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LELIO BASSO

LELIO BASSO*

Il problema della violenza nello Stato di diritto

Il tema della violenza di stato come strumento di punizione per chi adopera la violenza contro il potere o l’ordinamento sociale ci riporta a ben note controversie antiche ma, soprattutto, a quello che è, a mio giudizio, il motivo centrale dell’epoca contemporanea: il passaggio del centro di gravità della vita sociale dall’autorità, dal potere, all’uomo, anzi agli uomini, a tutta la collettività umana.

Finché il potere era estraneo e sovrapposto agli uomini, che erano soltanto dei sudditi, il crimine suscitava la vendetta del principe offeso e il boia, secondo Joseph De Maistre, costituiva un congegno di trasmissione fra il principe e il popolo: era grazie ad esso che il principe affermava di fronte a tutti il suo potere assoluto. Particolarmente grave era la sfida al carattere sacro del potere racchiusa nel delitto politico: il crimen maiestatis aveva un carattere sacrilego, “incompatibile con le garanzie di una procedura normale”.1 Così la tortura, che era normalmente esclusa per gli honestiores e consentita solo per i ceti inferiori, gli humiliores, si applicava, per i delitti politici, anche ai clarissimi et perfectissimi: in questi casi omnes torquentur. Questo principio del diritto classico si perfeziona nel diritto medievale, dove, pur mantenendosi il carattere discriminatorio della tortura per i delitti comuni,2 l’applicabilità erga omnes si estende dal delitto di lesa maestà al delitto di eresia, considerato come una lesa maestà divina.

Ma, dopo la riscoperta dell’uomo, nel lungo travaglio dell’umanesimo e del rinascimento, il XVIII secolo arriva a proclamare in termini netti i diritti dell’uomo contro il potere assoluto del sovrano. E poiché anche il ‘colpevole’ è un uomo e rientra nella collettività degli uomini, “una cosa almeno deve esser rispettata, quando si punisce: la sua ‘umanità’.”3 Non è un caso che il saggio del Beccaria Dei delitti e delle pene, preceda di pochi anni la Dichiarazione dei diritti di Filadelfia e quella della rivoluzione francese.

Con l’innesco di un processo democratico, il potere, ogni potere e quindi anche il potere di punire le violazioni della legge, passa, almeno in teoria, al popolo stesso, alla collettività degli uomini. La società ha pertanto il potere e il dovere di punire, di imporre il rispetto delle regole comuni di vita, ma essa deve dare l’esempio rispettando a sua volta l’“umanità” del colpevole: nascono così, già, all’inizio dell’epoca borghese, il principio che l’imputato debba essere presunto innocente fino alla condanna,4 che le pene debbano essere umane e volte alla rieducazione del reo, che debbano essere prestabilite per legge in modo fisso e costante, ecc.

Purtroppo lo stato di diritto, che avrebbe dovuto garantire tutto ciò, e la democrazia, che avrebbe dovuto rappresentare finalmente l’unità di popolo e potere, di governati e governanti, sono rimasti un ideale la cui realizzazione si è sempre scontrata con la dura realtà. A un marxista, quale io sono, la cosa appare del tutto naturale: come può esser possibile, in una società divisa in classi, che gli humiliores possano fruire degli stessi diritti degli honestiores? che la cosa pubblica, il funzionamento della società, le sue regole stabilite, possano essere abbandonate al capriccio della democrazia che potrebbe tutto sconvolgere con un semplice pronunciamento elettorale? Certo, il suffragio universale e uguale è stato introdotto pressoché ovunque, ma questo è stato possibile dopo che era sorto tutto un sistema di meccanismi sociali che condizionano il comportamento umano dalla nascita alla morte. Certo, oggi i regimi occidentali poggiano sul consenso, ma questo consenso è il frutto di quella che Marx chiamava la “silenziosa coazione delle leggi economiche” e insieme di quella che oggi si chiama la “violenza delle istituzioni” a partire dalla scuola, o l’indottrinamento dei mass media, o la pressione ideologica esercitata dal sistema, che produce il conformismo.

È in questo quadro che va visto oggi, a mio giudizio, il problema del ritorno alla violenza di stato, che abbandona la strada dell’umanizzazione delle pene, della presunzione di innocenza, del rispetto dell’umanità del condannato, ancorché questi principi siano riaffermati in tutte le costituzioni moderne, nelle Dichiarazioni dei diritti di questo dopoguerra e in appositi documenti dell’ONU.

