MAGISTRATURA E REPRESSIONE
Il dissenso
alla sbarra
dibattito
con Lelio Basso Mauro Mellini e Giovanni Placco
Dissenso
politico, lotte operaie, magistratura, repressione. Il quadro di cronaca
circoscrive e insieme accentua drammaticamente il problema. C’è innanzitutto il
caso di Francesco Tolin, il direttore del settimanale “Potere operaio”
condannato a 17 mesi di reclusione senza condizionale. Questo intervento
repressivo è di una gravità eccezionale: dalla caduta del fascismo, non si era
mai verificato che un cittadino fosse incarcerato per reati d’opinione. La
repressione si era fermata finora sulla soglia dei due diritti capitali sanciti
dalla Costituzione, libertà di opinione e libertà di stampa: un binario sul
quale si sviluppa la dialettica democratica del paese, la lotta politica, anche
quella - non dimentichiamolo - delle tendenze rivoluzionarie. In questa
piattaforma costituzionale non si può per nessuna ragione inserire un cuneo di
norme fasciste, un intervento giudiziario dettato da un disegno politico di
tipo repressivo! Con l’arresto e la condanna di Tolin si è superato un limite,
si sono spezzate delle regole di gioco democratiche. Possono bastare le
proteste? È necessario ormai affrontare fino in fondo il problema della
funzione, dei poteri e dei doveri della magistratura. La cronaca, dicevamo,
definisce il problema. Il punto di partenza dev’essere questa grande paura
dell’“ottobre italiano”. Le ultime settimane hanno registrato interventi
repressivi assai gravi: oltre al caso Tolin, denunzie e arresti di
sindacalisti, operai e studenti in tutta Italia; la denunzia del direttore di
“Lotta continua”; la condanna dell’“Ora” di Palermo; e infine un episodio che
risale alla primavera scorsa e che può avere sviluppi pericolosissimi: il
sequestro del ciclostile del gruppo di Potere operaio di Pisa su ordine della
procura.
Qual è
l’elemento di novità? Per anni la magistratura ha colpito gli operai in lotta,
attraverso una interpretazione restrittiva del diritto di sciopero e la
riduzione delle manifestazioni di lotta negli schemi dei reati comuni. È questa
la costante classista che domina ancora gran parte della magistratura. Poi è
venuto il ‘68, l’esplosione del dissenso studentesco ed extraparlamentare, e la
repressione si è fatta più puntuale colpendo decine e decine di studenti
impegnati in dimostrazioni di piazza e nella lotta diretta nelle università.
Oggi, questi due indirizzi repressivi si ritrovano potenziati, resi ancora più
espliciti: si colpiscono gli operai impegnati nelle lotte più dure e i gruppi
minoritari di sinistra. Paura del nuovo? Certo, ma non solo questo: il
bersaglio principale sono le forme nuove, radicali, assunte dalle lotte
operaie, che si tenta di identificare con le “provocazioni estremistiche” e di
staccare dalla responsabilità di partiti e sindacati. Altro elemento di novità
è l’estendersi del raggio dell’intervento repressivo, che colpisce adesso tutto
l’arco di espressione del dissenso, tutti i suoi strumenti e le potenzialità:
dalla manifestazione di piazza al giornale, al volantino, al ciclostilato. È
dunque chiaro che la magistratura ha definitivamente superato il mitico
steccato dell’attività tecnica e neutrale o imparziale per assumere un ruolo
direttamente politico. Su questo argomento abbiamo chiamato a discutere tre personalità
chiaramente qualificate: un politico, l’onorevole Lelio Basso; un avvocato,
Mauro Mellini; un magistrato, Giovanni Placco. Per
l’Astrolabio hanno coordinato la discussione Mario Signorino e Giancesare Flesca.
L’ASTROLABIO - C’è una domanda che le iniziative
giudiziarie di questi giorni stimolano per prima: qual è il senso politico,
quali gli obiettivi reali di queste iniziative repressive? Perché si colpisce
di preferenza la manifestazione del dissenso politico?
