CAPITALISMO MONOPOLISTICO E STRATEGIA OPERAIA
Segni
positivi del risveglio teorico di questi ultimi tempi possono essere
considerati sia il dibattito promosso nel 1962 dall’Istituto Gramsci sulle
tendenze nuove del capitalismo italiano
e le polemiche che vi si sono svolte e che l’hanno seguito, sia l’iniziativa
torinese di “Quaderni Rossi”:
in entrambe queste manifestazioni mi è parso tuttavia che si potesse
cogliere il pericolo che la reazione al contenuto socialdemocratico
dell’attuale politica di centro-sinistra fosse un comprensibile ma errato
rifiuto di ogni mediazione fra esigenze di fondo e lotta quotidiana, un rifugio - che
rischia di essere più estetico che politico - nei contrasti assoluti, con il possibile
risultato che partendo alla ricerca di una linea intransigentemente
rivoluzionaria si finisca invece con l’approdare a un atteggiamento
nient’affatto rivoluzionario perché privo d’incidenza sulla realtà. Non va
dimenticato mai che il valore rivoluzionario di una strategia politica non si misura
in base alla drasticità delle sue premesse teoriche ma alla sua capacità di
trasformare effettivamente la realtà nel senso voluto, ed è a questa
preoccupazione soprattutto che vuol essere ispirato il presente contributo, in
cui cercherò di sintetizzare, con riferimento al dibattito in corso la linea
politica che vado proponendo da anni, intorno alla quale si elaborò la
piattaforma della corrente di “alternativa democratica” e per cui intendo
continuare a battermi nella sinistra socialista.
La premessa fondamentale di questa
linea, che mi sembra debba essere premessa comune a tutto il movimento di
classe, è l’attualità non soltanto
della lotta per il socialismo ma del processo rivoluzionario che deve segnare
il passaggio al socialismo. Le
premesse oggettive di questo passaggio al socialismo mi sembrano in larga
misura mature nel mondo occidentale; meno mature mi sembrano le condizioni
soggettive, cioè la coscienza delle
masse e dei partiti che dirigono queste masse. Compito essenziale di una
sinistra socialista mi sembra proprio quello di far maturare questa coscienza
per applicare lo sforzo delle masse a far leva sulle contraddizioni immanenti
della società, in primo luogo sulla sua contraddizione fondamentale, cioè quella fra il carattere sociale
della produzione e l’ordinamento privatistico dei
rapporti produttivi.
Se esaminiamo l’attuale fase
capitalistica troviamo che la sua caratteristica decisiva è appunto l’esasperazione di questa contraddizione: da un lato il
processo produttivo, subordina alle proprie esigenze tutta la vita sociale e
dall’altro invece i rapporti produttivi sono sempre più ordinati a vantaggio di
interessi particolari, di pochi ristretti gruppi che si appropriano del
prodotto del lavoro collettivo e hanno potere per imporre ovunque le proprie
decisioni. Stupisce che in queste condizioni possano affiorare di nuovo, come
espressione di una sinistra socialista, delle tendenze operaistiche,
delle tendenze che pongono il centro di gravità della lotta all’interno della
fabbrica e sembrano quasi non accorgersi che la potenza del monopolio nella
società di oggi non deriva da un suo accresciuto potere nei confronti dei suoi
operai, nei rapporti interni di lavoro, ma proprio dal suo accresciuto potere
fuori della fabbrica, prima sul mercato, poi, a poco a poco, in tutte le
manifestazioni della vita politica e sociale.
Esula dai limiti di quest’articolo
un’analisi della fase monopolistica della società capitalistica: tuttavia è necessario rammentarne alcune
caratteristiche note, e, soprattutto, metterne in rilievo alcune tendenze di
sviluppo come premessa su cui basare le linee generali di una strategia del
movimento operaio in questa fase e di
fronte a queste tendenze. La prima
nota nettamente differenziatrice del capitalismo
monopolistico o oligopolistico concentrato rispetto al vecchio capitalismo
concorrenziale non riguarda i rapporti fra capitale e lavoro, ma i rapporti di
mercato: essendo unici, o quasi, venditori di una determinata merce, il
monopolio o l’oligopolio non sono più soggetti alle classiche leggi del
mercato, ma sono anzi, fino a un certo punto, in grado di dominarle e di
fissare il prezzo della merce che vendono, e per questa via di predeterminare
il proprio profitto. Da ciò la possibilità di
accumulare profitti superiori alla media e di promuovere quell’intensificata
accumulazione interna, nota sotto il nome di autofinanziamento, che rende il
monopolio indipendente, almeno in larga misura, dal credito e dal mercato
finanziario. Ma su questa base la disponibilità di mezzi da investire cresce
più rapidamente di quanto non cresca la domanda solvibile di prodotti e quindi
di quanto non crescano le occasioni di investimento redditizio (perché a nulla servirebbe fare
nuovi investimenti se il nuovo prodotto non trovasse sbocchi), e cioè su questa base si acuisce una delle
contraddizioni più gravi del sistema, mentre la situazione di monopolio e la
conseguente rigidità dei prezzi hanno distrutto le capacità autoregolatrici
del mercato. Il capitalismo monopolistico perciò è costretto a servirsi dei poteri pubblici per una serie di
interventi che correggano i successivi squilibri, in modo particolare creando
quelle possibilità di sbocco che sono necessarie per mantenere in efficienza il
meccanismo economico (politica imperialistica per assicurare
il controllo di mercati esteri, redistribuzione del
reddito per incrementare la domanda interna, ma, soprattutto, dilatazione della
spesa pubblica e creazione di mercati sussidiari, fra cui in prima linea quello
offerto dal riarmo). L’interpenetrazione fra potere economico e potere politico
è oggi, in queste condizioni, una necessità di vita per il capitalismo
monopolistico, ed è grazie a questa interpenetrazione che i grandi gruppi
monopolistici hanno potuto a poco a poco dominare tutti i settori della vita
nazionale, e, in alcuni casi, di quella internazionale e hanno imposto ovunque
rapporti capitalistici anche nei confronti dei settori la cui dinamica interna
non è ancora capitalistica (come una larga parte del settore agricolo, della
piccola produzione, del mondo coloniale, ecc.).