Io ne vedo la ragione di fondo nella crisi che ha investito la società contemporanea, la più grave, a mio avviso, che si sia mai verificata nel mondo occidentale. Non si tratta infatti soltanto di una crisi economica, di cui la società occidentale ha conosciuto di ben più gravi, ma prima di tutto, di una crisi principalmente del sistema ideologico che sta alla base del consenso. Gli uomini proclamati uguali in teoria, hanno scoperto il volto della società reale fondata sulla disuguaglianza.

Soprattutto nei paesi sottosviluppati il processo di formazione di una coscienza dei diritti dell’uomo in vaste masse di popolo ha avuto uno sviluppo più rapido della capacità di soddisfarne le esigenze materiali e di assicurare il funzionamento dei meccanismi d’integrazione e di consenso, anche a causa della miopia e della grettezza conservatrice delle classi dominanti e dell’egoismo rapace delle multinazionali. Il vecchio equilibrio, basato sul privilegio di pochi e lo sfruttamento e la sottomissione dei molti, è stato messo in pericolo dalla crescita democratica delle masse. Si è aperta una frattura fra la difesa dell’ordine sociale e il rispetto dei valori democratici e dei diritti dell’uomo consacrati nelle costituzioni e nell’ordinamento giuridico.

L’esempio dell’America Latina ha mostrato come un intero continente, centinaia di milioni di uomini, possa essere privato dei più elementari diritti umani e abbandonato all’arbitrio più feroce del potere appena l’ordine sociale appare minacciato. Nonostante il vecchio abuso di golpes e di caudillos l’ideologia dominante della società latinoamericana era un insieme di morale cristiana e di principi democratici, entrambi basati sul rispetto della dignità dell’uomo. Alcuni paesi, come l’Uruguay, costituivano addirittura un modello di democrazia agli occhi del mondo occidentale. Ora tutti questi paesi, aderendo all’ONU, ne avevano accettato la Carta, e gli obblighi che ne discendono, fra cui il “rispetto universale ed effettivo dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, di sesso, di lingua e di religione”. Questi diritti furono resi espliciti nella Dichiarazione universale del 1948, il cui preambolo dice che “la libertà, la giustizia e la pace nel mondo si fondano sul riconoscimento della dignità della persona e dei diritti eguali e inalienabili di tutti i componenti della famiglia umana”. Nello stesso spirito fra i documenti della XIII Assemblea generale dell’episcopato brasiliano si legge che “dopo che Dio è morto per l’uomo, non è più possibile che la chiesa di Cristo non prenda sul serio questo uomo, l’uomo concreto [...] con le sue sofferenze, aspirazioni e speranze”.[5] Per giustificare l’abbandono di questi principi si è invocata la cosiddetta dottrina della sicurezza nazionale, consacrata nei diversi paesi latinoamericani in apposite leggi che presentano scarse varianti. Ma l’ironia della storia vuole che questa dottrina della sicurezza nazionale, in nome della quale vengono calpestati i principi democratici e cristiani, pretenda di voler difendere proprio questi principi. Secondo i suoi teorici e nelle formulazioni ufficiali, il mondo è diviso in due blocchi: l’oriente ‘ateo e comunista’ e l’occidente ‘democratico e cristiano’, destinati a scontrarsi. Perciò essa esige la dedizione completa, totale, indiscussa del cittadino alla nazione, per il raggiungimento di quegli obiettivi nazionali permanenti che lo Stato si propone, nel quadro della difesa dei valori occidentali. Se il cittadino non ubbidisce, è necessario imporgli l’ubbidienza con ogni mezzo perché la sicurezza nazionale sovrasta ogni altro bene. L’art. 3 della legge sulla sicurezza nazionale dice che essa “comprende essenzialmente i mezzi destinati a preservare la sicurezza esterna e interna, compresa la preservazione e la repressione della guerra psicologica avversa [...]. La guerra psicologica avversa è l’impiego di propaganda e contro-propaganda e qualsiasi attività sul piano politico, economico, psico-sociale, militare, che ha per fine di influenzare o di provocare opinioni, emozioni, attitudini e comportamento di gruppi stranieri, nemici, neutri o amici, contrari alla realizzazione degli Obiettivi nazionali”. E l’art. 45 così definisce la propaganda sovversiva che dev’essere repressa con ogni mezzo: “l’utilizzazione di qualsiasi mezzo di comunicazione sociale: giornali, riviste, periodici, libri, bollettini, manifesti, radio, televisione, cinema, teatro e qualsiasi mezzo dello stesso genere come veicoli di propaganda di guerra psicologica avversa [...] la costituzione di comitati, missioni politiche, sfilate e manifestazioni [...] scioperi proibiti”. È chiaro che ciò significa la proibizione di ogni manifestazione di dissenso, anzi di ogni dissenso: chi dissente attenta alla sicurezza nazionale, quindi è nemico della nazione, dei suoi princìpi, del suo ordinamento.

