Le ragioni di una scelta
“La morale per me è questa: che abbiamo enormemente da fare e prima di tutto enormemente da
studiare” (Rosa Luxemburg - Lettera a
Kautsky, 1904).
Dopo due serie durate ciascuna sei anni (1958-1963
e 1965-1970) con un anno d’interruzione, questo numero apre la terza serie di
PDS. Come la prima si era chiusa con la mia uscita dal PSI, la seconda doveva
necessariamente chiudersi con la cessazione definitiva dei miei rapporti
organizzativi con il PSIUP,
e con la mia collocazione ormai al di fuori di ogni partito politico e di
ogni altro gruppo organizzato.
Spiegare le ragioni di questa mia decisione significa al tempo stesso dar
conto di quello che mi propongo di tentare con questa terza serie della
rivista, che nasce più o meno in concomitanza con una serie di altre iniziative
politico-culturali, come l’inizio dell’attività dell’Istituto per lo studio
della società contemporanea fondato ufficialmente nel novembre 1969 ma che solo
ora comincia a muovere i primi passi, la creazione di una Fondazione per lo
studio della storia della democrazia e del movimento operaio che spero di
portare a termine - almeno per quanto riguarda le necessarie pratiche
burocratiche - entro quest’anno, e con la direzione di una collana editoriale
sulla storia del pensiero rivoluzionario: iniziative tutte connesse e volte ad
uno scopo univoco, quello di offrire qualche strumento per un rafforzamento
politico-culturale del movimento operaio soprattutto in vista della necessità,
da me fortemente sentita, di una radicale svolta strategica del movimento
stesso di cui bisogna far maturare le premesse.
Nell’ultimo
numero della prima serie, ho tracciato un bilancio della mia attività nel
rinato PSI con il titolo Vent’anni
perduti? in cui davo conto dei dissensi che mi avevano portato alla
rottura. Non credo sia necessario fare oggi un’esposizione polemica dei miei
rapporti con il PSIUP, dove in realtà mi sono sentito sempre piuttosto ospite
che membro di pieno diritto (anche quando ero presidente del Comitato centrale)
per la radicale diversità di formazione mentale e di concezione del partito che
mi separava dal gruppo dirigente e mi rendeva difficile, per non dire
addirittura impossibile, una proficua collaborazione. Ne sono uscito quindi
senza rotture drammatiche, convinto di avere sbagliato la mia collocazione e di
non poter essere altro che un elemento di disturbo, quasi un corpo estraneo
nella compagine del partito. Era perciò naturale che dovessi a un certo momento
trarre le conclusioni dell’errore commesso e ho voluto farlo prima del
congresso proprio per non far sorgere il sospetto che la mia decisione fosse
collegata a qualche nuovo dissenso insorto, mentre si trattava soltanto della
presa d’atto ufficiale di una situazione di fatto esistente da tempo e di cui
il mio lungo e quasi assoluto silenzio alla Camera e nella campagna elettorale
regionale avevano già reso pubblica testimonianza.
Il
senso della mia decisione attuale, alla quale è connessa la impostazione della
terza serie della rivista, non è tanto il distacco dal PSIUP quanto la scelta
consapevole di una posizione di distacco da ogni partito e da ogni formazione
organizzata, il rifiuto di un nuovo “credo” di partito o di gruppo con
l’inevitabile conseguente strascico di polemiche e di scomuniche. Alla radice
di questa mia decisione c’è ovviamente un giudizio critico sulla strategia sia
dei partiti operai che dei gruppi minoritari, con nessuno dei quali mi sentirei
di identificarmi sufficientemente per potervi aderire. Ma c’è anche l’umiltà
del militante che ha imparato, in cinquant’anni di lotte e di esperienze, a non
credere a nessun preteso monopolio della verità rivoluzionaria e sa che solo un
impegno collettivo di tutto il movimento operaio può aprire faticosamente il
difficile cammino verso il socialismo. Sarebbe stato perciò impossibile che
questa rivista, rimanendo sotto la mia direzione, si ponesse come organo di un
ennesimo gruppo, tendenza o corrente più o meno ristretta, proprio nel momento
in cui avverto più urgente il bisogno di spalancare le finestre e di
intrecciare un dialogo con tutti coloro che hanno un contributo utile da dare
all’elaborazione di una nuova strategia rivoluzionaria.
