Problemi e limiti dello sviluppo democratico in Italia
III
Abbiamo visto nell’articolo precedente come la
borghesia italiana si sia trovata, al termine del processo unitario, alla testa
di un grande stato, senza avere né i mezzi né lo spirito di una moderna classe
capitalistica e perciò senza la capacità di dirigerlo sulla via di un moderno
sviluppo economico-politico.
La Destra rappresentava ancora Il governo dei
notabili, nella maggior parte grandi e medi proprietari terrieri del Nord e in
parte del Centro, convinti che la proprietà fosse il segno distintivo di una
superiorità sociale da cui derivava il diritto a governare l’intiera nazione.
L’avvento della Sinistra rappresentò un’estensione della piattaforma di
governo, a cui ebbero accesso tanto i ceti dirigenti del Mezzogiorno quanto i
nuovi strati borghesi del Nord, fra cui soprattutto i banchieri e i grandi
speculatori i quali volevano che la conquistata libertà si estrinsecasse in una
maggior libertà per essi di fare i propri affari e di arricchirsi e
rivendicavano tal fine una maggiore e più diretta influenza sul potere statale.
Depretis e il trasformismo furono l’espressione politica di questo mutamento:
con essi cominciò appunto a delinearsi la figura classica dello Stato italiano,
che abbiamo definito come un sindacato o un consorzio di privilegiati.
Data infatti la scarsità di capitali in rapporto
alla popolazione dello Stato e agli investimenti che sarebbero stati necessari
per ammodernarlo, data la sproporzione fra le esigenze della finanza moderna e
le risorse del paese, dati i timori che cagionava lo sviluppo industriale per
la “questione sociale” che ne sarebbe derivata e a cui non sarebbe stato
possibile ovviare a breve scadenza, ne conseguiva che - anziché impegnarsi a
fondo in un processo di sviluppo economico che avrebbe richiesto mezzi, energie
e capacità di iniziativa e di rischio che facevan difetto ai capitalisti
italiani - i gruppi dirigenti preferirono darsi a un’economia di speculazione e
in certa misura di rapina condotta assicurandosi i favori dello stato.
Speculazioni bancarie, edilizie e ferroviarie;
forniture ed appalti statali sia in materia di lavori pubblici che di riarmo
(l’incidenza delle spese militari sul bilancio complessivo dello stato abbiamo
già rilevato nel precedente articolo); sovvenzioni e protezioni di ogni genere
furono le risorse di una classe capitalistica che non poteva o non voleva - per
mancanza di mezzi o di mercati, per assenza di spirito capitalistico o per
timore di agitazioni operaie, per arretratezza delle condizioni generali o
della propria mentalità, oppure per tutte queste ragioni assieme - assolvere ai
propri compiti storici, che restava una classe dominante senza diventare una
vera classe dirigente la quale ha il compito appunto di portare avanti l’intiera
collettività nazionale.
La lotta politica in Italia fu perciò
caratterizzata dallo sforzo di nuovi gruppi sociali per assidersi al banchetto
e per spartirsi i favori dello stato: dopo i banchieri gli industriali, dopo
gli industriali il ceto medio. Mancò sostanzialmente quel che è il fondamento
di una vita democratica: il conflitto di partiti e di idee, la partecipazione
alla lotta delle grandi masse, l’alternarsi al governo di gruppi sociali e di
movimenti politici contrapposti. Il trasformismo di Depretis, quel ch’egli
designò come “feconda trasformazione dei partiti”, rappresentò precisamente il
compromesso e la fusione del vecchio strato privilegiato dei notabili della
Destra con i nuovi ceti sociali rappresentati dalla Sinistra, sulla base di continui
compromessi di governo.