Per capire che cosa significhi veramente questa legge, bisogna pensare che quando si parla di sicurezza nazionale o di obiettivi nazionali, ci si riferisce non alla volontà del popolo, ma alla volontà del potere incarnato in una cricca militare che ha preso il potere con la violenza e ha imposto la sua dittatura per difendere l’ordine sociale esistente, cioè l’interesse delle classi dominanti del paese e, soprattutto, gli interessi imperialistici delle società multinazionali. E quando si parla del comunismo ateo che bisogna distruggere come nemico principale della sicurezza nazionale, s’intende con questa definizione qualunque movimento progressista che aspiri a una riforma sociale comunque suscettibile di modificare l’ordine sociale esistente o di modificare il rapporto interno delle forze. Se è vero infatti che in Cile, nel governo Allende, erano rappresentati anche i comunisti, in Brasile, da dove è partita l’ondata di golpe che ha poi sommerso quasi tutto il continente, e da dove è partita soprattutto la dottrina della sicurezza nazionale e la sua applicazione scientifica fino alla tortura e all’arbitrio più sfrenato del potere militare, il presidente Goulart era lontanissimo dall’essere comunista, così come non c’erano comunisti al potere né in Uruguay né in Bolivia. Non esisteva quindi nessuna minaccia ateo-comunista eppure la giustificazione del golpe brasiliano fu che Goulart “si preparava a bolscevizzare il paese” (Atto istituzionale n. I), e analoghe motivazioni furono addotte negli altri paesi.

Le conseguenze principali in Brasile come in Cile, in Uruguay come in Bolivia e poi in Argentina, furono innanzitutto la militarizzazione completa del potere non solo esecutivo ma legislativo e giudiziario,[6] e conseguentemente la fine dello Stato di diritto. Il cittadino, restituito alla condizione di suddito, viene abbandonato all’arbitrio dei militari: tutte le garanzie che circondavano il cittadino vengono a cadere. L’arrestato, anche per semplice sospetto o addirittura perché parente o amico di un sospetto, è alla totale mercé degli inquisitori che hanno su di lui un potere illimitato. La difesa dell’incolpato non è più un interesse pubblico per la ricerca della verità, ma una semplice formalità che può essere evitata. I testi a discarico possono non essere sentiti; i contatti con gli avvocati sono resi sempre più difficili,[7] e l’assistenza dell’avvocato agli interrogatori è esclusa, tanto più che la polizia può trattenere indefinitamente l’arrestato. L’isolamento totale dell’imputato è il primo gradino della tortura e può durare indefinitamente, fino a determinare alterazioni psichiche gravi. Ma l’isolamento è solo un primo passo: le più feroci inumane forme di torture, scientificamente organizzate con la complicità di medici come ai tempi di Hitler, è una tentazione troppo facile per dei poliziotti irresponsabili e sottratti a ogni controllo.[8] I casi di morte o di pazzia come conseguenza della tortura sono numerosi, ma l’aspetto forse più grave è che l’innocente subisce le stesse procedure e non sarà mai in grado di provare la propria innocenza.

Che cosa è accaduto invece in occidente? Anche qui la crisi ha scosso alcuni dei valori fondamentali su cui poggia il sistema, inceppando in tal guisa i meccanismi di funzionamento. E questo proprio nel momento in cui il crescente tecnicismo, la crescente complessità e articolazione della vita sociale, rendono necessario un meccanismo perfetto che non può consentire di perdere colpi. Quando il cancelliere Erhard aveva parlato di una formierte Gesellschaft, egli aveva posto l’accento proprio su una delle caratteristiche fondamentali della società industriale del nostro tempo che deve essere una società strutturata, organizzata, articolata e ben lubrificata in ogni sua parte per poter continuare a funzionare, nonostante le contraddizioni. Ma ciò esige il consenso totale della popolazione: se questo viene a mancare, se i meccanismi sociali non lo producono più, tutto il meccanismo rischia di entrare in crisi. In una macchina così delicata e complessa, il più piccolo guasto, addirittura il più piccolo granello di sabbia può provocare un disastro.