Ne deriva
che oggi il settore monopolistico (usiamo questa espressione nel senso che essa
ha oggi assunto nella polemica politica e non in senso rigorosamente
tecnico-economico che suggerirebbe piuttosto l’espressione di ‘oligopolio concentrato’) non soltanto si appropria del plusvalore
prodotto dai suoi operai, ma, grazie al suo forte potere di mercato che gli
permette d’imporre i prezzi sia dei prodotti che vende che di quelli che
compra, riesce ad appropriarsi almeno di una parte del plusvalore prodotto in
tutti gli altri settori non monopolistici: sia in quello agricolo, sia in
quello del piccolo produttore indipendente, sia anche in quello delle aziende
capitalistiche non monopolistiche, dove il tasso di profitto è minore e spesso,
di conseguenza, anche i salari degli operai sono più bassi proprio per il peso
che il settore monopolistico esercita sul mercato. Ridurre quindi, nella
presente situazione, la lotta di classe al rapporto interno di fabbrica,
proprio mentre la caratteristica della fase attuale del capitalismo è la
creazione di questi complessi meccanismi che permettono di esercitare lo
sfruttamento in una sfera molto più vasta, anche senza il vincolo formale del
rapporto di lavoro, è perlomeno curioso.
Ma c’è di
più. Fra le incidenze principali del monopolio vi sono quelle nei confronti
dell’occupazione operaia. Poiché nota essenziale del capitalismo è che
l’operaio possa vendere la sua forza di lavoro, e cioè trovare un’occupazione,
solo se ha di fronte a sé un capitalista che dall’acquisto della sua forza di
lavoro può trarre un profitto, è evidente che se il monopolio diminuisce questa
possibilità la disoccupazione che ne deriva dev’essergli
imputata, e che pertanto i lavoratori che non riescono a vendere la propria
forza di lavoro, cioè i disoccupati, sono le sue principali vittime. E tale è
appunto oggi la situazione in generale.
Certo, a
meno di non cadere in quell’obiettivismo economico
che siamo tutti d’accordo nel condannare, è difficile ridurre oggi la lotta
politica entro gli schemi di rapporti economici “puri” come il rapporto di
lavoro. È difficile, da un lato, per la ragione che abbiamo accennato e cioè
che il capitalismo monopolistico non va a ricercare le sue vittime fra i suoi
dipendenti, ma più volentieri al di fuori, talché ognuno di noi, in qualche
momento della nostra complessa esistenza sociale, è preso nella rete dei
rapporti capitalistici ed è vittima del monopolio, mentre non è escluso che i
dipendenti diretti possano essere, se mi è lecita l’espressione, “meno
vittime”, magari qualche volta associati a certi benefici e addirittura
possibili alleati (parlo qui, s’intende, in senso generale e senza nessuno
speciale riferimento all’Italia, perché siamo ancora in sede di discussione
teorica e non di indagine pratica). Ed è difficile anche per l’altra
ragione che nessuno è soltanto “operaio” ma ognuno è uomo che vive una vita
completa nella società e le sue scelte politiche non sono influenzate soltanto
dal rapporto di lavoro ma appunto da tutta la sua vita sociale. È perciò nella vita sociale in
tutta la ricchezza delle sue manifestazioni, e non nella vita aziendale e di
fabbrica soltanto, che dobbiamo spingere la nostra indagine, ed è la lotta più
articolata quella che dobbiamo saper suscitare: la lotta della società contro
il suo dominatore rappresentato dal sistema di potere che il monopolio ha
instaurato. Certo in questa lotta la funzione dirigente spetta sempre alla
classe operaia, ma non tanto perché essa sia direttamente impegnata nel rapporto
di lavoro, quanto per il fatto che la sua esperienza storica e la sua posizione
sociale ne fa la portatrice per eccellenza dei valori collettivi. In altre
parole oggi più che mai, nella fase monopolistica, è fuori dalla fabbrica,
fuori dal ristretto ambito aziendale, che bisogna studiare e analizzare sia le
basi del potere capitalistico, sia l’estrinsecazione e le conseguenze
dell’azione del grande capitale, più che mai oggi è fuori dalla fabbrica, nel
tessuto sociale e nei centri decisionali che bisogna portare l’attacco al
monopolio, più che mai oggi è in tutti gli strati sociali che bisogna ricercare
i temi e sviluppare le alleanze in una lotta contro il capitalismo e per il
socialismo.
1.
Tendenze di sviluppo della società monopolistica.
Come si configura
oggi il rapporto potere monopolistico-società? Già
Lenin avvertiva nel suo saggio sull’imperialismo che il monopolio avrebbe
provocato un immenso progresso nella socializzazione della produzione e non occorre certo spendere
parole per sottolineare a quale grado sia giunta la socializzazione del
processo produttivo, al punto che si può dire che ormai tutta la vita sociale
sia regolata dal ritmo del processo di produzione. Anche il consumo, l’altra
faccia del processo produttivo, è ormai soggetto a questa esigenza di
socializzazione, e l’uomo stesso è afferrato da questa macchina non solo, com’è
naturale, in quanto lavoratore, nel momento dell’impiego della sua forza di
lavoro nella fabbrica, ma anche prima dell’impiego, nei momenti della sua formazione,
nella scuola che viene ormai organizzata secondo le esigenze della produzione
monopolistica, e, si può dire, in ogni momento della sua vita spirituale. La
politica interna, internazionale ed economica dei governi, la cultura
orientata, i divertimenti di massa: tutto ormai è funzione della stessa
esigenza sociale, il processo produttivo. Anche la vita privata viene
rimodellata secondo i nuovi bisogni: i vecchi istituti e i vecchi gruppi, dalla
famiglia alle piccole comunità locali, vengono a poco a poco schiacciati e
sostituiti dal processo di urbanizzazione che crea un tessuto assai fitto di
rapporti anonimi nei quali l’individuo rischia di perdere la propria
personalità per diventare soltanto un elemento, anch’esso anonimo, della
macchina sociale.
Non
tutto, certo, è negativo in questo processo di socializzazione, che è anzi in
gran parte inscindibile dallo sviluppo della tecnica moderna. Quel che è
sicuramente negativo, quel che rappresenta appunto la contraddizione
fondamentale è che, nella società attuale, il processo è subordinato a fini di
interesse privato, che tutti i rapporti sociali sono ordinati allo scopo di
meglio garantire l’appropriazione privata del prodotto sociale, e che la
società viene spogliata del suo autonomo potere che si concentra in
ristrettissime mani e la domina dall’alto: il potere monopolistico diventato
potere politico. Perché è appunto in questo contrasto che sta la ragione della
condanna dell’attuale sistema sociale, ed è nell’esasperazione a cui esso è
stato portato dall’attuale fase monopolistica che sta la necessità attuale
della lotta per il socialismo, la necessità di dare alla società nel suo
complesso il dominio sul processo produttivo ormai completamente socializzato,
e di restituire per questa via all’uomo la sua essenza sociale, cioè la sua
natura umana.
