L’UOMO NUOVO NELLA SOCIETÀ SOCIALISTA
di LELIO BASSO
“C’è bisogno di profonda
comprensione per capire che anche le idee, le opinioni e i concetti, insomma
anche la coscienza degli uomini cambia col cambiare delle loro condizioni di
vita, delle loro relazioni sociali, della loro esistenza sociale? [...] La
rivoluzione comunista è la più radicale rottura con i rapporti tradizionali di
proprietà; nessuna meraviglia che nel corso del suo sviluppo si rompa con le
idee tradizionali nella maniera più radicale”. Queste frasi di Marx nel Manifesto ci dicono chiaramente
come egli concepisce la rivoluzione proletaria non soltanto diretta alla
trasformazione dei rapporti sociali e delle condizioni materiali di vita, ma
come diretta altresì alla trasformazione della coscienza stessa degli uomini,
della loro formazione ideologica e spirituale. E già nell’Ideologia Tedesca aveva affermato: “Tanto per la produzione in
massa di questa coscienza comunista, quanto per il successo dell’impresa
stessa, è necessaria una trasformazione massiccia degli uomini, il che può aver
luogo soltanto in un movimento pratico, in una rivoluzione. La rivoluzione
dunque è necessaria non soltanto perché non è possibile abbattere per altra via
la classe dominante, ma anche perché la classe che abbatte non può riuscire che
in una rivoluzione a sbarazzarsi di tutto il vecchio sudiciume e a diventare in
tal modo capace di dare un nuovo fondamento alla società”.
Se le premesse del marxismo sono
esatte, la Rivoluzione russa, che segue il suo corso ormai da oltre trent’anni,
dev’essere riuscita a darci il tipo dell’uomo nuovo, l’esempio della nuova
umanità socialista in rottura radicale col vecchio mondo, con la vecchia
concezione dell’uomo e dei rapporti umani, con i vecchi valori del mondo
borghese, portatrice di nuove tavole di valori, di un nuovo umanesimo.
Chiunque, anche senza aver mai posto piede nell’Unione Sovietica, ne segue le
manifestazioni del pensiero, dell’arte, della letteratura, chiunque si
interessa all’edificazione
della nuova civiltà e ha occhi per vedere non soltanto le grandiose opere
pubbliche, le officine immense, le superbe realizzazioni nel campo
dell’agricoltura e della tecnica, ma anche per leggere nell’intimo dell’uomo,
sa che questo uomo nuovo è veramente nato. Di pari passo con la grande
rivoluzione sociale, con la lotta a morte condotta dal proletariato e dai suoi
alleati contro le strutture oppressive del vecchio mondo, con la mirabile
vittoriosa resistenza contro l’accerchiamento capitalista e i ripetuti
tentativi di aggressione dell’imperialismo, un’altra battaglia non meno dura
non meno difficile non meno tenace, anche se più oscura, si e combattuta nel
corso di questi stessi decenni nella coscienza dell’uomo sovietico contro le
ideologie, le tradizioni e le sopravvivenze del vecchio uomo e contro tutti i
tentativi di infiltrazione della propaganda avversaria. Questa battaglia non è
ancora interamente vinta, ma noi possiamo fin d’ora tratteggiare le grandi
linee della nuova umanità socialista.
Il valore di questa nuova concezione
dell’uomo è che essa supera tutte le contraddizioni in cui si dibatte
l’umanesimo borghese, e risolve in una nuova realtà concreta le opposizioni e
le antinomie astratte (uomo-società, individualismo - collettivismo, libertà -
autorità, ecc.) in cui si esprime il dramma insolubile dell’uomo borghese.
Questo dramma insolubile è il dramma dell’“alienazione” dell’uomo, secondo
l’espressione di Marx, il dramma dell’uomo che è uscito da se medesimo, dell’uomo che
non ha ancora ritrovato se stesso come “uomo totale”.