MELLINI - Mi sembra che la repressione - non solo in
sede giudiziaria, ma in tutte le sedi - sia oggi indirizzata contro le novità
dei fatti politici, più che contro la loro rilevanza o la loro reale
pericolosità; o forse, la pericolosità più grave che si riscontra nei movimenti
politici è rappresentata dal fatto stesso della novità, in quanto turbativa di
un certo equilibrio che si è creato nel sistema politico. La “paura del
ciclostile” si estende, diventa sempre più diffusa; è chiaro però che non si
tratta di cosa nuova. Tutto ciò che ha un carattere diverso rispetto alle
formule canoniche, ha sempre richiamato l’attenzione del poliziotto, del
giudice. È chiaro che oggi, di fronte all’estendersi in dimensioni massicce dei
fenomeni nuovi, c’è lo scatenamento dell’autorità dello Stato in funzione
repressiva.
ASTROLABIO - Come mai di fronte a forme nuove di
lotta, lo Stato risponde con gli strumenti tradizionali? Sarebbe possibile
invece una risposta flessibile?
MELLINI - La capacità di assorbimento del
regime, è già impegnata abbastanza dalle forme tradizionali di opposizione. Il
regime si impegna al massimo in un’opera di mediazione, di captazione: quando
questa mediazione non viene accettata, quando appunto ci si trova in presenza
di forme nuove di lotta, si determina una situazione - anche psicologica, al
limite - di squilibrio; e perciò si reprime in maniera diretta, brutale.
PLACCO - Il
fatto che si ricorra, di fronte alle “novità” sociali e politiche, agli
strumenti repressivi tradizionali trova una risposta logica, diciamo pure
interna al sistema. Ma occorre fare una premessa: risaliamo un momento alla
Resistenza, alla Costituzione, cerchiamo di capire cosa hanno rappresentato per
la nostra società. La lotta di liberazione nazionale ha trovato momenti di
grande unità, che hanno portato le forze politiche più diverse a unirsi nella
lotta per la costruzione di una nuova società. Il che richiedeva che si
rompesse l’identificazione dello stato con le strutture dell’epoca, politiche,
economiche, sociali. Ciò imponeva a sua volta, un’ampia possibilità di
circolazione delle idee. A questo punto sono nati i contrasti. Di fronte al
problema di costruire una nuova società, che richiede appunto una libera e
ampia circolazione delle idee, le forze tradizionali - che accettano anche gli
sviluppi nuovi, ma senza rotture col passato, senza soluzione di continuità -
si sono chiuse in difesa, ponendo a disposizione della circolazione delle idee
- non per assecondarle ma per eluderle - i canali tradizionali. Perché sono
facilmente controllabili (al limite una catena di giornali può essere
concentrata, attraverso la conquista dei pacchetti azionari, in una sola
persona o in un gruppo che gli impone un certo orientamento). Quando poi la
circolazione delle idee arriva - come in quest’ultimo periodo - a compromettere
l’equilibrio del meccanismo politico, questo reagisce e pretende, ovviamente,
di inglobare, controllare questa circolazione delle idee.
C’è una
seconda osservazione da fare: un errore che ha spesso coinvolto anche la
sinistra italiana è quello di ritenere che il momento burocratico e giudiziario
dell’attività dello Stato (cioè il momento dell’applicazione delle scelte già
operate in sede politico-legislativa) sia un momento neutrale rispetto a queste
scelte. Così non si è riusciti spesso a cogliere i nessi esistenti fra
l’applicazione tecnica (cosiddetta neutrale) della legge e le scelte politiche
di fondo. E invece esiste una omogeneità logica, necessaria, fra il momento
politico delle scelte e il momento tecnico dell’applicazione: sarebbe cieco
infatti un sistema che affidasse a strutture non omogenee con il proprio
orientamento di fondo il momento - importantissimo - dell’applicazione tecnica.
Ecco come si spiega un certo atteggiamento delle forze di polizia e delle
strutture giudiziarie in difesa di questo ordine pubblico: si tratta di
strutture permeate dalla scelta di fondo che sta dietro il concetto di ordine
pubblico.
Ne vien fuori che, di fronte alla circolazione delle idee del
ciclostile, alla circolazione delle idee attraverso iniziative giornalistiche
che fuoriescono dai canali tradizionali, si ha un atteggiamento di chiusura di
tutto l’apparato statuale, a tutti i livelli, nonché il tentativo i
criminalizzare, in quanto contrastanti con certe scelte di fondo, le idee nuove
che una libera circolazione dovrebbe, viceversa, rendere perfettamente
legittime.