Se, a misura che la ricchezza della nazione
cresceva, si estendeva la cerchia dei privilegiati, non è detto che i nuovi
privilegiati godessero sempre di eguali benefici: accanto ai privilegi
maggiori, vi erano quelli minori, che si risolvevano in sede locale con i
lavori pubblici o le forniture delle amministrazioni comunali e provinciali,
con le amministrazioni delle opere pie, o, ancor più semplicemente, con
impieghi, prebende, promozioni e onorificenze. Ma anche in questa forma minore,
la caccia al favore e al privilegio rimase sempre l’aspetto distintivo della
vita politica italiana: anche il ceto medio, di fronte alle scarse possibilità
di una normale promozione sociale, come quella che il progresso economico
veniva realizzando negli altri paesi, si attaccò disperatamente alla
raccomandazione, alla protezione, al favore massonico. Sopravviveva
probabilmente in questo costume la vecchia mentalità corporativo-feudale del
“privilegio”, della “concessione”, della “patente”: segno anche questo che la
borghesia era giunta al potere senza avere raggiunto il necessario grado di
sviluppo capitalistico, e senza averne quindi assimilato i valori profondi di
libertà.
Questa situazione spiega come si sia venuta
consolidando la mentalità della nostra classe capitalistica, ansiosa di
assicurarsi dei profitti senza rischi, aliena da ogni preoccupazione di
interesse veramente nazionale, pronta sempre ad identificare il “paese” con se
stessa e a sacrificare ogni cosa allo sfruttamento delle proprie posizioni di
favore, a sacrificare soprattutto lo sviluppo economico nazionale ai propri
interessi sezionali e corporativi. E spiega altresì come il ceto medio
italiano, quello meridionale principalmente, anziché porsi alla testa delle
classi diseredate per condurre una grande battaglia democratica, abbia invece
preferito farsi gradualmente assorbire nella cerchia ristretta dei privilegiati
e assicurarsi la sua modesta porzione di beneficio, salvo precipitarsi ad
ondate successive - di generazione in generazione - all’assalto della cosa
pubblica per accrescere la propria porzione.
Ma per perpetuare questo sistema bisognava che il
consorzio dei privilegiati non perdesse mai il controllo assoluto del potere
statale, donde la necessità del partito unico di governo, del partito cioè che
non ammette la possibilità di un’alternativa al proprio esclusivo dominio.
Tutta la politica del gruppo dirigente è stata sempre indirizzata, via via che
nuove forze premevano, ad assorbirle allargando la cerchia dei privilegiati, ma
ad impedire sempre che questi nuovi gruppi potessero dar vita ad una
opposizione suscettibile di ascendere democraticamente al governo dello stato.
E d’altra parte anche i gruppi che emergevano a poco a poco e venivano alla
ribalta preferivano sempre trovar posto fra i privilegiati, piuttosto che
condurre una lunga e difficile battaglia per mutare profondamente l’ordine
delle cose.
Nonostante le dispute accademiche sulla utilità dei
due partiti e sul sistema inglese, lo sforzo più valido dei gruppi dominanti fu
sempre rivolto alla formazione di un partito unico di governo, che si designava
volta a volta come nazionale, o conservatore, o progressista, in ogni caso come
un partito medio che doveva contemperare appunto conservazione e progresso,
escludendo solo i reazionari (quelli cioè attaccati al vecchio ordine
preunitario) e i sovversivi (cioè tutti coloro che aspiravano a un mutamento di
sistema). Depretis raggiunse questa combinazione sulla base della ricerca
continua di compromessi fra i vari interessi privilegiati, mentre Crispi
presentò questa soluzione sotto l’etichetta dello stato forte e dell’interesse
collettivo incarnato in un uomo forte.
Ma, nell’un caso come nell’altro, costante fu la
preoccupazione di escludere da ogni partecipazione reale al governo della cosa
pubblica l’immensa maggioranza della popolazione, le cui condizioni di vita
erano incredibilmente basse onde consentire appunto l’esistenza di privilegiati
che godevano di una parte notevole dello scarso reddito nazionale. Uno sfruttamento
così intenso e una miseria così grande portano necessariamente alla esclusione
dal potere, ché altrimenti le classi sfruttate se ne servirebbero appunto per
mutare l’ordine delle cose. Ma esclusa dalla partecipazione alla vita pubblica
l’immensa maggioranza della popolazione, la base su cui poggiava lo stato era
troppo ristretta perché essa potesse ancora dividersi in partiti contrastanti.