Non credo sia necessario insistere
molto su questi aspetti della fase attuale del capitalismo, che sono noti:
mette conto piuttosto di cercare di estrapolare da questa situazione le linee
principali delle, tendenze ulteriori di sviluppo. Una prima tendenza è
certamente quella alla concentrazione crescente di potere economico: al limite
questa tendenza punta all’assoggettamento di tutto il mercato capitalistico
mondiale a una potenza monopolistica internazionale unitaria. Scrivendo questo,
non ignoro i profondi contrasti d’interesse che dividono il mondo dei monopoli:
monopoli di paesi diversi, o anche dello stesso paese e della stessa branca, o
di branche affini o comunque concorrenti nell’assorbimento del plusvalore
prodotto dalla società, oppure monopoli venditori e compratori, e via
discorrendo. Ma non ignoro neppure che questi contrasti agiscono generalmente
in una doppia direzione, il conflitto e la conciliazione: conciliazione che può
risultare dalla vittoria definitiva di un gruppo con contemporaneo
assorbimento, dell’altro, o può portare a una fusione o un’intesa cartellistica o di altro tipo, o alla creazione di nuove
imprese comuni a partecipazione ripartita, alla formazione di trusts internazionali o addirittura di
istituzioni di nuovo tipo che siano espressione di un interesse comune. In
ultima analisi, pur attraverso aspre lotte, non c’è dubbio che il processo di
concentrazione è andato sempre sviluppandosi anche a livello internazionale e
che, essendo ormai sempre meno probabile il regolamento bellico dei contrasti
imperialisti che fu la forma di regolamento preferita in passato, la tendenza
verso la soluzione conciliativa e la creazione di intese e di legami sempre più
stretti ne risulta rafforzata. Una quarantina d’anni fa Lenin avvertiva questa
tendenza scrivendo nella sua Prefazione al
libro di Bukharin su L’economia mondiale
e l’imperialismo:
“Non c’è dubbio che lo sviluppo del
capitalismo va nella direzione di un
singolo trust mondiale che
inghiottirà tutte le imprese e tutti gli Stati, senza eccezione alcuna. Ma lo
sviluppo in questa direzione avviene sotto una pressione tale, con un ritmo
tale, con tali contraddizioni, conflitti e convulsioni - non solo economiche,
ma anche politiche, nazionali, ecc.- che, prima che si giunga a un singolo trust mondiale, prima che i capitali
finanziari dei vari Paesi abbiano formato un’unione mondiale
‘ultra-imperialistica’, l’imperialismo dovrà inevitabilmente scoppiare, e il
capitalismo si trasformerà nel suo opposto”.
A questa diagnosi di Lenin mi
sembra necessaria un’aggiunta, e cioè che l’imperialismo crollerà certamente,
non per fatalità di eventi, ma solo se il movimento operaio saprà combattere la
sua battaglia per farlo crollare. In altre parole credo che nella logica
dell’imperialismo la tendenza all’unificazione sia più forte delle lacerazioni
provocate dalle contraddizioni, se di queste contraddizioni non sa servirsi
l’intervento cosciente del movimento operaio per provocare il crollo
dell’imperialismo. Ma di questo intervento cosciente dirò più avanti.
Una seconda tendenza destinata ad
accentuarsi sempre più in avvenire è quella relativa all’interpenetrazione di
potere economico e potere politico, cioè, praticamente, all’orientamento di
tutta la politica statale ai fini voluti dal potere monopolistico. Abbiamo già
accennato al fatto, che non ha certo bisogno di dimostrazione, che il
capitalismo monopolistico ha eliminato i meccanismi autoregolatori
che si sviluppavano in regime concorrenziale, ma non ha viceversa eliminato le
cause di squilibrio che rendevano necessari quei meccanismi: al contrario,
abbandonato alla sua spontaneità, esso esaspererebbe la contraddizione fra la
necessità di mantenere un alto saggio di accumulazione per assicurare piena
efficienza al sistema e l’impossibilità di mantenerlo per il venir meno, a un
certo punto, del profitto che è la molla del sistema, cioè sarebbe soggetto
alla più grave instabilità. Per evitarlo è necessario far ricorso ad un complesso
di tecniche di previsioni e di tecniche di correzione capaci di ridurre
continuamente l’ampiezza delle fluttuazioni e degli squilibri e di fornire quei
rimedi anticiclici, che soli possono evitare la catastrofe. Ma queste tecniche
richiedono una continua estensione dell’intervento pubblico nella vita
economica, sia per facilitare e orientare gli investimenti (preparazione di
infrastrutture, sussidi e incentivazioni, gestione di pubblici servizi,
politica di sostegno dei prezzi, programmazione concertata), sia per sostenere
la domanda (spesa pubblica, e soprattutto riarmo, redistribuzione
di redditi per sostenere la domanda di beni di consumo, acquisto di prodotti eccedentari, ecc. ), senza parlare dei sistemi più
tradizionali di intervento con la politica fiscale, creditizia, doganale,
monetaria, e della politica internazionale che si può dire ormai interamente
dominata da problemi di questa natura. E, come ho già accennato, poiché il
processo di socializzazione della produzione investe ormai tutti gli aspetti
della vita sociale, a cominciare dalla preparazione scolastica che dev’essere
subordinata ai fini della produzione, ne deriva che gli interessi privati che
reggono il processo produttivo hanno bisogno che lo Stato indirizzi la sua
politica, anche fuori dall’ambito economico, sui binari che portano al
soddisfacimento delle loro esigenze. Una volta che sia chiaro che il sistema
capitalistico nella sua fase attuale non può vivere senza questo continuo
intervento del potere pubblico in tutti i settori, ne deriva che il potere
concentrato dei monopoli non può rinunciare a controllare il potere pubblico e
che questo a sua volta è posto di fronte al dilemma di subordinarsi al sistema
o di lottare per distruggerlo. Anche qui pertanto, senza un
intervento cosciente in senso contrario, la tendenza spontanea del sistema è
verso il totale asservimento del potere politico agli interessi privati sempre
più concentrati in mani ristrette, portando a un grado ancor più alto la
contraddizione fondamentale fra il carattere sempre più sociale della produzione
- talmente sociale da rendere necessario per il suo funzionamento un
coordinamento di tutto il meccanismo della società - e l’appropriazione privata
del prodotto sociale che arriva fino a confiscare tutto il potere statale per i
suoi fini privati.