Al limite direi che
l’atteggiamento di chiusura non riguarda soltanto le strutture burocratiche
dello Stato, ma tutta l’articolazione della vita italiana, ivi compresi i
partiti, ivi comprese le associazioni culturali. E forse il merito di aver
rotto con uno schema tradizionale risale al movimento studentesco che ha, per
la prima volta, posto in crisi una certa situazione all’interno della scuola.
Dalla scuola si è passati poi alla fabbrica, allo Stato; ed è qui che scatta il
meccanismo politico tradizionale che coinvolge oggettivamente (o meglio
inconsapevolmente) anche la sinistra.
BASSO
- In realtà, in ogni regime è presente una duplice esigenza, una duplice
volontà: da un lato integrare le forze del dissenso, dall’altro reprimerle.
Sono due momenti contemporanei; dipende poi dalle situazioni particolari se si
tende a restringere l’area dell’integrazione e ad estendere quella della
repressione e viceversa. Rispetto al fascismo (in cui pure era presente la
volontà di riassorbimento del dissenso) il regime attuale ha maggiori
possibilità d’integrazione, soprattutto sotto due aspetti: quello dello
sviluppo economico, e quello del sistema democratico o, più esattamente,
parlamentare che presenta una grande capacità integratrice. È chiaro che la
macchina repressiva si scatena di fronte a fenomeni che superano gli schemi
abituali. Sono d’accordo con Placco. Il movimento studentesco ha avuto una
grossa funzione di rottura. Il meccanismo dell’integrazione era riuscito, col
centrosinistra, a riassorbire il partito socialista; con la “strategia
dell’attenzione” di Moro apriva un dialogo con il PCI; all’improvviso salta
fuori un fenomeno non previsto, e provoca la repressione. Non ci sono novità
assolute in questo campo; anzi si incontrano nella magistratura - perché di
essa parliamo - una serie di precedenti che la predispongono in modo eminente
alla funzione repressiva.
Vorrei
appunto fermarmi su questo aspetto, cioè su quelle caratteristiche della
magistratura che ci lasciano estremamente perplessi e preoccupati. In primo
luogo, la formazione culturale e l’estrazione di classe. Certo la magistratura,
come la polizia, come l’esercito, non costituisce un corpo omogeneo; anzi in
essa è particolarmente vivo un travaglio, uno scontro di tendenze diverse ed
anche alternative. È vero però che la provenienza sociale e la formazione
culturale rendono gran parte dei magistrati incapaci d’intendere gli aspetti
progressivi della società, soprattutto sul piano dei rapporti di lavoro. Il
recente libro di Neppi Modona
(Sciopero, potere politico e Magistratura - Bari Laterza, pp. 500)
dimostra per esempio che, in tema di sciopero, la magistratura è stata sempre
chiusa in modo pauroso. Ma il capolavoro, dal punto di vista repressivo, della
magistratura resta un altro: l’interpretazione data dell’art. 40 della
Costituzione, che ne ha rovesciato la lettera e la sostanza. Ricordo bene - ho
partecipato ai lavori della commissione della Costituente che elaborò
l’articolo - che la preoccupazione unanime dei costituenti fu allora di
garantire in modo assoluto il diritto di sciopero, abrogando le norme del
codice penale fascista; e di lasciare viceversa in piedi le norme punitive
della serrata. Per questo nell’art. 40 si è dichiarato che lo sciopero è un
diritto, e non si è detto nulla della serrata. Invece la magistratura è stata
capace di dichiarare che le norme punitive della serrata erano “ovviamente”
abolite, mentre il diritto di sciopero non poteva essere ammesso in tutta una
serie di casi (l’argomentazione più assurda: che l’art. 40 si applichi allo
sciopero economico e non a quello politico). In passato ho sostenuto molti
processi politici, ed ho sempre avuto terribili difficoltà di trovare un
linguaggio comune col magistrato su questo terreno.