E tanto più ristretta era a quell’epoca per l’atteggiamento astensionistico dei
cattolici.
Non sarà pertanto possibile in Italia quel che è
accaduto per esempio in Inghilterra, dove i partiti tradizionali, che
rappresentavano interessi contrastanti delle classi dominanti, poterono
prendersi il lusso di contendersi i favori delle classi lavoratrici, facendosi
l’uno e l’altro promotori di riforme sociali. In Italia, respinta la
possibilità di serie riforme sociali e quindi esclusa la possibilità di
alleanze con i ceti popolari, nessun gruppo delle classi dominanti fu in grado
di affrontare la lotta su due fronti: la borghesia industriale, anche
all’apogeo della sua potenza, non si impegnò mai a fondo per una seria riforma
agraria, per distruggere i residui feudali nelle campagne, e preferì sempre il
compromesso con i proprietari terrieri anche i più retrivi, sulla base della
difesa della situazioni esistenti, non solo per il timore di pericoli futuri
che avrebbero potuto derivarle dalla formazione di nuovi strati moderni di
lavoratori, ma anche per la necessità di assicurare ad un regime ristretto
l’appoggio di tutti i ceti possidenti. L’immobilismo sociale italiano ha avuto,
in questo compromesso fra i vari gruppi privilegiati, la sua definitiva
consacrazione.
Chi conosce superficialmente la storia italiana può
ritenere smentita dai fatti questa tendenza al partito unico. Sono noti infatti
i contrasti fra la Destra e la Sinistra e la vittoria di quest’ultima nel 1876,
e, un quarto di secolo dopo, le nuove battaglie parlamentari che segnarono la
fine della reazione umbertina e l’avvento al potere dei gruppi progressivi di
Zanardelli e Giolitti. Si trattò però in entrambi i casi di un allargamento
della base del “partito di governo”, più che di un vero e proprio mutamento,
come il corso degli eventi ha dimostrato.
Per assicurare tutto il potere al partito unico di
governo, fosse il partito di Depretis di Crispi o di Giolitti, si dovettero
porre in essere degli adeguati strumenti. Uno di essi fu l’accentramento
burocratico, con cui si cercò di distruggere ogni forma di vita autonoma
locale, di togliere dalle mani della popolazione possibilità di sviluppo
democratico e di accesso al governo della cosa pubblica, e di costringere tutti
gli interessi locali al compromesso con il potere centrale. È noto che questa
condizione di cose, combinata con il collegio uninominale, faceva della maggior
parte dei deputati, legati agli interessi locali i quali alla lor volta
dipendevano dal potei e centrale, i sostegni necessari del governo.
Parallelamente fu perseguita la politicizzazione della burocrazia: i metodi
inaugurati da Nicotera, primo ministro degli interni della Sinistra, che,
giunto al potere nel 1876, cambiò tutti i prefetti per assicurarsi dei fedeli
servitori del suo partito, trovò sempre larga applicazione successiva. Si
instillò così nella alta burocrazia il concetto che le sue fortune eran legate
agli interessi del partito di governo, che la legalità e l’uguaglianza dei
cittadini passavano in seconda linea di fronte agli interessi dei gruppi
dominanti, che in altre parole il potere statale non doveva essere strumento di
ordinato progresso per la collettività ma era dominio privato dell’oligarchia
dominante e doveva essere adoperato per i suoi fini. E quest’oligarchia si
venne consolidando sulla base di una sempre più stretta compenetrazione di
gruppi economicamente dominanti, di classe politica e di alta burocrazia.