Ma
sarebbe errato pensare che il potere politico serva al grande capitale solo per
imporre coattivamente la propria
volontà, come fu con i primi esperimenti nazi-fascisti:
al contrario il sistema ha bisogno di raggiungere il massimo possibile di
razionalità (beninteso di razionalità concepita secondo la logica del proprio
funzionamento interno) e questa razionalità presuppone a sua volta il massimo di armonia fra i diversi momenti
di cui si compone l’ingranaggio complesso del sistema: da ciò la necessità di smorzare
e di velare le contraddizioni e anzi di creare, sul piano sovrastrutturale,
tutta una serie di meccanismi di armonizzazione. Armonizzazione fra capitale e
lavoro (ottenuta in parte con miglioramenti effettivi, ma in parte con elementi
sovrastrutturali che vanno dalle human relations americane
alla Mitbestimung tedesca o alle conferenze triangolari
fra governo, padronato e sindacati operai in uso in parecchi paesi),
armonizzazione, come si è già accennato, fra monopoli contrastanti, fra
imperialisti e popoli colonizzati (politica degli aiuti, neocolonialismo), fra
produttori e consumatori (public relations), fra monopolisti e personale politico, ecc.. Queste esigenze di
armonizzazione si esprimono in forma più generale nelle nuove ideologie
neocapitalistiche, del capitalismo popolare e addirittura dell’imperialismo
popolare, e della piena occupazione, ideologie che vengono inculcate attraverso
i mezzi di comunicazione di massa. Un aspetto ideologico
particolarmente importante in questa direzione è rappresentato dal nuovo
cattolicesimo sociale quale si è venuto profilando in questo dopoguerra e che
costituisce nei paesi cattolici il più forte cemento di unità ideologica e
tende praticamente ad esautorare la funzione anche della socialdemocrazia, in quanto
si spinge ad occupare posizioni riformistiche più avanzate o perlomeno più
moderne.
In sostanza questo processo di armonizzazione tende
a creare un consenso generale attorno al sistema, consenso tuttavia ottenuto
grazie alla totale subordinazione ideologica delle masse lavoratrici e
dell’intera popolazione all’ideologia del sistema. Opera in questa direzione la
tendenza all’isolamento degli individui e all’atomizzazione della società: ogni
singolo è confinato negli aspetti tecnici, settoriali, corporativi,
particolaristici, con la distruzione di ogni autonoma posizione ideologica e
politica, è respinto sempre più nel chiuso della propria individualità, del
proprio micro-mondo, gli interessi e i problemi
generali essendo sempre più riservati al potere decisionale dei pochi ristretti
gruppi che detengono totalitariamente il potere. Siamo cioè ancora in presenza
di una tendenza allo Stato totalitario, che è indissolubilmente legata alla
crescita del sistema monopolistico: anche se il totalitarismo statuale non è
più teorizzato come ai tempi fascisti (ché anzi preferisce appoggiarsi sulla
democrazia e sul consenso), esso è intrinsecamente nelle cose perché il sistema
può funzionare solo se tutta la vita sociale è subordinata alle sue esigenze.
E d’altra parte se la forma
preferita dai monopoli è questa specie di totalitarismo silenzioso e
inconfessato, ciò non significa che, qualora non funzionino i meccanismi
armonizzatori, non si possa o debba ancora fare ricorso ai meccanismi di
coazione: anzi in un certo senso si può dire che i primi possono essere messi
in funzione solo dopo che i secondi hanno aperto il cammino, almeno
silenziosamente. E sono poi comunque pronti per ogni eventualità. In ultima
analisi la tendenza immanente al mondo capitalistico di oggi è la tendenza
verso la concentrazione universale del potere economico e politico in
pochissime mani, verso una forma di fascismo universale, un fascismo liberato
per quanto è possibile dalle sue forme più rozze e brutali e fatto padrone di
un’umanità finalmente addomesticata a servire.
2. Attualità del
socialismo.
È chiaro peraltro - e lo ripeto per
non lasciar luogo a dubbi - che se queste sono le tendenze spontanee del
sistema, è altrettanto vero che il sistema stesso, a causa delle sue
contraddizioni interne, genera delle forze capaci di contro-operare
efficacemente fino a distruggerlo e aprire la via al socialismo. Tuttavia, ed è
questo un punto che va sottolineato con estrema energia, queste forze non
operano automaticamente. Non c’è nessuna fatalità nel passaggio dal capitalismo
al socialismo, e se si può parlare di una “necessità storica” lo si può solo
nel senso che si tratta di un momento dialettico inerente al processo storico
che deve esprimersi peraltro in una volontà cosciente di lotte e di superamento.
La responsabilità del movimento operaio, e in particolare dei suoi dirigenti, è
quindi massima: se essi non avvertono le tendenze in atto, se si lasciano
cloroformizzare dall’imperialismo popolare e dalle sue ideologie, se si
accodano in posizione subalterna credendo di servire l’interesse delle masse
entro il sistema, essi si rendono responsabili di lasciare via libera alle
forze intrinseche al sistema che operano in direzione totalitaria. Se al
contrario essi promuovono e aiutano la formazione di una coscienza autonoma di
classe, e ne indirizzano gli sforzi verso la lotta aperta contro il sistema,
possono trovare oggi le condizioni più favorevoli perché questa lotta sia
vittoriosa.
Queste
condizioni favorevoli sono offerte appunto dalle contraddizioni del sistema cui
ho in parte già accennato e che voglio qui sommariamente ricapitolare. La più
profonda di queste contraddizioni, quella che è alla radice del ciclo e quindi
delle crisi e che tuttora determina la continua instabilità, è quella che deriva
direttamente dalla natura stessa del sistema mosso esclusivamente dal profitto
privato, cioè lo squilibrio fra il ritmo di incremento della capacità
produttiva e il ritmo di incremento della domanda solvibile, o, in altre
parole, fra la tendenza ad accumulare una massa sempre più ingente di mezzi da
investire, e la crescente difficoltà di trovare possibilità di investimento che
rispondano all’esigenza del profitto, per l’insufficiente dilatazione della
capacità di acquisto dei beni prodotti. Per ripetere un’espressione efficace di
Sweezy, il capitalismo preme sul freno per quanto
riguarda il consumo e sull’acceleratore per quanto riguarda la produzione, e
questo squilibrio è paurosamente accresciuto nella fase monopolistica proprio
per il ritmo più intenso che questa fase imprime all’accumulazione di profitti
da reinvestire da parte dei monopoli. Nonostante l’intervento dei fattori
esterni cui si è accennato, soprattutto della spesa pubblica in funzione
anticiclica, una condizione di cose di questa natura provoca inevitabilmente
una serie continua di fluttuazioni, che se non sono ancora arrivate in questo
dopoguerra ad una crisi di vaste proporzioni, sono tuttavia cagione di
recessioni, di bruschi sbalzi o di stagnazioni che hanno riflessi inevitabili
sul livello di occupazione e di salario. Più ancora che nelle fasi
capitalistiche precedenti, la fase monopolistica tende a produrre
disuguaglianze nei redditi, e, nonostante le apparenze, tende ad abbassare i
salari ad una quota sempre minore del reddito nazionale, tendenza
che solo una dura lotta sindacale può in tutto o in parte annullare. E per
quanto riguarda il livello dell’occupazione, ho già accennato alla tendenza
depressiva insita nel sistema,
che si manifesta del resto apertamente nelle forme strutturali assunte
dalla disoccupazione negli Stati Uniti. A queste manifestazioni tipiche
dell’attuale fase capitalistica che sono in radicale contrasto con
l’aspirazione generalizzata dei lavoratori alla stabilità e alla sicurezza, si
aggiunge lo squilibrio continuamente provocato dallo sviluppo ineguale del
capitalismo, squilibrio fra industria e agricoltura, fra paesi industrializzati
e paesi coloniali e semi-coloniali, fra diversi rami d’industria (soprattutto
fra quelli monopolistici e quelli concorrenziali) o fra diverse regioni di uno
stesso paese: anche questo tipo di squilibri, connaturato al capitalismo, è
oggi aggravato dalla presenza e dall’influenza che è esercitata dal meccanismo
di sviluppo dei settori monopolistici: la contemporanea presenza di meccanismi
di sviluppo diversi è fonte continua di attriti, di squilibri, di tensioni.