Tre
sono i punti essenziali su cui mi trovo in dissenso con i vari partiti operai
esistenti e la cui giusta soluzione mi sembra premessa indispensabile perché la
lotta per il socialismo possa avere speranze di successo nel mondo occidentale:
la concezione stessa del socialismo e della rivoluzione, la natura e il ruolo
del partito, infine la strategia del movimento operaio. Penso che su ciascuno
di questi problemi la giusta soluzione fosse già contenuta, almeno
implicitamente, nel pensiero di Marx, ma gli epigoni di Marx - tanto quelli
della Seconda che quelli della Terza Internazionale - non hanno purtroppo, a
mio parere, sviluppato il filone centrale del pensiero marxiano secondo quella
che era la sua logica interiore e sono arrivati a poco a poco a conclusioni
aberranti che poco o nulla hanno ormai a che fare con il marxismo di Marx. Con
il risultato che oggi il movimento operaio è carente di idee chiare sui temi
che abbiamo sopra indicato, che sono i temi essenziali di una dottrina
rivoluzionaria, di una dottrina del passaggio dalla società capitalistica alla
società socialista, ed è conseguentemente facile preda di un empirismo che lo
rende subalterno ai meccanismi della società capitalistica ed è alla radice dei
processi di integrazione.
Può
aiutare a capire questo processo di progressivo distacco del movimento operaio
dal pensiero di Marx, la considerazione che egli non ci ha lasciato una sintesi
definitiva delle sue esperienze e dei suoi studi, ma che tutta la sua vita è
stata una ricerca permanente per dotare il movimento operaio di una strategia
rivoluzionaria, una ricerca svoltasi tuttavia a cavallo di due epoche, ciascuna
delle quali ha lasciato il proprio segno nella formazione del suo pensiero.
Marx nasce infatti in un periodo dominato ancora dal ricordo della rivoluzione
francese e vive, con intensa partecipazione, l’esperienza rivoluzionaria del
1848-49, ma poi trascorre un terzo di secolo, il periodo più maturo e più
fecondo della sua vita, nel paese allora capitalisticamente e industrialmente
più sviluppato del mondo, scopre le contraddizioni che in questo sviluppo si
annidano e ne intuisce la dinamica rivoluzionaria. In questo modo la
“rivoluzione” si trasforma sotto i suoi occhi: non più l’insurrezione violenta
per la conquista del potere secondo le manifestazioni più appariscenti delle
rivoluzioni passate, ma un processo lungo, di trasformazioni sociali (strutturali
e sovrastrutturali), che si svolge spesso per cammini sotterranei, e che
tuttavia bisogna saper riconoscere perché bisogna inserirvi continuamente
l’intervento cosciente del movimento operaio. Tuttavia questo mutamento di
prospettiva non è né istantaneo né mai totalmente compiuto, e il suo pensiero
rivoluzionario, appunto perché si nutre dell’esperienza di due epoche (la pre-
e la post-quarantottesca, quella grosso
modo del capitalismo nascente e quella del capitalismo trionfante), si
muove sempre fra l’idea dello sviluppo oggettivo e quella dell’intervento
soggettivo, fra lo studio dei grandi processi storici e la speranza della
fiammata rivoluzionaria, che si riaccenderà ancora cent’anni fa nell’eroica
vicenda della Comune (la quale, appunto, in parte chiude il periodo delle
rivoluzioni che potremmo definire “tradizionali” e in parte annuncia le future
rivoluzioni socialiste).