Nei confronti delle masse non privilegiate, cioè
della immensa maggioranza del paese esclusa da quest’oligarchia e quindi
esclusa da ogni forma di partecipazione al potere, gli strumenti adoperati
furono vari e complessi. Basterà qui enumerarne i principali. In primo luogo la
ristrettezza del suffragio. Nel 1860 la percentuale degli elettori rispetto
agli abitanti era dell’1,92 e in vent’anni saliva al 2,18. Con la riforma
elettorale dell’82, dopo sei crisi di governo della sinistra e conseguente
allargamento della piattaforma governativa, l’elettorato salì a circa il 75 e
poi aumentò leggermente negli anni successivi, ma nel 1894 Crispi, nel quadro
della politica autoritaria da lui perseguita, procedette ad una revisione
straordinaria delle liste elettorali, che fece scendere la percentuale di nuovo
al 6,89. Saran soltanto le elezioni del 1913 che si faranno sulla base di un
suffragio maschile quasi universale e quelle del 1919 sulla base del suffragio
universale maschile. Ma nonostante questa ristrettissima base, il governo non
rinunciò mai ad addomesticare le elezioni con la corruzione, con la frode e con
la violenza. Questi metodi elettorali furono introdotti dalla Destra,
perfezionati da Depretis, portati da Giolitti a un alto grado di raffinatezza.
Ma il voto non è la sola arma a disposizione delle
masse. Perciò, anche prima della concessione del suffragio universale, i gruppi
dominanti si preoccuparono soprattutto di impedire la formazione di un grande
schieramento unitario delle masse lavoratrici e delle forze progressiste. A tal
fine furono usati i metodi della divisione, della corruzione dei capi, della
mistificazione ideologica, della ignoranza e della repressione. La divisione
risultava dalla condizione stessa del paese, nato dalla fusione non certo
organica di stati diversi, aventi dietro di sé una storia, diversa e giunti a
un diverso grado di evoluzione economica e sociale. “Se non temessi di destar
gelosie, direi anco che
in Italia ci sono diverse società, frutto
di formazioni storiche quasi indipendenti le une dalle altre, perciò differenti
di coltura e di abito morale”, scriveva De Sanctis nel Diritto del 4 febbraio 1878. E quindici anni dopo, presentando al
Congresso della Internazionale a Zurigo il proprio rapporto, il Partito dei
Lavoratori Italiani nato a Genova l’anno prima, metteva in rilievo appunto come
elementi che giustificavano la debolezza del movimento operaio “les conditions économiques encore peu
développées de notre pays, surtout l’extrème variété de ces conditions qui fait
que d’une région à l’autre il y a presque la différence d’un siècle et que des
périodes historiques successives et contradictoires se coudoyent dans la même
nation”.
La classe di governo italiana si adoperò per
mantenere in vita questa estrema varietà, anzi per accrescerla favorendo lo
sviluppo di alcune regioni mentre altre vegetavano in situazioni sociali che
risultavano-sempre più arretrate. Come è accaduto in genere ai governi
metropolitani in confronto delle loro colonie, il governo di Roma si alleò
nelle regioni arretrate con i capi locali per difendere le arcaiche strutture
che garantivano ad un tempo i privilegi di questi capi e l’obbedienza delle
masse. La sopravvivenza della mafia siciliana, favorita sempre dalle autorità e
dal governi, non è che l’esempio più noto di questo indirizzo. Non fu dunque
soltanto per assicurarsi un mercato semicoloniale, del resto scarsamente
consumatore, che la classe dominante rallentò lo sviluppo del Mezzogiorno e di
altre regioni italiane. I vantaggi che essa ne traeva per la sua politica erano
enormi.