Ma uno degli aspetti più negativi
del capitalismo monopolistico è rappresentato proprio dai meccanismi con cui si
cerca di correggere le fluttuazioni e gli squilibri e di evitare le crisi,
meccanismi che tendono a produrre in altra forma gli stessi effetti delle
crisi, cioè a distruggere ricchezza accumulata o potenziale mediante quella che
è stata definita “l’istituzionalizzazione dello spreco”, di cui il riarmo è la
manifestazione più vistosa. Ma il riarmo non è
solo spreco, non è solo un fatto economico, ma è un fatto politico che comporta
conseguenze gravissime: per poter essere sostenuto ha bisogno di essere
coltivato in un’atmosfera di guerra fredda e può essere a sua volta causa ad
ogni momento di guerra calda. Non solo, ma spesa per riarmo significa in
generale minore spesa per i servizi sociali, per i bisogni collettivi: “tutte
le pressioni generate dalla società capitalistica tendono a fissare il livello
delle spese militari al di sopra del bisogno, e il livello della spesa sociale
molto al di sotto del bisogno”. Riarmo e insufficiente
soddisfazione dei bisogni sociali sono due aspetti profondamente radicati nella
presente società.
Infine,
per concludere questo rapidissimo excursus,
è necessario aggiungere che proprio in conseguenza della mancanza di
meccanismi autoregolatori e della conseguente
necessità di stimoli esterni, lo sviluppo economico oscilla continuamente fra
il boom inflazionistico e la recessione deflazionistica, fra il sostegno dato
dalla spesa pubblica e dal credito alla domanda effettiva e le restrizioni
creditizie e il blocco dei salari.
Se
un’astratta razionalità presiedesse alle azioni umane, sarebbe difficilmente
pensabile che un sistema economico di questa natura potesse durare, ma in
realtà, come si è visto, esso ha saputo non solo attenuare le manifestazioni
più vistose della sua cronica instabilità ma ne ha mascherato anche le ragioni
profonde. Non solo infatti si tratta, nella maggior parte dei casi, di
contraddizioni e squilibri che agiscono nel lungo periodo, e quindi sono più
difficili da avvertire da parte delle masse, ma il sistema è riuscito a mettere
in opera tutta una serie di meccanismi sovrastrutturali che riescono a
mistificare la coscienza e a mascherare la realtà. Tuttavia se l’azione di
questi meccanismi può essere efficace all’interno e frenare le tendenze autodistruttrici che la natura intrinseca del sistema, con
le sue contraddizioni, comporta, essa è sicuramente molto meno efficace nei
confronti di una “sfida” che provenga dall’esterno del mondo capitalistico. In
altre parole, il compito degli apologeti del capitalismo, che da circa due
secoli si sono sforzati di dimostrare la razionalità del sistema, diventa molto
più difficile da quando esiste nel mondo un altro sistema che può costituire un
utile termine di raffronto. Infatti, se è vero quel che la critica marxista ha
sempre sostenuto, che l’ordinamento capitalistico dei rapporti di produzione
contraddice alle esigenze di sviluppo delle forze produttive, se ne deve
dedurre che un ordinamento diverso dei rapporti di produzione, ispirato non più
alle esigenze del profitto ma al benessere della collettività, può e deve
realizzare dei ritmi più intensi di espansione produttiva e un benessere
sociale più diffuso.
Il
capitalismo ha avuto la sua giustificazione storica - giustificazione storica
anche degli orrori delle miserie e delle sofferenze infinite che ha imposto
all’umanità - proprio per la capacità che ha dimostrato, in confronto di
qualsiasi regime precedente, di suscitare delle immense forze produttive e di
imprimere allo sviluppo economico della società un ritmo assolutamente senza
paragone con il passato. Ma per la stessa ragione esso perde ogni titolo di
validità storica se si dimostra che un altro sistema sociale è oggi in grado di
superarlo, di ottenere una maggiore espansione delle forze produttive e un più
alto grado di benessere. Sotto questo profilo le vicende dei paesi socialisti
diventano un fatto interno anche del mondo capitalistico, un termine costante
di paragone, uno strumento vivente di critica, un metro permanentemente
rinnovato di giudizio sulla “razionalità”, sulla “validità storica” del regime
capitalistico.
Ora
credo che non ci sia dubbio che il sistema socialista ha esercitato nei
confronti del capitalismo questa funzione di metro di paragone, di sfida e di
pungolo, fin dai tempi della grande depressione degli anni ‘30 (quando l’Urss fu immune dalle piaghe della crisi e della
disoccupazione che affliggevano il mondo capitalista) giù giù
fino alla sfida kruscioviana e alle imprese spaziali
che sono alla base del notevole sforzo tentato da Kennedy e dai suoi
collaboratori per imprimere un nuovo ritmo all’economia americana e occidentale
in genere, per tentare nuove forme organizzative, per cercare di colmare il
grave handicap in fatto di
investimenti sociali e di lotta alla miseria. È ora estremamente importante che
i paesi socialisti sappiano alla loro volta superare le loro difficoltà e
imprimere un nuovo slancio all’edificazione del sistema, mettendo in valore
tutta la ricca potenzialità contenuta nei rapporti socialisti di produzione in
fatto di razionalità interna, stabilità, equilibrio, effettiva piena
occupazione, ritmi di sviluppo, uguaglianza distributiva, capacità di far
fronte a tutti i servizi pubblici e in particolare a tutti quelli che attengono
al fattore umano (salute fisica, cultura, specializzazione tecnica, ecc.), e,
infine, di libero sviluppo della personalità ed effettiva gestione democratica
della società, ma le circostanze specifiche in cui si è venuto edificando il
nuovo sistema ne hanno reso difficile la maturazione, rallentando di
conseguenza il processo di superamento, del sistema capitalistico, che è già
condannato dalla storia e che è destinato a scomparire quando i nuovi rapporti
di produzione avranno potuto finalmente spiegare tutta la loro ricchezza.