***
Nel corso della sua storia più
volte millenaria l’uomo non ha modificato soltanto l’ambiente naturale in cui
vive, non ha soltanto lottato contro la natura per trasformarla, per
assoggettarla, per servirsene ai propri fini, ma ha lottato anche contro gli
altri uomini trasformando così i rapporti sociali, il suo ambiente umano, e ha
lottato infine anche contro se stesso, contro le proprie interne antinomie,
modificando così profondamente anche se medesimo, la propria interna “natura” e
la coscienza ch’egli aveva di sé. La nostra analisi parte dal presupposto
marxista che non esiste un’essenza umana immutabile, ma che l’uomo è nella
storia come unità di soggetto e oggetto, cioè al tempo stesso come autore delle
trasmutazioni e dei rivolgimenti che formano la storia e come prodotto di
queste trasmutazioni e rivolgimenti. Anche: il concetto di “uomo” quindi, e a
maggior ragione quelli di libertà o dignità della persona umana sono concetti
che vanno esaminati storicamente. E ad un esame storico risulterà che sono
occorse decine di migliaia di anni perché si venissero formando quei
determinati concetti di “uomo” e di “libertà” che sembrano tanto familiari al
mondo occidentale da esser troppo spesso scambiati per concetti eterni, per
valori assoluti, quel concetto di “personalità umana” di cui il mondo borghese
si considera difensore contro le minacce che deriverebbero dal sorgere della
nuova civiltà collettivista considerata come oppressiva dei diritti
individuali.
Non è evidentemente in questa sede
che noi possiamo tracciare questa storia dell’uomo, cioè della coscienza che
l’uomo ha avuto di se stesso: ci basta richiamarne in sintesi gli aspetti
essenziali. L’uomo primitivo non parte certo dalla soggettività o
dall’autonomia della persona: al contrario egli si sente confuso col mondo che
lo circonda, parte di questo mondo, in cui realtà materiale e realtà spirituale
sono assolutamente indistinte, come indistinti sono i confini fra mondo del
sogno e mondo della realtà. In questa primitiva visione l’uomo, secondo la sua
concezione, può essere o non essere sede di determinati poteri, che gli vengono
dall’esterno o possono
sfuggirgli verso l’esterno, e che quindi non gli appartengono, non formano il
suo “io”; la “forza” che può uscire dagli orifizi del corpo, o può essere
distrutta colpendo determinate parti del corpo, la vita stessa dell’uomo che è
sovente collegata a una esistenza esterna, sono espressioni di un’umanità che
non si distingue come soggettività, che non si conosce come esperienza
soggettiva. È soltanto attraverso una lunga drammatica esperienza che l’uomo
acquista coscienza del suo potere sulla natura e della sua distinzione dalla
natura, e si pone come soggetto, come “io”, interiorizzando come attributi dell’“io” poteri e facoltà che erano prima
considerati affatto esterni, e trasferendo a una soggettività più alta, alla
divinità, quei maggiori poteri e quelle maggiori virtù che l’umanità non sa
ancora ritrovare in se stessa o nella natura.
Ma sono poi necessarie altre migliaia di anni perché alla coscienza
della soggettività si aggiunga e si accompagni la coscienza dell’individualità.