Si ritardava così infatti la formazione di una
coscienza di classe o più semplicemente di una coscienza democratica unitaria
di vastissime masse di lavoratori, che avrebbero potuto svilupparsi solo se si
fossero allentati o comunque ridotti alla loro sfera particolare i vecchi
rapporti precapitalistici e le vecchie forze di coesione (patriarcali,
religiose, tradizionali, tribali, ecc.) e di divisione (lotte di villaggi, di
gruppi, di famiglie, ecc.), in modo che la sfera dei rapporti di classe e dei
rapporti politici apparisse distinta e autonoma. Finché duravano le vecchie
condizioni, era più facile far presa sulle masse piccolo-borghesi o contadine
con miti e passioni irrazionali (sanfedismo, colonialismo, nazionalismo, ecc.),
ed era più facile altresì mantenere il rispetto delle gerarchie in una società
semifeudale che si reggeva in gran parte ancora sul rapporto
patronato-clientela anziché sulla democrazia. Ma inoltre questa divisione del
paese in zone a struttura e quindi a interessi diversi consentiva di giocare
sulla diversità degli interessi immediati.; delle varie categorie di
lavoratori, contrapponendo p. es. gli interessi degli operai delle industrie
protette del Nord agli interessi dei contadini meridionali, ed eccitando le
passioni degli uni contro gli altri. Si voleva insomma da un lato unificare e
centralizzare il potere e dall’altro impedire viceversa la formazione di un
blocco unitario del le classi lavoratrici e delle forze democratiche.
Sulla corruzione - sia in senso letterale che in
senso politico - di capi o di gruppi dirigenti del movimento democratico o
addirittura di strati di ceto medio che avrebbero utilmente potuto esercitare
una funzione di leadership, non è il
caso di soffermarsi: è fenomeno ben noto nella storia recente e anche
recentissima d’Italia, e non soltanto del Mezzogiorno. Anche l’ignoranza delle
masse fu, lungamente ed è ancora in parte un modo di tenerle tranquille, di non
farle avvicinare a libri, a giornali che potrebbero essere veicoli di idee non
conformiste. È risaputo - e lo ha ricordato ancora recentemente Chabod nel suo
volume sulla politica estera - che l’istruzione obbligatoria fu rifiutata dalla
Destra e fu votata soltanto, fra gravi contrasti, dopo l’avvento della Sinistra
al potere, proprio per il timore apertamente dichiarato che l’istruzione delle
plebi fosse un’arma nella lotta contro il predominio degli alti e medi ceti.
Ma, anche votata, non fu poi applicata: aver lasciato il carico della scuola
elementare ai comuni fu un mezzo perché i comuni più poveri, cioè quelli
appunto dove vivevano le masse di contadini più arretrate, non fossero in grado di provvedervi. E tutti sappiamo che ancor oggi
l’istruzione obbligatoria è un mito.
Pure la mistificazione ideologica fu uno strumento
importante per impedire la formazione di un forte partito di opposizione
fondato sulle masse dei lavoratori. Nei paesi capitalistici che ebbero uno
sviluppo democratico fu il ceto medio che fornì alle masse i quadri
intellettuali per la democratizzazione del paese, che avvantaggiava le masse ma
creava altresì delle condizioni di maggior prestigio e di più larga influenza
proprio per il ceto medio. Il ceto medio italiano invece, come abbiamo visto
nell’articolo precedente, proprio per le condizioni di arretratezza del paese,
non fu in grado di assolvere a questa funzione, se non in piccola parte, e
oscillò in generale fra forme di ribellismo e l’asservimento ai ceti dominanti.
Il ritardo di sviluppo delle città italiane che, specialmente nel Mezzogiorno
ma anche nel Nord fino a qualche decennio fa, non erano centri di produzione
economica e quindi motori di uno sviluppo progressivo, ma luoghi di consumo di
redditi agricoli e mercati commerciali di prodotti agricoli e perciò legate
all’economia tradizionale, ha certo avuto la sua parte in questa rinuncia del
ceto medio alla sua funzione progressiva.
Nelle campagne poi, almeno in vastissime zone, la
direzione ideologica delle masse fu lasciata interamente ai preti e alle organizzazioni
cattoliche, che non esercitarono certo una funzione progressiva, volte
com’erano a combattere, conforme i dettami del Sillabo, la civiltà borghese
nella sua totalità e poi anche lo stato italiano considerato “usurpatore”. Sarà
solo sotto la pressione della concorrenza socialista che il movimento cattolico
metterà in disparte le ideologie reazionarie e corporative per accettare,
almeno in parte, i metodi moderni di lotta.
