospeso al filo di un'incerta maggioranza e la vergognosa
collusione con le destre che caratterizzò il
governo Tambroni e fu l'occasione di
una potente manifestazione della volontà democratica del Paese, di cui
anche la DC dovette tener conto. Le elezioni del 28 aprile scorso hanno segnato un ulteriore impetuoso spostamento del Paese verso
sinistra, anche se noi socialisti, abbiamo avuto il rammarico di non
beneficiarne: rammarico non per qualche
seggio in più o in meno, ma perché era il segno quanto meno di una
sfasatura fra la nostra politica e
l'orientamento delle masse. Ma queste elezioni, che hanno dato un
accresciuto peso politico ai lavoratori
italiani, non sono il solo aspetto dei mutamenti di cui parlavamo in principio.
Il progresso tecnico, lo sviluppo economico, l'afflusso di nuove masse e di energie intatte nelle grandi
città, il rapido decrescere della
disoccupazione e addirittura la sua scomparsa in alcuni settori della produzione, hanno accresciuto il peso contrattuale dei
lavoratori anche in campo sindacale e hanno creato, nelle zone più
avanzate del Paese, situazioni non dissimili da quelle dei Paesi industriali
più moderni: una forte pressione salariale,
esigenza di grandi investimenti di
capitali per ridurre i costi di produzione a livello competitivo, necessità di garantire la redditività di
questi investimenti con una programmazione economica
che assicuri la regolarità dell'espansione o,
almeno, la stabilità e controlli la dinamica dei salari. Ma tutto ciò è più difficile in un Paese in
cui, accanto a questa situazione di alto sviluppo, permangono o si sono
aggravati gli squilibri tradizionali: né i mezzi polizieschi da un lato, né gli
interventi di emergenza o i provvedimenti
artigianali, dall'altro, bastano più a frenare la prepotente volontà di
rinnovamento che sale dal Paese. Tanto più
che sono in crisi anche gli strumenti ideologici tradizionali. È in crisi la
guerra fredda che dura ancora, ma che comunque, dopo gli sforzi congiunti di Kennedy e di Krusciov per ridurne la tensione, non può più celebrare i fasti di un tempo. È in crisi il vecchio
confessionalismo che bloccava la dialettica politica e la lotta delle
classi sotto la pressione clericale, e che ha ricevuto
dalla grande ispirazione di Giovanni XXIII un colpo probabilmente mortale, anche se abbiamo assistito in questi giorni a un nuovo deplorevole tentativo di intervento dell'Osservatore
romano nelle vicende politiche del nostro Paese. Come si esce
da questa situazione ora che le vecchie formule e le vecchie ideologie appaiono logore, consunte, superate dagli avvenimenti che non sono state capaci di
frenare? Vi sono a nostro avviso due sole soluzioni possibili. Una è la nostra;
l'altra quella del governo Moro; la terza, quella di destra, quella che ci
viene agitata sempre come spauracchio
per farci ingoiare il minor male, non
è una soluzione anche se può essere un tentativo. La nostra
non è la risposta massimalistica della rivoluzione che divampa improvvisa dall'animo delle masse eccitate e
inappagate, o quella di un'opposizione
protestataria negativa e inconcludente. Noi sappiamo da molto tempo che questo tipo di politica appartiene al
passato, che la lotta per il socialismo in cui continuiamo a credere si
combatte nel vivo del tessuto sociale dove
le forze produttive del lavoro sono ogni giorno in conflitto con strutture
arretrate e con un ordinamento dei rapporti produttivi che tenta di perpetuare l'esclusione dei
lavoratori dalla gestione del potere,
ma sappiamo altresì che, proprio in conseguenza dei grandi mutamenti
intervenuti, oggi l'accresciuta forza politica e sindacale delle masse, l'accresciuta pressione che esse
esercitano sulle anguste barriere di
classe di questa società è tale da poter conquistare di
forza, parlo di forza politica
e sindacale, quelle riforme di struttura che possono determinare spostamenti
effettivi di potere e possono
seriamente incidere sul processo capitalistico di accumulazione. Siamo giunti a una situazione in cui la stessa pressione salariale può cessare
di essere un mero fatto quantitativo