Un secondo aspetto negativo è la solidarietà naturale
tra magistratura e polizia, come tra tutti i poteri dello Stato, ognuno dei
quali si identifica con la totalità della grande macchina pubblica. Questa
solidarietà porta a una sanatoria di fatto degli arbitrii che, ad esempio, la
polizia può commettere nell’esercizio delle sue funzioni. Si possono
denunziare, senza essere incriminati, le violenze contro gli arrestati? Si
puniranno mai i poliziotti che hanno sparato su manifestanti, uccidendoli?
L’ASTROLABIO - Già. È mai possibile che a distanza
di mesi, di anni, non si riescano a individuare gli agenti che hanno sparato ad
Avola, che non si riesca a sbloccare l’istruttoria
per il ferimento, davanti alla Bussola di Viareggio, del giovane Soriano Ceccanti?
BASSO - Un altro problema è la refrattarietà a
quanto di nuovo avviene nella società, soprattutto oggi che si registra un
ritmo di sviluppo estremamente rapido. Ebbene di fronte all’eccezionale
dinamismo sociale si verifica una abnorme persistenza di regimi gerontocratici a tutti i livelli, salvo forse che
nell’industria. Le strutture gerontocratiche si
ergono così a baluardi contro il nuovo, formano una mentalità “ufficiale” tanto
rigida quanto diffusa. Alla Camera, in occasione della discussione sui fatti di
Milano che portarono alla morte di un agente, sostenni la versione dei fatti
che risulta da tutti i resoconti obiettivi, anche di una parte della stampa
moderata: che cioè gli scontri erano stati causati dalla presenza e
dall’intervento ingiustificati della polizia in una manifestazione pacifica.
Ebbene, su questo punto, sono stato urlato dalla maggioranza governativa in
modo impressionante. Perché, per la mentalità antiquata diffusa nella nostra
classe politica, in cui permangono residui borbonici e fascisti, una
manifestazione come uno sciopero sono sempre in fin dei conti un turbamento
dell’ordine pubblico, del ritmo normale della vita, e come tali vanno repressi.
Ancora non si accetta l’idea che manifestare è un diritto che dev’essere tutelato,
non represso. La sola presenza della polizia nelle manifestazioni è perciò una
provocazione, in quanto espressione di una minaccia limitatrice di libertà. Ci
si dovrebbe infine decidere a mettere in discussione questa famosa indipendenza
della magistratura, che ha i suoi pregi ma che rivela anche dei lati
preoccupanti. Soprattutto per la coscienza corporativa che ne deriva, per una
convinzione di autonomia assoluta, e anche d’impunità e quindi di
irresponsabilità. Può succedere che il magistrato agisca in maniera
estremamente grave, come nel caso Riva, e che la situazione venga poi sanata
dal Consiglio Superiore. Può accadere che un PM, protetto da questa
irresponsabilità, spicchi ordini di cattura assolutamente cervellotici contro
persone innocenti che saranno poi assolte, ma che intanto avranno scontato mesi
di galera.
PLACCO - Raccolgo volentieri la “provocazione” di
Lelio Basso. E vorrei dire che realmente alcuni aspetti dell’indipendenza si
prestano ad aprire l’animo del magistrato ad una sorta di fuga dalla
responsabilità morale, (dato che non c’é responsabilità giuridica). Se il
giudice non fosse indipendente, potendo essere chiamato a rispondere delle sue
decisioni, dovrebbe necessariamente essere consapevole delle scelte che opera e
gli sarebbe quindi impossibile una fuga psicologica di responsabilità.
Indubbiamente ogni magistratura indipendente comporta questo rischio. Ma il
rimedio non può essere la liquidazione dell’indipendenza, anche perché, oltre
tutto, si tratta di un’indipendenza relativa. Occorre riflettere su questo
punto; se esiste un certo controllo sul magistrato si tratta proprio di un
controllo che non dovrebbe esserci, mentre manca un altro tipo di controllo che
sarebbe invece opportuno avere. Il controllo politico, in senso ampio,
dell’attività del magistrato non può non svolgersi a livello di opinione
pubblica, nell’ambito di quelle norme che riguardano la tutela formale di
questa attività. Ma vi è poi il rapporto interno tra il singolo magistrato e le
strutture giudiziarie. E in questi giorni abbiamo assistito a una serie di
iniziative nel Lazio, a Roma, a Milano, a Torino, a Vibo
Valentia e altrove, che nel loro insieme hanno un significato preciso.