Ecco perché il conformismo totale diventa una necessità e il dissenso diventa il nuovo crimine di lesa maestà. Il dissenso colpisce e offende la società in quello che ha di più sacro: la difesa dell’ordine sociale capitalistico, la difesa della proprietà, del profitto, del denaro che è il dio della materialistica società occidentale. E contro il nuovo delitto di lesa maestà rispuntano gli artigli, mai tagliati, della violenza di stato. Rinasce il principio che, in casi simili, omnes torquentur.

Nonostante i conclamati sviluppi della democrazia occidentale, in diversi paesi, l’esercito, la polizia, l’amministrazione della giustizia, hanno continuato a conservare il carattere di ‘corpi separati’, non si sono mai identificati con il popolo, non ne hanno mai riconosciuto la sovranità, ma si sono sempre considerati detentori legittimi di potere, di autorità sul popolo. L’esercito è rimasto un tipico ordinamento basato sull’autorità, sulla gerarchia, sulla disciplina, e non sul consenso, quindi lontano da ogni spirito democratico.

Se in periodi di crescita democratica la spinta che parte dalla società civile può riuscire ad informare di sé anche le forze armate e fare dei militari dei semplici cittadini in uniforme, che conservano sotto l’uniforme tutta la loro dignità di cittadini, in periodi di tensione, quando il meccanismo del consenso non funziona regolarmente, la difesa dell’ordine sociale torna ad affidarsi ai principi d’autorità e di obbedienza e lo spirito militare prende il sopravvento sullo spirito democratico. Le carceri per es. sono sempre state ricalcate sul modello della disciplina militare, addirittura aggravata, il che ha spesso provocato, un po’ ovunque, rivolte di carcerati. Anche nelle carceri, in tempi di sviluppo democratico, erano penetrate riforme ispirate ai principi dell’umanizzazione delle pene e della rieducazione del condannato, che peraltro coesistevano con stabilimenti carcerari vecchio stile, sovraffollati, antigienici e impermeabili a una vera riforma penitenziaria. Ma anche qui le nuove situazioni hanno determinato, in Germania e altrove, il rinascere di stabilimenti carcerari speciali.

Indubbiamente il gruppo Baader-Meinhof, come la RAF, come le brigate rosse in Italia, si sono abbandonati ad atti terroristici, hanno dichiarato guerra alla società. Si giustifica di fronte a ciò la violenza di stato?

La risposta negativa è già racchiusa nelle cose sin qui dette. Innanzitutto se il terrorismo è diventato un fenomeno così largamente diffuso nel mondo, se in alcuni paesi, come per es. in Italia, è diventato quasi un fenomeno di massa[9] e in altri non può essere circoscritto a pochi casi individuali, ciò significa che non si tratta soltanto di aberrazioni di menti malate ma di un fenomeno che ha cause sociali. Se, nonostante tutti i sofisticati meccanismi psicologici del conformismo, il consenso viene a mancare in forma così brutale, è chiaro che la società ne porta una larga parte di responsabilità e che il suo primo dovere è di eliminarne le cause. Non posso fare un’indagine analitica di queste cause per ogni paese: in Italia si tratta certamente di mancate riforme, di gravi ingiustizie sociali e dello scandalo dell’impunità assicurata a tutti i crimini degli honestiores.

Si dirà che un paragone non è possibile perché in America Latina l’attacco alla democrazia è partito dai militari mentre in occidente la democrazia parlamentare rimane, e ciononostante sono le brigate rosse o la RAF che attaccano le istituzioni e obbligano lo Stato a difendersi. Ma uno Stato democratico deve difendersi con mezzi democratici: se ricorre a mezzi violenti, esso apre la strada all’arbitrio e cessa di essere uno Stato di diritto.