Distinto dall’ambiente naturale, l’uomo continua a non distinguersi che molto
oscuramente dal suo ambiente sociale, dal suo villaggio, dalla sua tribù. La
concezione che la collettività è responsabile per gli atti e le colpe di
ciascuno dei suoi membri, come pure le maledizioni che colpiscono le
generazioni future e fanno gravare sui discendenti le colpe dei padri, sono
espressione di questa solidarietà che lega tutti i membri di una stessa
collettività, sia nello spazio (villaggio, tribù, ecc.) che nel tempo
(generazioni successive), e nella coscienza collettiva disperde i tratti
individuali. Ancora ai giorni nostri il concetto dell’“onore
familiare” che sarebbe macchiato dalle colpe di un membro della famiglia, e
altre simili nozioni che sopravvivono entro i confini della nostra civiltà
individualistica sono reminiscenze di questo passato. E noi conserviamo molti
documenti storici che ci testimoniano come attraverso millenni l’umanità abbia
combattuto per giungere all’affermazione dell’autonomia personale, della
responsabilità individuale, per far lentamente affiorare, dall’esistenza e
coscienza collettiva, i tratti individuali del singolo uomo, la sua esistenza, la
sua coscienza. Tracce di questa lotta troviamo nella storia d’Egitto, p. es. in
quel profondo rivolgimento sociale politico e religioso verificatosi verso la
fine del terzo millennio a.C. attraverso il quale anche il popolo minuto riesce
a conquistare il diritto alla sopravvivenza individuale oltre la tomba, che
prima era riconosciuta soltanto al Faraone e alle alte cariche dello Stato;
tracce ne troviamo nella storia babilonese, p. es. nelle disposizioni del
codice di Hammurabi in cui è presente lo spirito
individualista degli antichi nomadi del deserto, o nei salmi penitenziali che
cantano il dramma del giusto sofferente, il dramma della responsabilità
personale; una traccia importantissima ne troviamo nella storia hittita, nelle preghiere del re Tursilis,
il quale, colpito per lunghi anni da una pestilenza che distrugge il suo popolo
e avvertito dagli oracoli che la pestilenza punisce dei peccati del padre,
rivolge appunto lunghe preghiere ai suoi dei per dimostrare in un’appassionata
polemica che l’uomo è responsabile individualmente dei propri atti.
Si inizia così quel processo di
distinzione dell’uomo dall’ambiente sociale, dell’individuo dalla collettività,
destinato a trionfare nel mondo occidentale, processo che si afferma già
decisamente nella civiltà greca, si universalizza nella civiltà cristiana, ed è
il fondamento della civiltà borghese. Sarebbe però errore credere che si tratti
di un processo rettilineo e continuo. Al contrario possiamo affermare, sia pure
in modo generico, che quante volte trionfa nel corso della storia una civiltà
di tipo agricolo, a base di ricchezza immobiliare, l’uomo tende a perdere i
suoi tratti individuali e a farsi riassorbire nella coscienza collettiva;
mentre ogni affermazione di civiltà a base mobiliare di denaro, di scambi, di
traffici, di viaggi, come nella civiltà greca o nei comuni medievali o all’inizio dell’epoca moderna,
fa riemergere la volontà dell’individuo di strapparsi ai legami tradizionali,
di riaffermare l’essere individuale, staccandolo dalla comunità.
Ma anche qui, questo processo di
distinzione fra individuo e collettività tende a porsi nella coscienza
dell’uomo come processo di separazione, addirittura di contrapposizione. Se da
un lato esso segna un passo avanti sulla vecchia coscienza confusa, se rappresenta
una vittoria parziale sull’alienazione e esteriorizzazione dell’uomo, esso si
impiglia però in nuove contraddizioni, in nuove alterazioni, perché il rapporto
non esplicato che lega l’uomo agli altri uomini e cioè alla società, la
presenza della vita sociale nella coscienza dell’uomo senza che egli ne abbia
la chiara percezione, costituisce per l’uomo un altro mistero, come
costituiscono un mistero le forze inesplicate della natura. E questa mancata
spiegazione, cioè questa incapacità dell’uomo di ritrovare in se stesso la
ragione dei fatti sociali, così come la sua incapacità di conoscere e dominare
i fenomeni naturali, contribuiscono a rafforzare le false spiegazioni religiose
e mitiche, in quanto i rapporti che l’uomo non riesce a spiegare si trasformano
ai suoi occhi in “feticci”, in entità astratte ed esteriori. Sicché non
riuscendo a raggiungere una chiara coscienza del suo essere sociale, l’uomo si
avviluppa sempre più nei meandri della coscienza mistificata, sempre più è
vittima delle apparenze che assumono aspetto di realtà e nascondono le
contraddizioni profonde della realtà vera.