3. La lotta per il potere.
Il fatto
che il sistema capitalistico possa ormai considerarsi storicamente superato non
significa ancora che esso stia per essere di fatto superato. La rivoluzione
socialista non è né lo sbocco meccanico di un processo cumulativo di tensioni
(quale sarebbe p. es. la “miseria crescente” secondo una teoria falsamente
attribuita a Marx e purtroppo ancora in voga in alcuni settori del movimento
operaio) né il passaggio silenzioso, graduale e quasi insensibile dal
capitalismo avanzato al socialismo, secondo una concezione cara ai riformisti.
Tutti i tentativi di scoprire il meccanismo oggettivo dell’autodistruzione
capitalistica o la legge fatale del superamento mi sembrano condannati a una
perpetua smentita. La rivoluzione socialista non può essere che il frutto di un
intervento cosciente delle forze produttive nel processo storico allo scopo di
trasformare in senso socialista l’ordinamento dei rapporti produttivi. Nasce
quindi dalla contraddizione di fondo della società capitalistica, ma in quanto
questa contraddizione si traduca in coscienza di classe e si esprima in
un’azione rivoluzionaria. Senza questo intervento cosciente, la società
capitalistica può vivere lungamente perché è una società capace di continue
trasformazioni, capace di superare le proprie contraddizioni con altre
contraddizioni, capace di trovare nuovi meccanismi di autoconservazione
che, se non risolvono mai i problemi fondamentali, consentono tuttavia di
superare di volta in volta le difficoltà. In quale direzione l’attuale società
tenda ad evolversi ho cercato di mettere in evidenza. Quali sono, nelle
condizioni attuali, le possibilità di rovesciare questa tendenza con un’azione
rivoluzionaria? E, innanzi tutto, esistono le premesse obiettive di questa
azione rivoluzionaria?
La
risposta non può che essere positiva. Sono le esigenze nascenti dal carattere
sociale del processo produttivo che spingono la stessa società capitalistica
verso soluzioni che in un certo senso si possono considerare premesse obiettive
del socialismo. Certo sono soluzioni che la società capitalistica ricerca nel
proprio interesse ma che le sono dettate da necessità di fatto; non sono quindi
soluzioni arbitrarie ma soluzioni legate precisamente al carattere sociale
della produzione. L’intervento pubblico nell’economia, le nazionalizzazioni, la
contabilità nazionale, la pianificazione anche soltanto concertata, i tentativi
progressivi di razionalizzazione del sistema, il superamento delle barriere
nazionali e l’integrazione economica sono tutte misure bivalenti e che devono
essere viste in una prospettiva dialettica,
e cioè come misure utili anzi necessarie al capitalismo, ma al tempo
stesso contenenti un passo obiettivo verso il socialismo. Non è del resto tutta
la storia del capitalismo una serie di passi obiettivi verso il socialismo?
La
natura bivalente di queste misure e di queste soluzioni, se da un lato
favorisce il movimento operaio perché porta ad una fase sempre più avanzata la
preparazione delle premesse oggettive del socialismo rendendo indubbiamente più
facile il futuro passaggio,
dall’altro lato tuttavia gioca, nel
presente, a vantaggio di chi
detiene il potere, cioè dei monopoli. “Il personale, i metodi e lo spirito con
cui una misura o una serie di misure sono realizzate sono molto più importanti
del contenuto della misura stessa” ha scritto Schumpeter, e non
c’è dubbio che finché il potere è nelle mani dei capitalisti, personale, metodi
e spirito giocano prevalentemente a loro favore. E tuttavia, proprio perché si
tratta di misure in una certa direzione (nazionalizzazione, pianificazioni,
ecc.) e proprio perché hanno un contenuto bivalente, esse si prestano ad essere
scambiate già oggi per misure di carattere socialista: il loro contenuto
potenziale può apparire come un contenuto attuale. E in questo senso rischiano
di disarmare il movimento operaio, che si illude di aver ottenuto delle
vittorie definitive, proprio nel momento in cui si consolida il capitalismo.
Ecco
perché è più che mai necessario che, in concomitanza con questi sviluppi
obiettivi della società capitalistica, avanzi la coscienza soggettiva delle
masse: la coscienza delle contraddizioni profonde e ineliminabili del
capitalismo, la coscienza della condanna storica del sistema e della necessità
storica del socialismo, la coscienza che, solo impadronendosi del potere, le
masse lavoratrici possono far funzionare a proprio vantaggio il meccanismo della
società e realizzare il socialismo. In altre parole è necessario sciogliere
definitivamente la contraddizione fondamentale fra il carattere sociale della
produzione e l’ordinamento privatistico dei rapporti
di produzione, sviluppando ulteriormente il primo e trasformando il secondo in
senso socialista, in un senso che sia armonico con la socializzazione del
processo produttivo. Quanto più cioè, la dinamica capitalistica avanza lungo la
via che abbiamo descritto e crea gli strumenti atti a dirigere, sotto il suo
dominio e nel suo interesse, un processo produttivo che impegna tutta la
società, tanto più urgente diventa per le masse lavoratrici, per la società nel
suo complesso strapparle di mano questi strumenti e assumere nelle proprie mani
la direzione della cosa pubblica. Lungi dall’avvicinare le posizioni e
dall’attenuare i contrasti, l’evoluzione neocapitalistica, sotto le sue
apparenze riformistiche, rende drammaticamente urgente la lotta per il potere e
quindi acuisce i contrasti.
Ma la
lotta per il potere non è una lotta che si svolga in un atto unico, non è il
fatto istantaneo di un moto rivoluzionario, di uno sciopero generale prolungato
fino alla capitolazione della borghesia, né una qualunque altra soluzione di
tipo analogo. La lotta per il potere è una lotta lunga e complessa, è un
processo graduale che si svolge in tutte le sedi, che può assumere metodi e
forme varie secondo le circostanze e che può avere successo solo se è
organizzata e diretta secondo un piano d’azione e di lotta sistematico e coerente.
Obiettivo finale è la trasformazione dello Stato: chiarire la natura dello
Stato è pertanto indispensabile ai fini del presente discorso.