Pronto
a cogliere ogni nuovo sviluppo, ogni nuovo processo storico e a inserirlo nella
sua visione generale della storia come lotta di classi e come trasformazione
sociale, Marx, anche se non ci ha lasciato il manuale della strategia
rivoluzionaria, ha tuttavia indicato chiaramente il filo conduttore d’una
logica rivoluzionaria, che possiamo sviluppare proficuamente anche al di là di
quella che fu la sua esperienza viva, anche nella società capitalista ancora
tecnicamente più avanzata ch’egli non giunse a vedere, perché quella logica
rivoluzionaria gli consentiva di proiettarsi nel futuro. Giustamente Rosa
Luxemburg scriveva che, lungi dall’essere “superato”, Marx non è ancora
“esaurito” e che noi abbiamo ancora molte armi da trarre dal suo arsenale
rivoluzionario che non sono state finora utilizzate.
È
accaduto infatti che i suoi epigoni ne hanno forzato il pensiero nell’una o
nell’altra direzione: Kautsky e la Seconda Internazionale, come è ricordato in
altro scritto di questo stesso fascicolo, nel senso di uno sviluppo naturale e
meccanico verso il socialismo, da cui è assente la dialettica ed è assente
l’intervento cosciente del proletariato, come se la rivoluzione fosse un fatto
oggettivo che si tratta soltanto di saper aspettare; Lenin e la Terza
Internazionale nel senso di una previa presa del potere che edifica poi
dall’alto il socialismo, come se il socialismo fosse una creazione meramente
soggettiva che si può costruire per volontà del potere. La deviazione della
Seconda Internazionale, affidando ai processi naturali l’avvento del
socialismo, non poteva che approdare, nella prassi quotidiana, all’empirismo
socialdemocratico i cui risultati sono sotto i nostri occhi. La deviazione
della Terza Internazionale invece approdava, come era inevitabile, al
dogmatismo, alla verità posseduta dall’alto che le masse devono soltanto
accettare, quindi al burocratismo che pretende di incanalare in binari
obbligati e uniformi, e perciò soffocare, l’iniziativa creatrice delle masse.
Il dogma si pietrificava, diventava teologia e ritualismo, si arricchiva di
superfetazioni (come il materialismo dialettico o il realismo socialista) che all’autentico
spirito del marxismo sono sostanzialmente estranee, trasformava un’esperienza
storica, come quella sovietica, estremamente ricca d’insegnamenti ma anche
estremamente concreta, in un modello di valore universale che si doveva
soltanto imitare. La caduta di questo modello, dopo le rivelazioni del XX
congresso, ha spinto alcuni a sostituirvi altri modelli e altri dogmi (il
maoismo in luogo dello stalinismo), altri, specialmente nei paesi socialisti, a
rivolgere lo sguardo verso l’occidente, altri, come molti partiti comunisti, a
cadere anch’essi nell’empirismo.
Senza una riscoperta di Marx, il movimento operaio
ritroverà difficilmente un cammino autentico verso il socialismo.
È
a questa riscoperta di Marx, del filone centrale del suo pensiero, soprattutto
sui temi fondamentali che ho sopra indicato, che sarà dedicato d’ora in poi il
lavoro collettivo della rivista.
Per
quel che mi riguarda personalmente (visto che quest’articolo, oltre che
indicare le grandi linee della nuova serie, vuole spiegare le ragioni di fondo
e non contingenti del cambiamento della rivista e insieme quelle della mia
scelta di collocazione politica al di fuori dei partiti), non ho difficoltà a
dire sin d’ora in poche parole in che cosa consista il mio dissenso dalla
prassi attuale dei partiti operai.