per determinare un salto di qualità,
rendere cioè necessarie profonde riforme
strutturali. Tutto l'impegno nostro è stato fino ad oggi dedicato ad analizzare questa situazione e a studiarne le soluzioni, a dare sostanza a
questa lotta politica che deve
esprimersi in forme di nuova democrazia, in nuovi istituti, in nuovi rapporti produttivi, in nuovi centri di potere e altresì
in un peso reale
e crescente dei lavoratori in centri tradizionali di potere. Questo impegno, che non è soltanto nostro
ma è di tutto il movimento operaio italiano, è seguito con il massimo interesse dal movimento operaio di tutto il mondo, in Occidente e in Oriente, dovunque la ricerca di una via democratica al
socialismo, di una via che passi attraverso lo sviluppo massimo della democrazia e approdi realmente all'edificazione di una società socialista, non è
considerata soltanto una formula di
propaganda.Questa politica, che è davvero una politica di rottura con il passato, non ha improvvisazioni da
offrire ma è un lungo cammino di
lotte, nel corso del quale si debbono
ricercare e intrecciare alleanze e nessuno è più di noi interessato a
incontrare, lungo questo cammino, forze cattoliche decise ad affrontare la vera battaglia della democratizzazione
della società italiana. Si possono su
questa via realizzare anche compromessi particolari con la DC, come fu il caso per il governo Fanfani, quando il
compromesso ci aiutò a conquistare delle
riforme necessarie senza farci pagare un prezzo esorbitante: una sola
cosa non si può fare a nostro avviso, ed è
sacrificare l'autonomia del movimento
operaio, subordinare le scelte
politiche al disegno organico della classe dominante
Nuovi
metodi
Ed è
invece proprio questo disegno organico
che noi vediamo nel governo Moro. Esso è nato, a nostro avviso, dalla presa di coscienza della DC dell'impossibilità di continuare a reggere le sorti
del Paese con le vecchie formule centriste, con le vecchie alleanze con forze retrive, con il vecchio
immobilismo. La classe dirigente italiana sente l'urgenza di adeguarsi o
perlomeno di avvicinarsi come organizzazione, come metodi, come mentalità, ai
Paesi occidentali più sviluppati, specialmente a quelli con cui ha intrecciato rapporti comunitari. Ciò implica
tre indirizzi fondamentali:
ammodernamento di tecniche produttive e di organizzazione economica, ivi
compresa la politica di piano; rafforzamento e concentrazione del potere nell'esecutivo in accordo
con i grandi centri monopolistici; subordinazione del movimento operaio alle
direttive politico-economiche del
potere. È il primo abbozzo di questo disegno che il governo Moro rappresenta e che è abbastanza chiaramente configurato nella parte introduttiva
del programma quadripartito. Non è,
dunque, una soluzione di rottura con
il passato, non è una svolta significativa:
anche se non è giusto parlare semplicemente di neo-centrismo, anche se
indubbiamente elementi di novità
intervengono rispetto al passato, pare
evidente che sotto la guida cautelosa dell'onorevole Moro si avrà precisamente quel tanto di novità che è necessario per assicurare il massimo
di continuità. Continuità in politica
internazionale affidata alla guida di
un mistico dell'atlantismo come l'on. Saragat (e atlantismo in questo caso non
vuol dire solo alleanza con scopi
limitati, ma addirittura scelta di una
civiltà e di un modo di vita che noi non accettiamo) e di un fautore dichiarato dell'armamento atomico multilaterale come l'on. Andreotti; continuità in politica economica dove lo spirito
che traspare da tutte le
dichiarazioni governative è quello di
tranquillizzare i ceti imprenditoriali e assicurare il funzionamento
dell'economia di mercato; continuità
in politica interna dove le velleità di governo forte, anzi di vero e proprio regime, sono espresse quasi senza veli
e dove la stessa proclamata volontà di moralizzazione sembra arrestarsi
timorosa davanti ai baluardi più robusti
della prepotenza come la mafia e del
sottogoverno, come la Federconsorzi. E quanto alla volontà di “rigenerare” il PSI per
addomesticarlo e farne docile
strumento della sua politica l'on.