Mi limito
comunque a riassumere cose di cui mi sono occupato molte volte sulla rivista
“Problemi del Socialismo”. Da un lato mi sembra
necessario smascherare l’illusione parlamentaristica,
l’illusione che il parlamento rappresenti. l’organo supremo del potere e la
perfetta espressione della sovranità popolare. In realtà né l’una né l’altra
cosa sono vere: la prima, perché l’esperienza politica c’insegna che, nella
maggior parte, dei casi il parlamento si limita a sanzionare le decisioni prese
in altra sede (di governo, di partiti di maggioranza, di burocrazia, di
interessi economici, ecc. ), e prese, naturalmente, in armonia con le forze
politiche e sociali che dominano la vita del paese; la seconda, perché è lo
stesso sistema parlamentare che falsa la volontà popolare in quanto riduce la
complessa realtà sociale a un comune denominatore politico, con il risultato di
riassorbire e praticamente annullare le spinte eversive offrendo ad esse
l’illusione del potere. In altre parole il sistema parlamentare opera nel senso
che le tensioni, le lotte, i contrasti anche i più acuti della vita sociale
tendono a trasferirsi sul terreno parlamentare, abbandonando altri strumenti di
lotta e affidandosi alla mediazione degli operatori specializzati della vita
parlamentare che sono i partiti, ma questi, proprio per poter assumere il ruolo
di operatori specializzati della vita parlamentare, devono in generale
adeguarsi alla logica del sistema che comporta la rinuncia alle posizioni di
rottura, il trasferimento su un piano di vertici delle pressioni di massa, e la
subordinazione a scelte e a decisioni che in realtà stanno al di fuori dell’effettivo
potere del parlamento. La logica del sistema è tale che finisce con il
condizionare completamente non solo i partiti ma lo stesso corpo elettorale e
ridurre quella che dovrebbe essere una rigogliosa vita democratica a una piatta
routine, e quindi praticamente a un
meccanismo di conservazione. In realtà le fonti del potere effettivo sono fuori
delle istituzioni costituzionali e la classe dominante dispone di tali e tanti
strumenti per far sentire il peso della sua volontà, che è relativamente indifferente
alle istituzioni in cui questa volontà è destinata a incarnarsi e può adattarsi
sia al sistema parlamentare che a quello del potere personale; se spesso
preferisce il primo è proprio perché il parlamentarismo ammortizza le spinte
eversive mentre il potere personale le soffoca ma può anche esasperarle.
Questo
non significa naturalmente che il parlamento non conti nulla: esso è pur sempre
se non il depositario di tutto il potere, un momento del potere, e un partito
che voglia e sappia utilizzarlo seriamente può indubbiamente ricavarne assai
utili risultati. Ma soprattutto questo significa che al di fuori e al di là del
parlamento vi sono infiniti altri strumenti di potere, altri strumenti cioè
attraverso cui è possibile far pesare, nel gioco complesso della vita politica,
la propria volontà. Ho detto che la classe dominante dispone in larga misura di
questi strumenti, ma anche i lavoratori ne dispongono e più ne disporrebbero
se, pur non rinunciando alle lotte parlamentari, si liberassero tuttavia dall’illusione
parlamentaristica, e utilizzassero le proprie forze
in tutti i gangli della vita sociale. Sono organi di potere infatti tutti
quegli strumenti attraverso cui è possibile esercitare delle pressioni e
influire sulle decisioni: tali sono quindi non solo gli organi istituzionali
(parlamento, comuni, province, ecc.) ma anche i partiti, i sindacati, le
cooperative, le commissioni interne, la stampa, tutti gli strumenti formativi
dell’opinione e via discorrendo.
Ora,
infatti, quel che si chiama il potere non pub, mai esser ridotto a una volontà
semplice, unitaria e coerente, espressione diretta di una classe o di un gruppo
omogenei che manovrano gli strumenti del potere in conformità dei propri
interessi, ma è, in ultima analisi, la risultante di uno scontro permanente di
volontà contrastanti, di un gioco infinito di azioni e di reazioni, di
pressioni e di contropressioni, che si esercitano
precisamente attraverso gli organi più vari sopra menzionati. Nella misura in
cui la classe lavoratrice ha una sua volontà da far pesare (non semplicemente
delle rivendicazioni settoriali ma una volontà politica, cioè di orientamento
generale della società), e nella misura in cui è capace di dar corpo a questa
volontà attraverso un’azione coordinata costante ed organica di tutti gli
strumenti di cui dispone, essa può esser partecipe del potere, cioè inserire la
sua volontà come una delle componenti da cui risulteranno in ultima analisi le
decisioni del “potere”. Certo la classe dominante dispone di una forza maggiore
e il suo peso sulla decisione definitiva sarà quindi maggiore, ma è anche vero
che la classe lavoratrice non ha saputo in questo dopoguerra esprimere una sua
organica volontà politica che si ponesse come una volontà globale e alternativa
a quella della classe dominante, e soprattutto non ha fatto che uno scarso
ricorso all’uso dei “contropoteri” di cui essa dispone e di cui potrebbe in
misura maggiore disporre se svolgesse una coerente politica di alternativa.
Naturalmente
è difficile pensare che la classe lavoratrice possa in questo modo trasformare
radicalmente la situazione e spingere il governo a decisioni che siano in
assoluto contrasto con le esigenze di vita del sistema capitalistico. Questo
sarà possibile soltanto se la classe lavoratrice riuscirà ad impadronirsi del
potere, ma la lotta per impadronirsi del potere presuppone precisamente la
partecipazione piena e quotidiana alla lotta politica in tutte le sedi e in
tutte le forme. La presuppone per tre ordini di motivi: in primo luogo perché
attraverso questa lotta quotidiana è possibile modificare gradualmente i
rapporti di forza, trasformare o creare istituti nuovi e strumenti nuovi di
azione, incidere parzialmente sulla struttura della società, preparare spinte
successive e soprattutto prepararsi per battaglie sempre più impegnative: in
secondo luogo perché è attraverso queste lotte, attraverso il perseguimento di
determinati obiettivi, attorno a un programma di trasformazione delle
strutture, che è possibile trovare punti di incontro con altri ceti e con altre
forze e stringere quelle alleanze senza le quali la vittoria finale della
classe operaia sarebbe sempre più problematica; in terzo luogo, per usare le
parole di Rosa Luxemburg, perché “nella lotta per la democrazia, nell’esercizio
dei suoi diritti, il proletariato può arrivare alla coscienza dei suoi
interessi di classe e dei suoi compiti storici”.
4.
Coscienza di classe e programma di transizione.