Il
primo punto, ho detto, è la concezione stessa del socialismo e della
rivoluzione. Anche a questo riguardo posso richiamarmi, almeno per alcuni
tratti essenziali, al pensiero di Rosa Luxemburg esposto da me in questo stesso
fascicolo. La mia formazione di militante socialista mi ha sempre portato a
vedere il socialismo sopratutto come liberazione dell’uomo da tutte le forme di
alienazione e di oppressione, come conquista di coscienza, di responsabilità,
di dignità, di piena realizzazione della personalità, come credo lo concepisse
Marx, e, sempre sulla base dell’insegnamento di Marx, a concepire la
rivoluzione come un lungo processo che trasforma gli uomini insieme con i
rapporti sociali. Possiamo apprezzare molte delle cose che sono state fatte in
URSS e nelle democrazie popolari, e possiamo criticarne altre, ma devo
onestamente dire che il socialismo per cui ho lottato e desidero lottare
ancora, quella nuova condizione umana che io definisco socialista, è cosa ben
diversa da quel modello, e che diversa deve essere necessariamente anche la
strada da percorrere. Ma al tempo stesso non mi sento di entusiasmarmi per
altri modelli: posso seguire con interesse l’esperienza cinese o cubana, posso
condividere l’opinione che Castro e Mao abbiano sentito la necessità di non
ricadere in schemi burocratici e magari anche la necessità di creare un uomo
nuovo per la società socialista, ma siamo ben lungi ancora dal poter accettare
questi sistemi come modelli e anche, almeno per quel che mi riguarda, dal poter
accettare il libretto rosso e il suo insegnamento catechistico come la via
migliore per edificare una società libertaria e degli uomini responsabili. Non
sono naturalmente così semplicista o utopista da pensare che una società
socialista, come io la penso, possa essere improvvisata e non ignoro le immense
difficoltà attraverso cui son passate prima l’URSS, poi la Cina e Cuba. Non
voglio qui discutere se le vie seguite fossero, nelle condizioni date di
ciascun paese, le migliori possibili: quel che mi preme di stabilire è che un
partito che si proponga di trasformare le società occidentali in società
socialiste deve presentarsi fin d’ora come il portatore di una rivoluzione
culturale totale che attacchi in radice la cultura borghese e contribuisca fin
d’ora a creare l’uomo nuovo di domani, l’uomo cosciente, maturo, responsabile,
capace di una piena partecipazione all’autogoverno della società e di tutti i
processi sociali in cui è coinvolto. Tutti questi problemi - l’uomo nella
società capitalista, l’alienazione vista come manifestazione essenziale della
contraddizione fondamentale del capitalismo, la permanente dialettica fra la
trasformazione della società e la trasformazione dell’uomo, il rapporto fra il
momento individuale e il momento sociale dell’uomo, la nascita dell’uomo nuovo
e tutti i processi culturali che vi si riferiscono, la rivoluzione vista come
un permanente intervento soggettivo delle masse lavoratrici nei processi
obiettivi di sviluppo e nelle loro contraddizioni, l’evoluzione degli stati
comunisti con le loro contraddizioni, ecc. - tutti questi problemi
costituiranno per la rivista motivi di ricerca e di dibattito, oltre che di
verifica concreta per ritrovare - o inserire - nell’esperienza della lotta di
ogni giorno tutti i fermenti che possono far maturare questa dimensione della
rivoluzione socialista. Non si tratta tanto di descrivere un nuovo modello di
socialismo per domani, quanto di conquistare già oggi le premesse per un
socialismo liberatore.