Significano cioè che quella chiusura alla circolazione delle idee, che notiamo
a livello dello Stato, esiste anche all’interno della magistratura, e si
realizza attraverso l’erezione di steccati che servono a distinguere l’impegno
del magistrato nella società - e non uso la parola “politica” per evitare
equivoci - e la cosiddetta attività lecita del magistrato, disciplinarmente
irrilevante; sicché si fa coincidere la linea di demarcazione tra quello che il
magistrato può e quello che non può fare proprio con l’impegno e l’apertura
verso la società: vale a dire, si fa coincidere la discriminante tra i due
settori nella deontologia disciplinare. Non è un caso che gli interventi cui
accennavo prima riguardino per il 90 per cento magistrati aderenti a
“Magistratura democratica” (che è la più avanzata corrente dell’Associazione
Nazionale Magistrati.
BASSO - È veramente straordinario: un mio parente
era consigliere di Cassazione a Roma negli ultimi tempi del fascismo. In tutti
quegli anni una sola volta D’Amelio lo chiamò per dirgli: “in questa causa il
duce vorrebbe una sentenza di questo genere...”. Lui fece una sentenza
esattamente opposta ma non ebbe grane. Voglio dire che sotto il fascismo le
pressioni politiche sulla magistratura erano molto più deboli di quanto non
siano adesso.
PLACCO - È esatto, ed è noto d’altronde che
l’istituzione del Tribunale speciale si deve al fatto che la magistratura
ordinaria non marciava col fascismo. Ma torniamo alla questione
dell’indipendenza relativa della magistratura. Il discorso si collega al
problema dell’organizzazione del pubblico ministero, altro argomento di estrema
importanza. Molte volte, sotto il pretesto della necessità di un “responsabile
politico” che affiori almeno una volta nel corso dell’attività giudiziaria, ho
sentito avanzare la proposta di porre il PM alle dipendenze del potere esecutivo:
con il che, sotto il pretesto di soddisfare quelle esigenze di controllo che
sono unanimemente avvertite, si finisce col creare una situazione ancora
peggiore. Quando il PM sarà direttamente collegato col ministro e avrà
rafforzato la sua organizzazione gerarchica, gli ordini partiranno dall’alto in
diretto collegamento con il potere esecutivo.
BASSO - Ma Lei, in quanto giudice, cosa pensa della
proposta che è stata avanzata, di fare del PM un organo del potere esecutivo,
togliendogli così la facoltà di emanare ordini privativi o limitativi della
libertà personale?
PLACCO - L’osservazione che mi sembra
preliminare è questa: perché si ritiene tanto importante un organo che non
decide ma provoca semplicemente la decisione? Se davvero il momento
della decisione è quello centrale, bisognerebbe avere un atteggiamento di
minore drammaticità nei confronti dell’organo propulsore, perché, almeno in
teoria, è un organo che si limita a proporre. In realtà, invece, è un organo
che decide. E questo spiega perché ogni potere dello stato tenda a “catturare”
il PM: il Pubblico ministero, titolare esclusivo dell’azione penale, muove le
imputazioni, è lui che condiziona la materia nella quale entrerà la pronuncia
del giudice. E allora io sostengo che si può anche sganciare il PM dall’ordine giudiziario, ma a condizione di sapere che
questo potere di scelta nascosto - e quindi mistificatorio - lo si mette nelle
mani di qualcuno. L’unica soluzione è che si estendano le garanzie di libertà del
giudizio anche a questo momento che, in qualche modo, lo determina. In secondo
luogo occorre sottrarre al PM il monopolio dell’azione penale. Il che chiama in
causa la questione della libertà personale. Perché non siamo in presenza di un
problema di ordinamento giudiziario, ma di ordinamento processuale: a chiunque
il PM appartenga, bisogna sottrargli i poteri decisori diretti sulla libertà
personale e su tutta una serie di altre materie. Si tratta in altri termini di
trasformare il PM, nel processo accusatorio
in una parte che chiede. C’è un altro aspetto: attualmente il
singolo magistrato del pubblico ministero non ha un’area di intervento
sicuramente sua, perché tutto gli può essere affidato e tutto gli può essere tolto.