Moro è stato nella sua replica di una chiarezza che rasenta la brutalità
Un dovere
Mancheremmo
a un dovere di
lealtà se non aggiungessimo che non è certo questo lo spirito e la volontà con cui i compagni del nostro Partito hanno
approvato questo governo
e si sono assunte le responsabilità che esso comporta. Ma abbiamo sufficiente esperienza, e la storia ci è generosa di esempi e di insegnamenti in
questo campo, per sapere che la migliore
disposizione di spirito è una ben
fragile protezione contro l'inesorabilità della logica politica che è inerente
al sistema. Anzi, in un certo senso, noi temiamo che proprio nella discordia di intenti, nelle
reticenze, nelle ambiguità del programma e della compagine governativa si nascondano quei pericoli di destra di cui tanto si parla e che si vorrebbero evitare:
poiché non c'è dubbio che l'egemonia governativa spetta alla DC e, nella
DC, a forze che non sono certo decise a grosse operazioni politiche di rottura, non v'è dubbio che questo governo non sarà in grado di soddisfare le attese che la partecipazione
socialista può suscitare in alcuni
strati del Paese e, d'altra parte,
questa partecipazione rischia di creare timori e provocare reazioni da parte di
interessi che si credono minacciati e
che questo governo non avrà certo la
volontà politica di colpire. Il solo rischio di una svolta a destra è in questa ambiguità che offre pretesti a controffensive della destra senza
apprestare validi strumenti di attacco. Fuori da questa ipotesi, noi non crediamo a pericoli di destra perché
abbiamo fiducia nella maturità democratica del nostro popolo e sappiamo che forze imponenti anche nel campo cattolico,
vigilano a presidio dello sviluppo
democratico del Paese. È il nostro
proposito è proprio quello di ridare impulso alla dialettica democratica, di rompere le cristallizzazioni tradizionali. Il grande problema storico indifferibile è anche per noi quello dell'accesso della classe lavoratrice a una più efficace
partecipazione alla direzione
politica del nostro Paese; anche noi pensiamo
che si deve far cadere, non dirò l’isolamento perché è difficile parlare di isolamento del 40% degli italiani, ma le
barriere che sono state elevate sul nostro cammino. Però pensiamo che questo compito storico si realizza abbattendo queste barriere, non semplicemente facendole saltare da qualcuno e lasciando la maggioranza della classe
lavoratrice dall'altra parte
Disagio
Ecco
pertanto il significato politico della nostra posizione. Noi ci rendiamo conto che essa è difficile da
affrontare nel momento in cui la
maggioranza del nostro Partito, facendo una diversa valutazione della situazione, ha accettato di partecipare
a questo governo. Con tutte le
nostre forze avremmo desiderato di non
trovarci in questa situazione che -
ne siamo coscienti - approfondisce il nostro
dissidio. Ma come non abbiamo cercato questa prova, così non possiamo ad essa
sottrarci. Quando la politica della
DC ha scelto come bersaglio il PSI non
più per schiacciarlo ma per blandirlo,
quando nella nostra coscienza di socialisti abbiamo visto il pericolo che l'offensiva avversaria potesse finire con
il distruggere il patrimonio socialista
cui siano attaccati con tutte le fibre dell'essere nostro, non potevamo esitare ad assumere la sola
posizione che secondo il nostro giudizio politico può salvare il Partito. Certo, anche noi siamo
fallibili e non ci sentiamo depositari
di nessuna verità dogmatica. Ma
quando ieri il segretario del nostro Partito, compagno De Martino, parlava del disagio del compagno Nenni nel trovarsi
su quei banchi, apriva uno spiraglio
su uno stato d'animo generale: il disagio è di tutto il Partito, anche di quella parte che affronta il presente esperimento ma che non può ignorare, se
non altro, le contraddizioni e i pericoli
ch'esso comporta. In questo momento difficile per il nostro Partito noi ci
sentiamo gli interpreti di una larga parte di esso e intendiamo offrire al
Partito, a tutto il Partito che vive
ore di disagio e di incertezza, vogliamo offrire ai lavoratori che potrebbero
dubitare dell'avvenire del Partito,
anche l'altra faccia della medaglia,
vogliamo riconfortarli nella speranza che il Partito potrà riprendere il suo posto di battaglia, vogliamo aiutare i socialisti e i lavoratori a
conservare la fiducia nel Partito
socialista. Ai compagni che leggeranno
domani allibiti che il capo di un governo a partecipazione socialista dichiara che solo oggi il PSI inizia i suoi primi passi sulla via della democrazia, vogliamo dire da questa tribuna che noi
respingiamo sdegnati questo giudizio e ci sentiamo fieri della primogenitura democratica del nostro
Partito che non siamo disposti a
barattare per nessun prezzo. Per questo non possiamo dare il nostro voto a questo governo, ma per questo non gli daremo voto contrario, non voteremo
contro i compagni che sono in
esso impegnati, non voteremo contro la decisione della maggioranza di
appoggiare questo governo. Semplicemente non prenderemo parte alla
votazione. Diciamo questo senza iattanza,
anzi con animo profondamente turbato, con la fiducia che i nostri compagni intenderanno il significato e non vorranno
provocare delle rotture irreparabili che noi ci siamo sforzati di evitare.
Soprattutto vorremmo che fosse compreso
lo spirito profondamente socialista del nostro atteggiamento: quando siamo entrati in questa milizia, che è per noi la ragione della nostra
vita, tutti ci siamo ripromessi e
sforzati di accrescere il patrimonio
glorioso che avevamo ereditato dai nostri
padri. E in questo momento, compiendo un atto che abbiamo lungamente pesato e discusso dentro di noi e fra di noi, ma di cui ci assumiamo tutta intiera la responsabilità, crediamo di adempiere a
questo dovere.