Il secondo punto, strettamente connesso con questo,
riguardi la natura e il ruolo del partito, il suo rapporto con le masse. È
chiaro che se il processo rivoluzionario dev’essere un processo d
trasformazione degli uomini nel senso sopra indicato, se la lotta di classe
deve fin d’ora contribuire a preparare una società socia lista che liberi
l’uomo da ogni forma di alienazione e di oppressione, che consenta all’uomo il
massimo dispiegamento della pro pria personalità responsabile, il partito
rivoluzionario dev’essere una cosa diversa dai partiti gerarchizzati e
burocratizzati che oggi dominano la scena politica. È stata la socialdemocrazia
tedesca che per prima ha iniziato il processo di burocratizzazione, e si è
sforzata di trasferire ogni capacità di iniziativa politica dalle masse a partito
e dal partito all’apparato; Lenin ha accentuato questi motivi e lo stalinismo
li ha esasperati. Oggi noi abbiamo quasi ovunque nel movimento operaio partiti
con una forte carica accentra trite e credo che questo costituisca una forte
remora per un partito rivoluzionario, se si concepisce la rivoluzione come un
processo lungo che impegna l’iniziativa delle masse perché deve sboccare in una
società fortemente democratica. Remora tanto maggiore se si pensa che la
burocratizzazione e professionalizzazione dei quadri partitici tende ad
accentuare sempre più la dimensione politico-parlamentare della lotta,
lasciando sempre più in ombra la dimensione sociale, mentre il processo
rivoluzionario è, seconde me, come ho ripetuto tante volte, intervento
cosciente del movimento nei processi sociali in atto. Oggi, quando tanti
critici accusano il PCI di revisionismo e imborghesimento e parlano di voler
rifare un partito rivoluzionario nel senso leninista della parola, è
assolutamente necessario discutere a fondo questi problemi, quello della
rivoluzione e quello del partito, come problemi inscindibili: se si concepisce
la rivoluzione come previa presa del potere cui deve seguire la costruzione del
socialismo dall’alto, può darsi che il partito leninista risponda ancora a
questa concezione, ma se ammaestrati dall’evoluzione di oltre mezzo secolo
dell’esperienza leninista, ci rendiamo conto che per approdare al socialismo in
paesi altamente sviluppati bisogna operare dal basso attaccando alla radice le
strutture sociali e insieme le mediazioni culturali istituzionali che, insieme
con le strutture formano il blocco storico della società capitalistica,
dobbiamo renderci conto che il modello leninista non risponde affatto a questa
situazione. È necessario un tipo nuovo di partito fortemente articolato e
diffuso capillarmente in tutti i centri della vita sociale, in permanente
simbiosi con i processi che si svolgono nella società civile, che non diriga
dall’alto le lotte impancandosi a possessore della scienza e della verità ma sia
il lievito animatore di tutte le lotte, il germe fecondatore di tutte le
soluzioni, che sia dentro piuttosto che sopra le masse e le aiuti a scoprire la
verità attraverso l’esperienza piuttosto che pretendere d’insegnargliela. Non
conosco nessun partito di questa natura, ma sento che se lo scoprissi tornerei
volentieri a militare in quel partito.
Ponendo
anche questo problema al centro degli interessi della nuova serie di PDS, non
intendo farne un motivo polemico contro questo o quel partito, ma un motivo di
approfondimento e di dibattito, di analisi di esperienze, di contributo a
soluzioni pratiche che non possono essere studiate a tavolino ma devono essere
il frutto della prassi collettiva del movimento operaio. Accettando, sempre
nelle grandi linee, l’interpretazione luxemburghiana (ch’io considero di
diretta derivazione marxista) del rapporto fra movimento e organizzazione, non
posso cadere nell’errore di credere che le forme organizzative, e in modo
particolare quelle partitiche, possano essere frutto della scoperta di
intellettuali anziché frutto dell’esperienza teorico-pratica del movimento. Ed
è in quanto ci consideriamo parte del movimento, che non è fatto solo dai
partiti ma da tutto ciò che il movimento produce, che pensiamo di poter
collaborare all’opera urgente di rinnovamento delle strutture partitiche.
Il
terzo, e forse più difficile, punto che vorrei affrontare sulla rivista, perché
anche su di esso mi trovo in dissenso con la prassi dominante dei partiti
operai, è quello che riguarda la strategia. Ho scritto già molte volte su
questo argomento e devo qui soltanto riassumere cose già dette per accennare
rapidamente a temi che saranno affrontati su queste colonne. Se il processo
rivoluzionario, in senso marxista, è quello di cui ho parlato, una strategia
rivoluzionaria deve da un lato studiare attentamente i processi interni e i
meccanismi di sviluppo della società capitalistica, e dall’altro le forme e i
modi dell’intervento soggettivo per attaccare questi processi e trasformare la
società. Sul primo aspetto (studiare la società che si vuole cambiare,
analizzare i processi su cui si deve intervenire, conoscere le strutture e i
meccanismi che si vogliono rovesciare) non c’è bisogno di spendere parole. Ho
sempre sostenuto che una delle cause della debolezza della sinistra è la scarsa
conoscenza della realtà della società capitalistica, su cui non basta ripetere
vecchie formule, perché la società capitalistica, pur restando fondamentalmente
se stessa, diventa sempre più complessa e articolata, acquista capacità di
reazioni e strumenti d’intervento che prima non possedeva, diventa sempre più
difficilmente attaccabile.