***
Il mondo borghese è il trionfo di
questa coscienza mistificata, e l’“uomo” della società borghese, l’uomo cioè
come è concepito dalla civiltà borghese, è per eccellenza un fantasma,
l’apparenza dell’uomo reale, che dell’uomo reale, dell’uomo sociale nasconde
appunto le contraddizioni. Così i “diritti dell’uomo”, la libertà,
l’eguaglianza, ecc. appaiono reali, nel mondo borghese, solo alla coscienza
mistificata. La concezione che la società borghese ha dell’uomo e su cui fonda
i suoi rapporti umani è una concezione individualistica esasperata. Non a caso
il mondo, borghese si sviluppa con lo svilupparsi della ricchezza mobiliare,
soprattutto dopo la scoperta dell’America e l’afflusso di metalli preziosi dal
nuovo continente, afflusso che contribuisce a minare le fondamenta della
vecchia economia feudale a base terriera, favorendo così il sorgere di una
nuova concezione individualistica non soltanto dei rapporti umani ma anche dei
rapporti religiosi con Dio (individualismo della Riforma).
La scuola del diritto naturale, gli
empiristi inglesi, Rousseau, Kant, gli economisti sono altrettante espressioni di questa
concezione individualistica. Ma per coglierne il vero significato politico e
sociale, dobbiamo soffermarci a considerare in modo particolare quello che è il
momento culminante della grande rivoluzione borghese, e cioè la Rivoluzione
Francese e la sua “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, in cui
la nuova economia prevalentemente mercantile e mobiliare si manifesta
attraverso la ribellione a quel complesso di norme e di vincoli sociali che
durante i secoli del medioevo avevano legato l’uomo alla terra o alla
corporazione, e in cui il nuovo uomo borghese afferma la sua visione egoistica,
cioè una visione negativa della libertà, intesa soprattutto alla soppressione
dei vincoli e degli ostacoli preesisterti, in modo da consentirgli una sua
sfera esclusiva di attività. In un suo scritto giovanile, sulla Questione degli Ebrei, Marx ha fatto una critica definitiva di questa concezione
borghese che vale la pena di riportare, perché in questa critica è già
implicita la direzione in cui si muoverà più tardi la civiltà socialista.
“I droits de l’homme,
i diritti dell’uomo, sono come tali
distinti dai droits du citoyen, dai diritti del cittadino. Chi è l’homme distinto
dal citoyen? Nessun altri che il membro della
società borghese. Perché il membro della società borghese è chiamato ‘uomo’,
uomo semplicemente, perché i suoi diritti sono chiamati diritti dell’uomo?
Donde ricaviamo la spiegazione di questo fatto? Dal rapporto dello stato
politico alla società borghese, dall’essenza dell’emancipazione politica. […]
Prima di tutto constatiamo il fatto
che i cosiddetti diritti dell’uomo, i droits de l’homme distinti
dai droits du citoyen, non sono
altro che i diritti del membro della società borghese, cioè dell’uomo egoista,
dell’uomo separato dall’uomo e dalla comunità. La Costituzione più radicale, la
Costituzione del 1793, può dire :
Déclare des droits de l’homme et du citoyen. Art.2. Ces droits etc. (les
droits naturels et imprescriptibles) sont: l’égalité, la liberté, la sûreté, la
propriété.
In che cosa consiste la liberté?
Art.6. La liberté est le pouvoir qui appartient à l’homme de faire tout ce qui ne nuit pas aux droits d’autrui (la libertà è il diritto di fare tutto ciò che non
nuoce ai diritti altrui), oppure secondo la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo
del 1791: La liberté
consiste à pouvoir faire
tout ce qui nuit pas à autrui.
La
libertà è quindi il diritto di fare e di tendere a tutto ciò che non danneggia
alcun altro. Il confine entro cui ciascuno può muoversi senza danneggiare
altri, è determinato dalla legge, come il confine tra due campi è determinato
dalla siepe. Si tratta della libertà dell’uomo in quanto monade isolata
ripiegata su se stessa [...]