Il problema della formazione della
coscienza di classe, della coscienza rivoluzionaria, appare di nuovo come il
problema centrale. Questa coscienza non è il risultato meccanico delle
contraddizioni interne della società e non è neanche una semplice acquisizione
intellettualistica che possa esser frutto di un’opera di propaganda e di
illuminazione. La coscienza si acquista nell’esperienza, nell’azione, nella
lotta: solo cimentandosi nella battaglia quotidiana per modificare la società,
il proletariato si fa cosciente della reale natura delle forze in contrasto,
della profondità delle contraddizioni e della via per superarle; solo cozzando
ogni giorno contro gli angusti limiti di lasse dell’ordine sociale, il
proletariato è spinto a cercare le soluzioni al di là di questi limiti; solo
riaffermando ogni giorno l’esigenza di tradurre il carattere sociale della
produzione in rapporti produttivi ispirati alle stesse esigenze sociali il
proletariato mette in risalto la contraddizione fondamentale della società
capitalistica; solo verificando ogni giorno la reale democraticità del sistema
attraverso la rivendicazione e l’esercizio dei suoi diritti il proletariato
scopre la fallacia della democrazia borghese e si apre all’esigenza di una
democrazia sostanziale cioè socialista. È su questo terreno che “l’alternativa
democratica” diventa “alternativa socialista”.
In altre
parole, proprio perché la società capitalistica di oggi riesce, meglio che per
il passato, a velare le sue contraddizioni e a mistificare la coscienza,
diventa più che mai necessario utilizzare tutte le possibilità, tutte le
occasioni, tutte le frizioni per impegnare battaglia e, attraverso
l’esperienza, risalire dal particolare al generale, dall’urto occasionale alle
contraddizioni di fondo. Marx aspettava lo scoppio della rivoluzione da una
crisi, cioè dalla manifestazione brutale e violenta della contraddizione
capitalistica, una contraddizione suscettibile di far presa immediata
sull’animo delle masse; ora che gli effetti delle crisi sono piuttosto diluiti
nel tempo, attraverso lo spreco istituzionalizzato, è soprattutto un’azione
politica intelligente che può condurre il proletariato a rendersi cosciente
delle contraddizioni meno visibili e a trarne la stessa spinta rivoluzionaria.
Più che mai in questo momento, e salvo naturalmente l’ipotesi di grosse
catastrofi politiche che per ora sono al di fuori delle nostre previsioni, è
necessario pensare alla rivoluzione non come alla frattura verticale e allo
scontro decisivo ma come a un lungo periodo di lotte, come a una conquista
progressiva del potere che naturalmente dovrà culminare in una fase decisiva di
rovesciamento dei rapporti di potere ma che arriverà al culmine solo dopo una
lunga scalata.
Questa
scalata, come la scalata di una parete rocciosa, deve utilizzare tutti i punti
di appoggio, tutti gli appigli, tutte le discontinuità che offre, il terreno
avversario. Se è vero che la società capitalistica riesce a trovare nuove
soluzioni alle sue difficoltà, nuove risposte ai suoi problemi, è vero che ciò
avviene attraverso urti, sbalzi, squilibri, trasformazioni che implicano ogni
volta costi sociali gravi a carico delle masse: sono appunto gli squilibri, le
disuguaglianze, i costi sociali che mettono in particolare risalto la
contraddizione fondamentale del capitalismo e che offrono quindi altrettanti
punti d’appoggio non per una battaglia occasionale ma per un’azione in
profondità che miri al cuore della società capitalistica, alla contraddizione
fondamentale, inserendosi in un disegno organico di trasformazione dei rapporti
sociali e di potere.
Ritorno
così a battere sullo stesso chiodo: un disegno organico di trasformazione dei
rapporti sociali e di potere è nient’altro che il programma di transizione di
cui si è molte volte discorso, il programma del passaggio graduale al
socialismo, del passaggio cioè dalle infinite contraddizioni di oggi, che sono
peraltro tutte altrettante facce della stessa contraddizione fondamentale, alla
soluzione organica di domani. Dire soluzione
organica significa rifiutare le soluzioni facili, puramente demagogiche e elettoralistiche, che implicano talvolta la difesa di
posizioni superate, l’incoraggiamento al semplice malcontento, e rischiano di
essere in ultima analisi posizioni conservatrici, proficue magari come
apportatrici di voti ma infeconde, più della stessa verginità, come matrici di
socialismo. Il programma di transizione dev’essere un programma che non ha
paura di confrontarsi con le più moderne soluzioni capitalistiche, che non
rifiuta quel tanto di progresso che può essere in esse contenuto, ma anzi
impone un acceleramento del ritmo, dev’essere un programma che, appunto perché
prepara il passaggio al socialismo, deve offrire soluzioni che si muovano su
alcune direttrici essenziali: massimo acceleramento del progresso tecnico,
accentuazione del momento sociale nello sviluppo del processo produttivo
(quindi nazionalizzazioni, pianificazione, ecc.) e, viceversa, lotta contro il
momento-privato nell’appropriazione del prodotto sociale (quindi per modificare
l’attuale processo di accumulazione) e contro l’appropriazione privata del
potere (quindi per estendere ovunque una democrazia reale, dalla vita di base
delle aziende e dei comuni, alla vita statale), infine uno sforzo intensificato
per dare alla classe lavoratrice coscienza della sua autonomia e della sua
funzione egemonica nell’attuale fase del processo storico. Solo coordinate
attorno a questi motivi centrali le singole posizioni di battaglia, di cui la
società capitalistica offre infinite occasioni, assumono un contenuto
socialista, diventano un momento del processo rivoluzionario. L’esito di queste
battaglie potrà essere di volta in volta positivo o negativo, segnare dei passi
avanti, delle soste, o magari dei passi indietro nei risultati obiettivi, ma,
se condotto su queste basi, svilupperà sicuramente il momento soggettivo,
aiuterà la formazione di una coscienza rivoluzionaria, darà a masse sempre più
vaste la capacità di legare tutti i momenti particolari della loro lotta alla
visione generale di una trasformazione socialista della società, preparerà, in
una parola, quel che è sempre mancato al movimento operaio occidentale anche
nelle grandi svolte storiche, in particolare nel primo e nel secondo
dopoguerra, la coscienza della maturità della presa del potere e della
rivoluzione socialista.
Per
concludere voglio riassumere brevemente il senso di questo discorso in poche
proposizioni. Marx vedeva il processo rivoluzionario come una coincidenza fra
situazione oggettiva (contraddizioni della società capitalistica) e la volontà
soggettiva (coscienza di classe); di questa volontà soggettiva Rosa Luxemburg
sottolineò con particolare vigore l’elemento necessario della partecipazione
attiva delle masse e Lenin quello della direzione cosciente del partito, della
dottrina rivoluzionaria. La situazione oggettiva, per le ragioni che ho
esposto, ha oggi in sé possibilità rivoluzionarie; del momento soggettivo non è
la partecipazione attiva delle masse la faccia che fa maggiormente difetto.
Quel che fa maggiormente difetto è la faccia della direzione politica, la
presenza di un partito rivoluzionario che dalle contraddizioni reali e dalla
capacità di lotta di massa tragga la spinta decisiva verso il socialismo.