Lo
slogan, caro a tanti giovani contestatori, “lo stato borghese non si riforma ma
si distrugge”, pecca, a mio parere, di un infantilismo estremamente dannoso per
un’autentica lotta rivoluzionaria, perché ignora le tappe intermedie, ignora il
lungo processo rivoluzionario e s’illude di poter raggiungere d’un colpo la
meta optando nel frattempo per l’immobilismo. Ma chi dovrebbe distruggere
questo stato? una minoranza audace o una maggioranza della classe lavoratrice?
Nel primo caso ricadremmo nel blanquismo, cioè risaliremmo ad oltre un secolo
indietro; nel secondo caso dobbiamo renderci conto che questa maggioranza della
classe lavoratrice che non riesce neanche a manifestare nel segreto dell’urna
una volontà di distruzione dello stato borghese ben più difficilmente la
manifesterebbe sulle barricate. E come si formerebbe la sua coscienza
rivoluzionaria? con gli slogans scanditi nelle manifestazioni? o, come ci ha
insegnato Marx, attraverso la prassi, attraverso l’esperienza della lotta di
classe condotta per obiettivi intermedi ciascuno dei quali rimanda a un
obiettivo più lontano, ciascuno dei quali mostra sempre più a nudo le frontiere
di classe della società contemporanea?
Cadiamo
allora nel riformismo? Non credo. Marx si è battuto per delle riforme
(legislazione di fabbrica, allargamento del suffragio) senza cadere nel
riformismo. Il punto centrale di differenziazione, che a me sembra sia troppo
spesso trascurato, è che il marxismo considera il capitalismo come un
“sistema”, o come una “totalità”, cioè come un complesso di meccanismi, avente
una propria logica interna, un funzionamento coerente, che riconduce sotto il
dominio della razionalità capitalistica ogni modifica parziale. Il sistema,
cioè, si arricchisce di nuovi strumenti d’intervento, diventa più complesso e
più articolato, digerisce e riassorbe ogni riforma che rimanga fine a se
stessa. È questo carattere di “sistema” che va dunque affrontato, e ciò non si
può fare con riforme isolate, bensì contrapponendogli una logica antagonistica,
una logica socialista che può essere resa operante già all’interno di questa
società e che deve diventare il punto di riferimento di una contestazione
permanente, di una trasformazione globale (che si articola, certo, in riforme
parziali e intermedie, ma strettamente connesse in un contesto generale,
animate da una comune volontà e, appunto, da questa logica antagonistica al
sistema) che va dalla creazione di contropoteri all’attacco ai meccanismi di
sviluppo, dall’elaborazione di valori antagonistici alla contestazione
sistematica delle mediazioni culturali-istituzionali di cui ha bisogno il
capitalismo, ecc.
Questo
attacco va portato a tutti i livelli, sia in tutti i centri della vita sociale
che sul piano statale, sia su scala sovranazionale (p. es. Comunità europea)
che su scala mondiale (imperialismo), perché ognuno di questi costituisce un
sottosistema o un sistema di grado sempre più elevato, con una propria logica
capace di annullare di volta in volta conquiste che sembravano fondamentali:
così a livello statale la conquista del suffragio universale è stata in larga
misura annullata dallo svuotamento dell’istituto parlamentare e dalla creazione
di centri decisionali extra-istituzionali, così a livello mondiale la
liberazione dal dominio coloniale è stata annullata dal più complesso e più
efficiente sistema del neo-colonialismo.