La pratica applicazione di questo diritto di libertà
è il diritto della proprietà privata.
In che cosa consiste il diritto della proprietà privata?
Art.16. (Const.
de 1793): Le droit de propriété est
celui qui appartient à tout citoyen de jouir et de disposer à son gré de ses
biens, de ses revenus, du fruit
de son travail et de
son industrie. (Il diritto di proprietà è quello
che appartiene ad ogni cittadino di godere e di disporre a suo arbitrio dei suoi beni, dei
suoi redditi, del frutto del suo lavoro e della sua industria).
Il diritto di proprietà privata è
quindi il diritto di godere e di disporre a proprio arbitrio (à son gré) della propria sostanza, senza riguardo ad altri
uomini, indipendentemente dalla società, il diritto dell’egoismo. Quella
libertà individuale, come questa applicazione della stessa, formano la base
della società borghese. Essa fa
trovare ad ogni uomo nell’altro uomo non la realizzazione, ma piuttosto il
limite della sua libertà. Ma essa
proclama innanzi tutto il diritto de jouir et
disposer à son gré de ses biens, de ses revenus, du fruit de son travail et de son industrie.
Restano ancora gli altri diritti
dell’uomo, l’égalité
e la sûreté. L’égalité che,
nel suo significato non politico, non è altro che l’eguaglianza della liberté sopra descritta, cioè che ogni uomo
viene egualmente considerato come una tal monade che riposa su se stessa. La Const. del 1795 determina così il concetto di
questa eguaglianza, commisurata al suo significato:
Art.3 (Const. de 1795): L’égalité
consiste en ce que la loi est la même pour tous soit qu’elle protège, soit qu’elle
punisse.
E la sûreté?
Art.8
(Const. de 1793): La sûreté, consiste dans la protection accordée par la société à chacun de ses
membres pour la conservation de sa personne, de ses droits et de ses
propriétés.
La sicurezza è il più alto concetto
sociale della società borghese, il concetto della polizia, che tutta la società
esiste soltanto per questo, per garantire ad ognuno dei suoi membri la
conservazione della sua persona, dei suoi diritti e della sua proprietà [...]
Mediante il concetto della sicurezza
la società borghese non si eleva al di sopra
del proprio egoismo. La sicurezza è piuttosto l’assicurazione dell’egoismo.
Nessuno dunque dei cosiddetti
diritti dell’uomo supera l’orizzonte dell’uomo egoistico, dell’uomo in quanto è
membro della società borghese, e propriamente dell’individuo ripiegato su se
stesso, sul suo privato interesse e sul suo privato arbitrio, separato dalla
comunità. Ben lungi dal concepirsi in essi l’uomo come essere sociale, la
stessa vita sociale, la società appare piuttosto come una cornice esterna agli
individui, come limitazione della loro originaria indipendenza. Il solo legame che li tiene assieme è la
necessità naturale, il bisogno e l’interesse privato, la conservazione della
loro proprietà e della loro egoistica persona.” (Marx Engels - Gesamtausgabe, I, 1,
593 segg.).