Ma tutto questo non bastando, il ricorso alla
repressione poliziesca e illegale contro i lavoratori fu frequente nella storia
del nostro paese. Ogni qual volta appariva impossibile mantenere i lavoratori
aggiogati supinamente al carro dell’oligarchia dominante, ogni qual volta si
delineava il tentativo di una partecipazione autonoma delle masse alla vita
politica del paese e con essa la pretesa di influire sulla situazione in senso
contrario agli interessi privilegiati, subito il governo reagiva cercando di
gettare questo movimento al margini della vita politica o addirittura nell’illegalità.
Fu l’atteggiamento di Depretis nei confronti del Partito Operaio, che pure era
un piccolissimo partito a tendenze operaistiche ma che aveva scosso appunto la
guida ideologica dei radicali, e fu più tardi l’atteggiamento di Crispi e
successori contro il Partito Socialista che, nato a Genova nel 1892, fu sciolto
nel 1894 e assoggettato poi a persecuzioni e repressioni fino alla fine del
secolo.
In quale misura si può ora considerare che questi
limiti dello sviluppo democratico siano stati realmente superati? Se le
considerazioni che abbiam svolto sono esatte, è evidente che non è stato
superato il limite fondamentale, cioè quello dell’arretratezza economica,
dell’insufficienza del reddito a soddisfare le esigenze vitali delle masse
lavoratrici. Finché la struttura economica del paese è fragile, finché
sussistono due milioni di disoccupati, finché il livello di coscienza delle
masse si sviluppa più rapidamente del loro tenore di vita, non è pensabile che
i gruppi dirigenti accettino lealmente il metodo democratico, cioè affidino la
direzione politica del paese all’alea del gioco delle maggioranze. La
persistenza di questo rapporto fra le condizioni economiche e le condizioni
politiche è evidente nel nostro paese.
Fu soprattutto la crisi agraria scoppiata nel 1882
che, inasprendo la lotta di classe nelle campagne, portò ai grandi scioperi del
1885 e alle misure repressive e antidemocratiche di Depretis; la crisi dello
zolfo e del vino, rompendo il fragile equilibrio dell’economia siciliana,
provocò il moto dei Fasci siciliani e la spietata repressione crispina;
l’aumento del prezzo del grano diede il via ai moti del ‘98 e agli stati
d’assedio.
Se Giolitti poté avviare un periodo di sviluppo democratico, fu perché,
superata la crisi, diminuita la pressione demografica sulle campagne con
l’emigrazione e affluiti capitali dall’estero, in gran parte proprio sotto
forma di rimesse di emigranti, l’economia italiana uscì dalla situazione
difficile di fine secolo e conobbe il periodo della sua maggiore prosperità.
L’aumento del reddito nazionale consentì ai gruppi privilegiati di accrescere
la propria porzione di benefici pur migliorando le condizioni di vita dei
lavoratori e allentando conseguentemente la pressione su di essi. Tuttavia è
caratteristico dello sviluppo politico italiano che l’esperimento giolittiano
si sia svolto anch’esso sui binari tradizionali, nel senso cioè di allargare la
cerchia dei privilegiati, tentando di legare operai settentrionali e contadini
della valle padana agli interessi dei gruppi dominanti ma mantenendo le
popolazioni del Mezzogiorno in condizioni immutate di oppressione, e
perseguendo per questa via una frattura alla base di un possibile schieramento
democratico italiano.