Il che determina il cosiddetto favoritismo omissivo: assistiamo a un’infinità
di casi in cui dai soli giornali, e quindi dai soli canali ufficiali, ci sarebbero elementi per iniziare
l’azione penale: ma se non è il procuratore della repubblica in persona che
prende l’iniziativa, 54 sostituti sono immobilizzati, nessuno può iniziare
l’azione. Sarà possibile prendere iniziative solo quando si scioglierà il nodo
dell’unità e indivisibilità del PM, attribuendo a ciascuno la facoltà di
intraprendere l’azione penale. Veniamo infine a un ultimo argomento che, al
vertice, si collega al problema del PM: quello degli uffici direttivi, in
quanto sia l’organizzazione del PM sia gli uffici direttivi chiamano
direttamente in causa un aspetto della persistente ingerenza del ministero di
grazia e giustizia negli uffici giudiziari. Il Consiglio superiore della
Magistratura (che è quello che è, non voglio addentrarmi in una analisi di
quest’organo) non può operare una scelta come crede, ma deve farlo di concerto
col ministro. Ora il problema è di rompere questa ingerenza dell’esecutivo nel
concerto e, naturalmente, di creare quelle condizioni di sensibilizzazione
nella Corte Costituzionale in modo che non sfugga all’esame di merito di questo
problema. Vorrei terminare ricordando come in questi giorni il Consiglio
superiore ha preso in considerazione - sia pure per escludere che si siano mai
verificati - i casi di trasferimenti “punitivi” tra una sezione e l’altra, dal
penale al civile. E allora ci si rende conto di quanto scarsa sia
l’indipendenza reale, di quali sono i pericoli che si nascondono dietro
l’esigenza del controllo.
BASSO - Sono perfettamente d’accordo con Placco: in
Italia abbiamo i danni della non indipendenza e, insieme, quelli
dell’indipendenza relativa.
ASTROLABIO - In sostanza, si assiste a una
progressiva riduzione d’importanza del momento decisionale del giudizio, sia
perché è fortemente condizionato dall’iniziativa del PM, sia a causa dello
stato di crisi e d’inefficienza della giustizia che riduce il peso punitivo
della sentenza. Di contro è aumentato l’ambito dell’iniziativa discrezionale e
anche discriminatoria. Che ne pensa l’avvocato Mellini?
MELLINI - In realtà la funzione repressiva (diciamo pure la
funzione punitiva) si trasferisce sempre più dal momento della sentenza, cioè
dell’applicazione della legge, alla competenza dei giudici istruttori, dei
pubblici ministeri, attraverso strumenti processuali (come il mandato di
cattura) che assicurano di fatto solo la punizione dell’imputato. Con i
processi che vanno per le lunghe, le amnistie, le prescrizioni, la dispersione
delle prove etc. ci siamo abituati a vedere assicurata
la punizione di ladri, lenoni, malversatori con il loro arresto preventivo
piuttosto che con la esecuzione della condanna. Con quale danno per le garanzie
effettive dell’imputato, è facile immaginare. Questo sistema ingigantisce
inoltre nella magistratura la coscienza di un proprio intervento non astratto e
tecnico ma eminentemente politico, frustrando anche quel tanto di garanzia che
risiede nel tecnicismo della scelta. Oggi in sostanza gli operai, gli studenti,
vanno in galera non tanto perché si applica tecnicisticamente
il codice Rocco, ma semplicemente perché viene o non viene esercitato un potere
discrezionale. E a questo punto il fenomeno si inquadra in un altro, più
generale. Molto spesso abbiamo parlato di crisi della giustizia come crisi
dell’efficienza e molto spesso si è contrapposta questa crisi di carattere efficientistico a una crisi politica. Questa distinzione è
artificiosa, perché l’inefficienza del meccanismo giudiziario è un particolare
modo d’essere della giustizia italiana, in cui si ritrovano scelte politiche di
fondo.