Questa analisi di Marx pone
nella loro giusta luce gli aspetti essenziali dell’umanesimo borghese, quali ci
appaiono attraverso gli ideali della Rivoluzione. Essi sono:
a) scissione dell’uomo reale, dell’uomo che vive concretamente nella
società, in due momenti, entrambi quindi astratti ed irreali, e cioè l’“uomo” e
il “cittadino”, il primo essendo il membro della società borghese, cioè l’uomo
vivente in società sulla base della difesa del proprio egoismo individuale, e
il secondo essendo invece la proiezione del primo sul terreno politico, sul terreno statale;
b)
riduzione dell’“uomo”,
cioè del membro della società borghese, ad un essere astratto, considerato non
nella sua effettiva realtà, ma come incarnazione di una generica “essenza
umana”, e perciò concepito come un essere eguale a tutti gli altri esseri, rigidamente chiuso nella sfera del proprio egoismo, nel campo cintato
della propria astratta libertà (è Benedetto Croce che ha paragonato questi
esseri astratti della rivoluzione francese a tante fredde lisce uguali palle da
bigliardo), donde il favore settecentesco per il mito dell’uomo solo nell’isola deserta o per la concezione dell’uomo come di una monade chiusa rispetto alle altre
monadi e aperta solo verso l’alto, verso Dio;
c)
infine eguaglianza puramente giuridica e formale dei cittadini: l’“uomo”, il
membro della società borghese essendo concepito come eguale a tutti gli altri,
come avente eguale “essenza umana” e quindi eguali diritti “naturali”, ne
discende che questa “essenza umana” è, rispettata quando lo Stato riconosce a
ciascuno eguali diritti, senza preoccuparsi delle differenze reali che esistono
nella società ma che non sono prese in considerazione. Perciò l’emancipazione
soltanto politica, cioè l’eguaglianza formale dei cittadini innanzi alla legge,
è considerata come la più alta conquista democratica, come la democrazia
pienamente raggiunta.
Basta un esame rapidissimo per mostrare l’inconsistenza e
l’astrattezza di questo pseudo-umanesimo, sul
quale pure si fondano i principi cosiddetti “immortali” e i diritti cosiddetti
“naturali”, che dovrebbero giustificare sul piano non soltanto storico ma
assoluto la società borghese in cui viviamo. Già la stessa scissione dell’uomo
in due piani, l’uomo tout court e il cittadino che esercita i suoi diritti
nella sfera puramente politica, non corrisponde alla realtà storica e di fatto
della società borghese, in cui “uomo” e “cittadino” sono una persona sola, e in
cui le condizioni di vita del membro della società borghese influiscono
nettamente sul modo di esercizio del suo diritto di cittadino. Ma questo
sdoppiamento della società in due piani diversi, considerati ciascuno per sé
anziché nei loro reciproci rapporti e nella loro sostanziale unità, è una
necessità di vita per la società borghese, in quanto è il solo modo che essa
abbia per conciliare, almeno apparentemente, le profonde contraddizioni che la
lacerano. La società feudale e più tardi la monarchia assoluta avevano
anch’esse delle profonde disuguaglianze e contraddizioni all’interno, avevano
delle classi privilegiate e delle classi condannate a vivere nella miseria, ma
la religione offriva la soluzione di queste contraddizioni, in quanto
giustificava queste gerarchie nella vita terrena ma proclamava l’eguaglianza
degli uomini oltre la tomba. La religione costituiva cioè quel comune
patrimonio, quel comune linguaggio degli uomini viventi nella società
precapitalistica, senza il quale non sarebbe possibile una connessione sociale
che non poggiasse sull’esercizio continuo della violenza da parte dei
dominatori: ciò permetteva di far accettare agli oppressi l’oppressione, in
quanto si prometteva ad essi di ripagarli ad usura nella vita eterna. Contro
questa concezione del mondo la borghesia si era battuta, affermando
l’eguaglianza degli uomini non soltanto dinanzi a Dio ma dinanzi alla ragione
umana, non soltanto nella vita eterna ma nella vita terrena; si era battuta per
distruggere i privilegi delle classi dominanti e si era battuta contro la
religione strumento di governo. Essa non poteva quindi logicamente prospettare
nel nuovo regime soltanto delle soluzioni ultraterrene alle contraddizioni
terrene; non poteva più presentare i privilegi come privilegi, perché doveva
dimostrare di realizzare i principi da essa proclamati nell’ambito della nuova
società. Da ciò la ragione di questo sdoppiamento non più in una vita terrena e
in una ultraterrena, ma in una vita reale e in un’apparenza giuridica, per cui
l’eguaglianza davanti alla legge sostituisce l’eguaglianza davanti a Dio, e la
democrazia formale, l’emancipazione puramente politica, fa da velo alle
contraddizioni della vita reale come una volta lo faceva il Regno di Dio. “Dove
lo stato politico ha raggiunto la sua vera figura, l’uomo vive una doppia vita
non soltanto nel pensiero, nella coscienza, ma nella realtà, nella vita, una
vita celeste ed una terrena, la vita nella comunità politica [...] e la vita
nella società borghese [...] Lo stato politico si comporta con la società
borghese così spiritualmente come il cielo con la terra. Sta verso di essa
nella stessa antitesi, la supera al modo stesso come la religione supera la
limitatezza del mondo profano [...] L’uomo nella sua realtà più immediata,
nella società borghese, è un essere profano [...] Nello stato per contro [...]