Comunque fosse destinato a svilupparsi questo
esperimento, esso fu travolto dalla guerra, che ebbe per effetto da un lato di
rafforzare enormemente la pressione dei grandi gruppi economici sul potere
statale e dall’altro di imprimere un ritmo molto più celere allo sviluppo di
coscienza delle masse, esasperando così la contraddizione insita nella
struttura dello stato post-risorgimentale, così come si era venuto formando. Da
un lato cioè, per quel caratteristico fenomeno di accavallamento delle
situazioni storiche che si verifica nei paesi arretrati e che abbiamo descritto
nel primo articolo, l’Italia giunse a un alto grado di concentrazione
capitalistica e alle forme degenerative dell’imperialismo e del monopolismo
mentre molte tappe della rivoluzione democratico-borghese erano ancora da
percorrere. La tendenza dei monopoli ad impadronirsi direttamente del potere
statale e ad assoggettarsi l’alta burocrazia per assicurarsi, pure in
condizioni di malthusianismo economico, dei profitti crescenti e senza rischi,
trovò la strada agevolata proprio dal fatto che in Italia la
mentalità-capitalistica vera e propria non aveva mai attecchito, che il
sezionalismo e il privilegio erano forme normali della vita economico-politica
del paese, che la burocrazia era già al servizio di interessi particolari e
infine che non si erano ancora sviluppate nel paese adeguate resistenze fondate
su un forte movimento democratico.
Ma poiché d’altro lato proprio la guerra,
attraverso l’avvicinamento di masse meridionali e settentrionali fuse
nell’unità dell’esercito durante oltre tre anni di guerra, attraverso le
promesse dei ceti dirigenti e la propaganda, sia pure interessata, di ideologie
democratiche, attraverso infine i mutamenti delle condizioni economiche dovuti
soprattutto alla svalutazione che determinarono ampi movimenti sociali nel
dopoguerra, favorì il rapido svilupparsi di due grandi movimenti popolari,
quello socialista e quello cattolico, che insieme conseguirono la maggioranza
dei seggi nelle elezioni del 1919 - le prime svoltesi a suffragio universale -,
era inevitabile che il consorzio dei privilegiati, che da decenni si
considerava padrone dello stato e non aveva mai ammesso la possibilità che il
partito unico di governo si vedesse contestato il suo dominio esclusivo,
reagisse vivacemente. L’edificio giolittiano andò subito in pezzi, e bastò la
crisi del 1921 - che altri paesi più robusti superarono senza gravi difficoltà
- per scuotere l’economia italiana (fallimenti Ansaldo, Ilva, Banca Italiana di
Sconto) e indurre i gruppi dominanti a sostituire allo stato giolittiano lo stato
fascista.
Certo il fascismo non sarebbe spiegabile senza lo
sviluppo del potere monopolistico, ma il suo rapido successo non sarebbe
spiegabile se non si tenesse conto che esso, lungi dal rappresentare una
parentesi o una deviazione dallo sviluppo generale del paese, era invece nella
linea tradizionale della politica delle classi dominanti: lo stato considerato
come proprietà di queste classi dominanti e amministrato come un sindacato di
privilegiati, attraverso la pratica di un partito unico che getta nella
illegalità i partiti e i movimenti politici dei ceti non privilegiati che hanno
la pretesa di contrapporre uno schieramento autonomo al partito di governo.
Queste tendenze delle classi dominanti non sono
mutate neppure in questo dopoguerra, perché non è mutata la struttura
fondamentale dello stato, soggetto più che mai al ricatti e alle pressioni
degli interessi sezionali. Lo sviluppo economico è ancora insufficiente e il
reddito nazionale ancora troppo basso per consentire ad un tempo tranquilli profitti
senza rischi ai gruppi dominanti e condizioni umane di vita alle masse. Perciò
i gruppi dominanti considerano più che mai necessario tenere strettamente il
potere nelle proprie mani ed escludere qualunque possibilità di alternativa
democratica. Tutta la politica di questi anni ha continuato a servirsi degli
strumenti tradizionali di dominio che abbiamo descritto, ma soprattutto ha
mirato a rompere lo schieramento unitario delle masse, favorendo scissioni
politiche e sindacali, tentando di spezzare l’unità di socialisti e comunisti,
riprendendo l’esperimento giolittiano nel senso di favorire aristocrazie
operaie nel Nord e di sparare sui contadini meridionali. La mistificazione
ideologica è stata adoperata su larga scala, non soltanto con l’esperimento
socialdemocratico ma soprattutto con il tentativo di far servire l’influenza
della Chiesa ai fini di un interclassismo che, nelle intenzioni dei gruppi
dirigenti, dovrebbe frenare lo sviluppo di una coscienza autonoma delle masse e
bloccare i fermenti democratici della base.