Ma c’è un fatto
ancora più significativo. Se oggi abbiamo, ancora in piedi il codice Rocco, se
regge lo scandalo di certe norme dalla potenzialità repressiva enorme, di chi
la colpa? Del parlamento, si dice, della classe politica che ha chiuso un
occhio. Ma se la classe politica è rimasta ferma, lo ha fatto anche perché
sapeva di poter contare su una moratoria, rappresentata dall’inefficienza della
giustizia: le norme fasciste stanno in piedi perché siamo abituati anche a non
vederle funzionare. Ciò significa che l’inefficienza ha come postulato una
certa selezione; la procura della repubblica, dovendo limitare il volume
dell’attività giudiziaria, deve pur scegliere, e allora emerge quel sottofondo
culturale che porta a scegliere il reato d’oltraggio invece che, quello di
peculato.
Ma questa
situazione è soltanto un dato di fatto contingente, una delle tante cose che
non vanno (per incuria, per incapacità tecnica) o è piuttosto una scelta
politica? Secondo me l’inefficienza della giustizia ha permesso alla classe
dominante di tenere in piedi tutta una serie di strumenti potenzialmente
repressivi. Quando Basso ci dice: “II magistrato durante il fascismo subiva
pressioni minori”, a me sembra un fatto normale. Il magistrato applicava il
codice Rocco così com’era e tutto funzionava. Oggi il codice Rocco non è più
sufficiente a coprire tutto, perché la situazione si è profondamente
modificata; e perciò, grazie all’inefficienza, la difesa “elastica” della
classe politica riesce a salvare e il codice Rocco e la possibilità di
avvalersene al momento opportuno.
Mi sembra perciò che, quando
nel gennaio di quest’anno sostenevamo che l’inefficienza è la giustizia di
classe, coglievamo un problema che oggi ci vediamo esplodere fra le mani.
ASTROLABIO - È dunque esatto considerare la
magistratura alla stregua di istituzioni omogenee nella loro funzione
essenzialmente repressiva, come la polizia e l’esercito? Oppure la magistratura
si presta a un discorso più complesso, perché nella sua logica interna esiste
anche - latente - una potenzialità di segno opposto?
BASSO - Sono d’accordo; anzi ci sono state di
recente delle cose molto interessanti in questo senso. Succede raramente, ma
talvolta succede che sia proprio la magistratura - specie i magistrati giovani
- ad aprire qualche strada nuova.
PLACCO - Esempi se ne possono citare
parecchi; ma, in sostanza, la differenza è questa: nell’esercito, nella
polizia, abbiamo il massimo di espansione di principi gerarchici, per cui il
singolo non fa che obbedire a una logica che viene dall’alto, nella
magistratura il giudice è soggetto soltanto alla legge. Certo, esistono una
serie di condizionamenti, anche molto gravi, a monte del giudizio, ma nel
momento dell’esercizio del potere di giudicare il giudice non risponde che a se
stesso.
L’ASTROLABIO - A questo punto occorrerebbe forse
discutere le forme concrete in cui si traduce oggi un certo formalismo
liberal-democratico basato sulla divisione dei poteri, sull’autonomia e la
cosiddetta neutralità delle strutture burocratiche e giudiziarie dello stato.
Sarebbe interessante notare in quale misura le trasformazioni sociali e, per
tenerci alla cronaca di questi anni, il risveglio duro della lotta di classe e
della contestazione hanno accelerato un processo di “scopertura” della realtà
di certi miti liberali, di certe finzioni formalistiche che si tenta di
sostituire alla democrazia reale. Ma sono problemi che richiederebbero almeno
un altro dibattito. Chiudiamo intanto questo, che ci sembra abbia acquisito
almeno un merito: quello di aver riproposto con molta chiarezza il senso
politico unitario di episodi formalmente disaggregati e casuali, e quindi il
superamento definitivo di ogni considerazione falsamente tecnicistica
e apolitica di problemi di fondo qual è appunto quello della giustizia, oggi,
in Italia. Più in particolare, tornando agli episodi che costituiscono
l’occasione di questo dibattito, non vorremmo che fossero soltanto i prodromi
di un’azione repressiva su scala più vasta, e che si arrivasse per esempio,
come già si chiede da qualche parte, a proposte legislative volte a decapitare
i movimenti gauchistes, a metterli fuori legge. Su
questo punto è necessario che tutta la sinistra dia tempestivamente una
risposta.