egli è il membro immaginario di una sovranità fittizia, è spogliato della sua
reale vita individuale e penetrato di una generalità irreale.” (Marx - Per la
questione degli Ebrei, in M.E.G.A., I, 1, 584).
Questa
emancipazione puramente politica, questa democrazia formale, che la civiltà
borghese celebra come il regime perfetto, è quindi in realtà ombra di un’ombra.
È la proiezione giuridica di un essere astratto quale è l’“uomo” della
Dichiarazione dei Diritti, l’uomo isolato, considerato in se stesso, nella sua
mitica “essenza umana”, uguale agli altri uomini. Nella realtà questo uomo non
esiste; non esistono uomini isolati ma uomini che vivono in società, non
esistono uomini che possano chiudersi in se stessi, perché vivere significa
intrattenere rapporti con altri infiniti uomini; nella realtà in luogo dell’“uomo” astrattamente uguale
esistono degli operai.. dei contadini, degli industriali, dei banchieri, cioè
degli uomini concreti e profondamente disuguali gli uni dagli altri. Anzi a
questo proposito si può ben dire che forse nessuna precedente società aveva
spinto così a fondo come la società capitalistica le reali disuguaglianze, fino
a privare la classe più numerosa, il proletariato, della più elementare
certezza umana, il diritto alla vita, perché il Capitalismo presuppone, per il
suo normale funzionamento, una più o meno estesa disoccupazione permanente. E
ciò mentre da parte dei detentori delle ricchezze monopolistiche si accumula
una potenza finanziaria assolutamente senza precedenti nella storia.
Ora questa essendo la condizione
reale e l’eguaglianza degli uomini essendo appunto una astrazione, ne consegue
che l’emancipazione politica, l’eguaglianza giuridica, non risolve nessuna
contraddizione. Infatti il “cittadino” che è eguale innanzi alla legge ed
eguale nell’esercizio dei diritti politici, non può essere separato dall’uomo
che vive nella società, immerso nei reali rapporti di classe, in condizioni di
effettiva disuguaglianza; il “cittadino” che vota non è un essere mitico calato
improvvisamente dal cielo dell’eguaglianza per assolvere a questo diritto del voto,
ma è l’uomo reale, ricco o povero, colto o ignorante o addirittura analfabeta,
il cui peso nella vita sociale e politica, e quindi anche di fronte al voto, è
infinitamente vario a seconda del grado di potenza sociale raggiunto, e che in
tanto può esercitare il proprio diritto al voto secondo una propria volontà
pienamente cosciente dei propri interessi, dei fini che si propone e dei mezzi
per conseguirli, in quanto la società l’ha posto in condizione di acquistare
questa coscienza e questa volontà, o non piuttosto di subire quella di altri.
Così pure nella vita quotidiana le leggi, che in astratto sono eguali per
tutti, si applicano però ad uomini reali, profondamente disuguali fra di loro,
e disuguali anche di fronte alla concreta applicazione della legge.