E infine la pretesa al monopolio del potere per il
partito che difende gli interessi dei gruppi privilegiati è stata martellata
nell’opinione pubblica in tutti questi anni. L’accaparramento dei valori della
civiltà occidentale ai fini di questa propaganda da un lato, e dall’altro il
ricatto anticomunista hanno alimentato una visione manichea, che mira
precisamente a rappresentare lo schieramento dei lavoratori come il male che va
respinto lontano da ogni possibilità di partecipazione effettiva all’esercizio
del potere e gettato ancora una volta ai margini della vita nazionale, perché
non si ha la forza di metterlo nella illegalità. La pretesa di condizionare
l’apertura a sinistra alla rottura dello schieramento democratico, cioè in altre
parole di assorbire nella maggioranza una parte dell’opposizione per meglio
combattere il resto, rientra anche essa nella politica tradizionale dei gruppi
dominanti.
Sembra pertanto chiaro da quanto abbiamo detto qui
che la strada per edificare in Italia uno stato democratico è ancora aspra e
difficile. Di essa si è realizzata fino ad ora solo una condizione preliminare:
per la prima volta in Italia si è formato in questo dopoguerra uno
schieramento democratico di vaste proporzioni, egualmente presente in tutte le
regioni d’Italia, e quindi fondato su quella coscienza unitaria di cui, come
s’è visto, la classe dominante ha cercato d’impedire la formazione. Mantenere e
allargare questo schieramento ai lavoratori cattolici e i ceti medi,
soprattutto agli intellettuali e ai tecnici, è una seconda tappa tuttora in
corso per la cui effettuazione il PSI sembra più che mai oggi lo strumento
indispensabile.
Ma accanto a queste condizioni, ve ne sono altre
non meno necessarie. Si tratta di assicurare rapidamente lo sviluppo economico
del paese, di eliminare la disoccupazione, di migliorare le condizioni di vita
delle masse, di realizzare anche in questo campo le promesse costituzionali.
Abbiamo detto nel primo articolo, con le parole di Laski, che “una democrazia
politica ha bisogno per essere solida di un’economia in via di espansione”, e
crediamo di aver dimostrato che proprio l’arretratezza economica dell’Italia ha
pesato enormemente per ritardarne lo sviluppo democratico.
Infine è necessario assicurare gli strumenti di una
vita democratica, attraverso una profonda riforma dell’amministrazione statale,
che si è venuta formando da decenni sulla base di una pratica di governo
profondamente antidemocratica nello spirito, e attraverso un largo sviluppo
delle autonomie locali che favorisca l’espandersi di tante energie per troppo
tempo mortificate dal pesante centralismo burocratico.
Ma tutto, ciò non sarebbe possibile se non si
elevasse insieme il livello culturale del popolo italiano, condizione
indispensabile del suo progredire economico e del suo maturare politico.
È uno sforzo organico che si richiede oggi alle
forze democratiche italiane, diretto a combattere insieme gli strumenti
tradizionali del prepotere oligarchico nel campo economico, politico e
spirituale, e a costruire il nuovo edificio dello stato democratico italiano.
Se il PSI saprà presentarsi all’opinione pubblica,
ma soprattutto alle giovani generazioni che si affacciano oggi alla vita
pubblica liberi da tutte le polemiche del passato, come il partito capace di
dirigere questo sforzo organico di costruzione democratica, esso avrà schiuso
un capitolo nuovo nella storia travagliata del popolo italiano.
Lelio Basso