A
mio parere, quella che oggi chiamiamo l’integrazione della classe operaia, cioè
lo svuotamento della spinta rivoluzionaria, non è, come credeva Lenin,
semplicemente il prodotto di aristocrazie operaie, ma è un fenomeno di assai
più vaste proporzioni, che investe l’intiero movimento operaio, proprio in
funzione di questo carattere di “totalità” del sistema capitalistico, cioè in
funzione dei meccanismi che esso di volta in volta mette in opera per
assoggettare alla propria logica tutte le forze che operano al suo interno. La
debolezza del movimento operaio mi sembra quella di non sapere opporre alla
logica totalizzante del sistema una logica totalizzante antagonistica, che
inserisca ogni conquista in un sistema coordinato di costruzione di una nuova
società. Fuori da questa strategia globale, fuori da questo programma generale,
fuori da questa visione coerente d’assieme, non c’è che l’empirismo, sia quello
aperto e confessato dei socialdemocratici, sia quello velato del rivoluzionario
che separa la rivoluzione di domani dalle lotte quotidiane di oggi, dagli
obiettivi intermedi, dalle riforme singole. In altre parole - questo mi sembra
il succo essenziale dell’insegnamento marxista - come non è possibile pensare
di distruggere lo stato borghese tutto in una volta prescindendo dagli
obiettivi parziali perché questa è la via del più infecondo massimalismo, così
non è possibile arrivare al socialismo con i soli obiettivi parziali non
collegati da una strategia globale, da un programma d’assieme, non inseriti in
una rivoluzione concepita come totalità, come totalità articolata in un
processo.
Si
tratta soltanto di formule? o si tratta di differenze sostanziali? Io propendo
per questa seconda soluzione e credo che proprio la mancanza di questa visione
globale nella coscienza delle masse (se poi alberghi o no nel chiuso del
cervello dei dirigenti non ha pratica importanza) sia il principale tallone
d’Achille del movimento operaio, risospinto continuamente da questa mancanza
verso l’empirismo che lascia aperta la strada ai processi d’integrazione messi
in moto dalla logica del sistema.
È
questo un altro complesso di problemi da affrontare sulle colonne della nuova
serie di PDS: complesso che abbraccia tanto il rapporto riforme-rivoluzione
quanto lo studio dei meccanismi imperialistici, il rapporto
sviluppo-sottosviluppo, la funzione delle mediazioni culturali-istituzionali,
il rapporto struttura-sovrastruttura, ecc.
Sono
fermamente convinto che se non si risolvono questi problemi di fondo, il
movimento operaio non riuscirà a trovare una strada al socialismo nei paesi di
capitalismo sviluppato, e, qualunque sia il suo grado di combattività,
continuerà a rimanere in posizione subalterna rispetto alla logica del sistema,
che andrà sempre più sviluppandosi e perfezionandosi. Avremo così da un lato un
processo d’integrazione che avanzerà sempre più nei paesi sviluppati, mentre le
spinte di rottura tenderanno a spostarsi sempre più verso i paesi
sottosviluppati, accentuando una frattura che favorisce obiettivamente il gioco
dell’imperialismo e allontanando quella possibilità di sintesi che io considero
indispensabile per una rivoluzione socialista oggi. Se pensiamo che dopo tanti
anni il movimento operaio non ha ancora preso esatta coscienza dei pericoli
insiti nei meccanismi comunitari, se pensiamo quanto sia frammentaria e
disorganica la risposta all’imperialismo su scala mondiale, se pensiamo come
gli stessi sviluppi tecnologici, con le trasformazioni che comportano, abbiano
quasi sempre trovato il movimento operaio su posizioni arretrate, ci renderemo
conto di quanta verità sia racchiusa nella frase di Rosa Luxemburg che abbiamo
assunto come motto non solo per quest’articolo di presentazione ma per tutta la
terza serie della rivista: “abbiamo prima di tutto enormemente da studiare”.
