Lelio
Basso
Cittadini, la Costituzione siete voi
Trent’anni fa, in un cielo ancora carico di nubi,
spuntava l’alba della repubblica. A quell’evento io avevo contribuito, essendo
stato il primo dirigente della sinistra ad essermi battuto per la tesi del referendum
istituzionale, perché
nella prudenza dei compagni, socialisti e
comunisti, che volevano affidare la scelta
alla assemblea costituente, scorgevo il pericolo di una defatigante trattativa
di vertici che si sarebbe magari conclusa con un cattivo compromesso fra il
ricatto clericale da una parte e, dall’altra, la volontà di non rompere l’unità
antifascista.
Affidata direttamente al popolo,
quella decisione di trent’anni fa acquistava una maggior forza dirompente e
avrebbe forse potuto, se fosse stata guidata con maggior decisione, disperdere
anche le nubi che si addensavano sull’orizzonte. Affidata direttamente al
popolo che è, qualunque cosa ne possano pensare i giuristi, l’autentico
depositario della sovranità, quella decisione assumeva un preciso significato
di rottura col passato e sanzionava, anche sul piano formale, la volontà
popolare di rottura espressa con le armi durante la Resistenza.
Purtroppo le cose andarono
diversamente e la costituzione che, dopo la resistenza e il referendum
repubblicano, avrebbe dovuto completare il trittico che esprimesse il volto di
un’Italia interamente rinnovata, fu invece segnata dal compromesso grazie alla
resistenza delle forze conservatrici che avevano avuto tutto l’agio di
riprendersi e riorganizzarsi, principalmente al riparo dello scudo crociato. Un
po’ semplicisticamente si può dire che il compromesso significò una
costituzione molto coraggiosa nelle promesse (i principi fondamentali) e
prudente nelle realizzazioni (l’organizzazione dello Stato).
I miei ricordi si riferiscono
soprattutto al lavoro della prima Sottocommissione (della Commissione dei 75),
incaricata di redigere appunto la parte relativa ai principi generali e ai
diritti di libertà civile e politica. Personalmente fui relatore, e quindi
coautore, con La Pira sui diritti di libertà civile ma partecipai attivamente a
tutto il lavoro della Sottocommissione e, oltre agli articoli di mia
particolare spettanza, ne proposi anche altri in sede di rapporti politici. Di
quel periodo conservo alcuni ricordi particolarmente vivi. In primo luogo
l’atmosfera in cui si lavorava, che fu, press’a poco
fino alla fine dei lavori della Sottocommissione, un’atmosfera di leale
collaborazione fra i principali gruppi politici: gli ultimi echi di quella
ch’era stata l’atmosfera della Resistenza e che doveva spegnersi di lì a poco,
grazie soprattutto alle iniziative di Saragat e di De Gasperi e alle
sollecitazioni di Washington.
Ma vorrei qui anche ricordare i due
articoli, proposti esclusivamente da me senza la collaborazione di La Pira, che
mi riuscì di far passare nella Costituzione, che sonò gli attuali articoli 3
capoverso e 49. Sono articoli che hanno fatto consumare in questi trent’anni
molto inchiostro ai giuristi, anche perché entrambi si collocano in una visuale
assai diversa, per non dire contraria, da quella in cui si colloca il profilo
generale della nostra costituzione.
L’art. 49 è quello che ha
riconosciuto il ruolo costituzionale dei partiti, fin allora considerati
semplici associazioni private, costituzionalmente non rilevanti. Era, credo, la
prima menzione dei partiti in una costituzione occidentale, e fu poi seguito
dall’art. 21 della Legge fondamentale germanica. Ma maggiormente innovativo fu
il capoverso dell’art. 3, considerato da molti giuristi come la norma
fondamentale (“Grundnorm”) della costituzione e da
altri come una semplice affermazione senza valore. Ricordo, per i lettori non
giuristi, che il primo comma di quello stesso articolo ripete una norma
standard di tutte le costituzioni sull’eguaglianza dei cittadini: “Tutti i
cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza
distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche,
di condizioni personali e sociali”. Siamo qui, è chiaro, in presenza di una
eguaglianza puramente formale: la legge rimane eguale per tutti, ma la sua
applicazione è diversa, perché la società è composta di persone disuguali. C’è
forse la stessa libertà di stampa per il multimiliardario che può fare il “suo”
giornale e la comune dei mortali? L’esperienza ci mostra che anche in carcere
c’è una profonda differenza di trattamento fra l’imputato comune, ancor oggi soggetto a
maltrattamenti, e il generale che va diretto in infermeria e viene rapidamente
scarcerato. Nonostante la conclamata uguaglianza di diritto, i cittadini sono
ben lungi dal fruire di diritti uguali.
Ed ecco allora il senso del secondo
comma dello stesso art. 3 da me introdotto: “È compito della Repubblica rimuovere
gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e
l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana
e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,
economica e sociale del paese”. Messo immediatamente di seguito al primo,
questo comma ha un netto significato polemico: la Costituzione stessa riconosce
che un principio fondamentale, come quello dell’eguaglianza, non è e non sarà
rispettato in Italia finché non muteranno radicalmente le condizioni economiche
e sociali. Ma la stessa polemica si rivolge, può dirsi, contro tutta la
Costituzione: nessuna libertà è effettiva finché sussistono le attuali
condizioni; il voto dei cittadini non è uguale finché perdurano ostacoli di
ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei
cittadini; la stessa sovranità popolare, base della democrazia, è un’illusione
se non tutti i lavoratori possono partecipare effettivamente all’organizzazione
politica, economica e sociale del Paese.
Da ciò discende un’altra
conseguenza importante. L’ordine giuridico è stato sempre edificato a difesa
dell’ordine sociale, per impedire o punire i tentativi di modificarlo; ora, per
la prima volta, abbiamo nell’ordinamento giuridico una norma che condanna
l’ordine sociale esistente e impone allo Stato di correggerlo. In altre parole
se nella concezione tradizionale la pretesa di modificare l’ordine sociale
costituiva un’offesa all’ordinamento giuridico, oggi è vero il contrario: è la
volontà di conservazione dell’ordine sociale che costituisce un’offesa allo
stesso ordinamento giuridico. Non dirò naturalmente, che la prassi di questi
trent’anni si sia conformata a quest’ordine costituzionale. Ma l’affermazione
rimane e sta a noi esigerne l’applicazione, anche con il voto del 20 giugno. La
Costituzione - diceva Lassalle agli operai tedeschi - siete anche voi perché
siete una forza e la Costituzione è, in ultima istanza, un rapporto di forze.