Certo la distanza è enorme fra i regimi dell’Europa occidentale e quelli dell’America Latina, ma il principio è lo stesso: la criminalizzazione del dissenso. Il dissenziente è considerato un nemico, un “nemico della costituzione” come si dice in Germania (non siamo lontani dal “nemico del popolo” di staliniana memoria), dev’essere escluso dalla professione, può essere condannato come ‘simpatizzante’ del terrorismo,[10] e se commette un reato, “si pone da se stesso, in quanto criminale violento, al di fuori delle regole del gioco del nostro stato democratico”.” E lo Stato democratico[11] abbandona nei suoi confronti le regole della democrazia e calpesta i diritti che spettano all’uomo in quanto tale, ad ogni uomo. Viene alla memoria, anche di un non credente quale io sono, l’insegnamento di Giovanni XXIII che vedeva ovunque volti di uomini, volti di fratelli: anche nell’errante, che resta un uomo nonostante l’errore commesso.

 



* LELIO BASSO

È nato il 25 dicembre 1903 a Varazze (Savona). Si è laureato in diritto (1925) e in filosofia (1931) all’Università statale di Milano. Ha insegnato all’Università di Roma sociologia dei paesi in via di sviluppo. Durante il fascismo ha subito alcuni anni di carcere, confino e campo di concentramento. Negli anni 1947-1948 è stato Segretario generale del Partito socialista italiano; ora non appartiene ad alcun partito. Nel 1946-1948 deputato all’Assemblea costituente e relatore sulla parte generale e sui diritti di libertà nella Costituzione italiana. Dal 1948 al 1972 deputato di Milano in Parlamento; dal 1972 ad oggi -senatore di Milano in Parlamento.

Fra le sue pubblicazioni citiamo un commento alla Costituzione italiana, Il principe senza scettro, 1958; un libro sul Pensiero politico di Rosa Luxemburg [tradotto in tedesco, giapponese, inglese e in due diverse edizioni spagnole]; uno su Neocapitalismo e sinistra europea [tradotto in tedesco, giapponese e serbo-croato], oltre a molti altri saggi editi in varie lingue. Di prossima pubblicazione presso Rowohlt uno studio su Marx e marxismo. Dirige la rivista Problemi del Socialismo ed è presidente della Fondazione Lelio e Lisli Basso per lo studio della società contemporanea con sede a Roma, e della Fondazione internazionale Lelio Basso per il diritto e la liberazione dei popoli con sede in Svizzera.

(Indirizzo: Fondazione Lelio e Lisli Basso - Isocco Istituto per lo studio della Società Contemporanea, Via della Dogana Vecchia, 5, 00186 Roma, Italia).

1 ALEC MELLOR, La Torture (Son Histoire-Son abolition-Sa réapparition au XX siècle), Paris 1949, 52 ss.

2 Nel suo codice in 7 parti Alfonso il saggio ne esenta i caballeros, gli hidalgos e i professori di diritto, e questa è in generale la regola. È raro invece trovare una norma come quella data da Luigi IX re di Francia che esonera dalla tortura “personas honestas ac bonae famae etiam si sint pauperes”. (Cfr. LELIO BASSO, La Tortura oggi in Italia, Milano 1953, 58 e 60)

3 M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire-Nascita della prigione, Torino 1976, 80.

 

4 LE TROSNE, Vues sur la justice criminelle, Paris 1777.

[5] Direitos humanos no Brasil, hoje, in Sedoc, maggio 1973, col 1348.

[6] Tribunale Russell II-Brasile-Violazione dei diritti dell’uomo, Milano 1975 (d’ora in poi cit. come Brasile), 56 ss. e Cile Bolivia Uruguay: violazione dei diritti dell’uomo, Venezia 1965 (d’ora in poi cit. come Cile), 27 ss., 217 ss. Questi due libri contengono gli atti della prima sessione (Roma 1974) del Tribunale Russell II sull’America Latina: le indicazioni sommarie qui fornite sono ampiamente documentate.

[7] Cile, 81-82.

[8] Brasile, 202-203.

[9] Naturalmente non costituiscono una massa i terroristi veri e propri, ma è certo ch’essi sono circondati da una zona abbastanza vasta di appoggi attivi, oppure semplicemente di approvazione passiva, che consente però sempre nuovi reclutamenti.

[10] “Chi continua a civettare con i terroristi si rende loro complice”, ha affermato il cancelliere Schmidt al Bundestag il 13 marzo 1975.

[11] Il Discorso citato del cancelliere Schmidt.