Terminando
il 21 dicembre 1968 il mio intervento al congresso di Napoli - che fu il mio
ultimo atto di partecipazione alla vita del PSIUP - io denunciavo quello che mi
sembrava il ritardo del partito, “ritardo con l’elaborazione teorica, con le
analisi concrete della società neocapitalistica, con la linea politica, e anche
con gli schemi, con i moduli organizzativi che risalgono a tempi molto lontani”
e invitavo il partito stesso a trasfondere il massimo di forza rinnovatrice “nel partito
nuovo che deve guidare la lotta per il socialismo”.
Purtroppo
questo ritardo, non solo del PSIUP ma di tutta la sinistra, mi sembra oggi
aumentato: la storia ha camminato più velocemente del processo di rinnovamento
del movimento operaio. Credo che il cammino della storia subirà altre
accelerazioni che spingeranno la società capitalistica verso quelle ulteriori
trasformazioni, che vengono oggi indicate sotto il nome di società
postindustriale o di società programmata. È assai probabile che queste
trasformazioni metteranno nuovi strumenti a disposizione del potere e potranno
ulteriormente rafforzare quella logica interna del sistema che tende ad
assoggettare inesorabilmente a sé tutti i processi e ricorre con indifferenza
alla distruzione e al genocidio, come accade nel Vietnam, quando si trova di
fronte una resistenza. Certo questo sviluppo metterà anche delle nuove armi di
lotta a disposizione del movimento operaio, ma è necessario appunto che esso
sappia servirsene, che non tardi a rendersi conto dei cambiamenti intervenuti e
dei rinnovamenti necessari.
È
questa convinzione di un ritardo generale dei partiti operai sul corso della
storia che mi ha indotto a prendere questa posizione e a scegliere altri
strumenti operativi per dare il mio modesto contributo personale alla comune
battaglia. Questo non significa da parte mia né un rifiuto dei partiti, che
considero in ogni momento indispensabili strumenti della lotta di classe, né un
invito ad altri ad imitare il mio esempio, perché credo che la dimensione dei
problemi sia tale che si può benissimo operare all’interno come all’esterno dei
partiti. Se personalmente ho scelto la soluzione esterna è perché sono convinto
che la milizia quotidiana di partito obbliga ad affrontare ogni giorno problemi
di breve termine e lascia poco margine alle elaborazioni a medio e a lungo
termine, che io considero oggi le più urgenti. Dopo mezzo secolo di vita
partitica, che è stata per me quasi sempre una vita di minoritario o
addirittura di solitario con in più tutte le costrizioni della disciplina, mi è
parso che non potevo seriamente approfondire questi problemi con assoluta
indipendenza di giudizio e di espressione continuando a militare in un partito
che si conformava ad una prassi politica diversa da quella in cui io credo, ciò
che sarebbe stato alla lunga una prova di incoerenza e avrebbe tolto credibilità
alla mia stessa battaglia ideale. Ma tuttavia considero che la mia lunga
esperienza di minoritario o di solitario nei partiti in cui ho militato rende
meno traumatica la mia uscita, che di quella esperienza è in un certo modo il
prolungamento logico, e ciò mi permette di evitare quel complesso dell’ex che
accompagna spesso chi esce da una chiesa o da un partito accettato come chiesa,
spingendolo a proclamarsi depositario della “vera” fede contro chi quella fede
avrebbe rinnegato. Non avendo mai accettato né dogmi né verità rivelate da
nessun partito, sapendo che la ricerca della verità è una lunga via attraverso
errori di diverso segno, io non ho anatemi da scagliare contro nessuno e
considererò tanto più utile il lavoro di questa rivista, come degli altri
strumenti politico-culturali di cui ho parlato in principio, quanto più esso si
svolgerà in un rapporto di collaborazione con tutti coloro che, anche non
condividendo le nostre idee, intendono combattere per una società socialista.
Perché, pur rimanendo esterno ai partiti, mi considero più che mai interno al
movimento operaio, a tutto il movimento operaio, e voglio rimanere partecipe
della sua permanente dialettica.
L. B.