Perciò
l’emancipazione politica proclamata dalle Dichiarazioni dei Diritti si risolve
in un inganno, in quanto offre una soluzione puramente apparente delle
contraddizioni sociali del mondo borghese. Quello che c’è veramente dietro a
questo fantasma dell’“uomo” astratto e isolato, non è un’“essenza umana” eguale
per tutti, non è l’eguaglianza, ma semplicemente l’egoismo come carattere
distintivo del membro della società borghese. Nell’esasperato individualismo
della borghesia nascente, nella battaglia combattuta in nome della libertà
contro i privilegi, nella distruzione dell’ordine gerarchico antico, si
manifesta la volontà del borghese di affermare la propria individualità, in una
lotta tenace e continua contro gli altri uomini: lotta di classe contro i
vecchi ceti privilegiati e contro le classi oppresse, lotta di concorrenza
all’interno della propria classe. Nulla definisce meglio questa società
capitalistica che la vecchia concezione hobbesiana
dell’homo homini
lupus o la definizione di bellum omnium contra omnes.
In una
società che ha per legge l’assoluta mancanza di solidarietà fra i suoi membri,
ove ogni uomo è considerato non come una condizione di sviluppo ma come un
ostacolo per gli altri uomini, è ovvio che l’uomo consideri se stesso come un’individualità
chiusa, consideri la libertà come la ricerca di una sfera di attività riservata
all’individuo, consideri lo stato ideale come quello stato che si prefigge per
compito principale quello negativo che consiste nell’impedire violazioni alla
sfera di libertà di ciascuno si direbbe che l’uomo, il quale ha lottato per
millenni per conquistarsi la certezza del proprio io individuale, si preoccupi
soltanto di elevare muraglie insuperabili a protezione di questa individualità.
Ma queste muraglie che vorrebbero garantire la difesa dell’individuo da
attacchi esterni portati contro la sua libertà, sono in realtà in
contraddizione, fondamentale col fatto che l’uomo, è per sua natura un essere
sociale, che esso è a un tempo condizione e frutto della società in cui vive, e
che pertanto la sua libertà, la sua personalità si possono sviluppare non
isolandosi ed appartandosi dalla società, ma al contrario integrandosi nella
vita sociale. “Per la loro stessa attività, dice Lefebvre,
gli individui umani entrano in rapporti determinati, che sono rapporti sociali. Essi non possono
separarsi da questi rapporti; la loro esistenza ne dipende, così come la natura
stessa della loro attività, i suoi limiti e le sue possibilità. Ciò significa
che la loro coscienza non crea questi rapporti, ma che è al contrario impegnata
in essi, dunque determinata
da essi. Così i rapporti nei quali entra necessariamente, giacché non può
isolarsi, costituiscono l’essere sociale di ciascun individuo; ed
è l’essere sociale che determina la coscienza, non la coscienza che determina
l’essere sociale.” (Le Marxisme, Paris,
1948, p. 61). Ed è appunto svolgendo questi concetti che Marx nell’Ideologia Tedesca giunge
alla conclusione che solo in una comunità “l’individuo acquista i mezzi di
sviluppare le sue facoltà in tutti i sensi”, e per conseguenza “non è che nella
comunità che la libertà personale diventa possibile”.
***
Spettava
storicamente al proletariato il compito di porre in termini chiari le antinomie
in cui si avviluppa la società capitalistica e di risolvere su queste nuove
basi il problema della libertà dell’uomo. È infatti il proletariato, che è posto dalle sue condizioni di vita
nella fabbrica in condizione di rendersi conto in forma si può dire immediata
di quella che è la contraddizione fondamentale della società capitalistica, il
contrasto fra la socialità della produzione e l’appropriazione individuale del
prodotto, e che nella figura del padrone che si appropria a titolo individuale
del prodotto del lavoro collettivo ha dinanzi agli occhi quasi plasticamente
l’immagine dell’oppressione di classe che è alla radice di quella
contraddizione. Per il piccolo borghese lo sfruttamento da parte della classe
dominante non si verifica in una forma così
diretta, ma piuttosto si cela dietro l’anonimato degli innumerevoli rapporti
sociali, da cui dipendono la formazione dei prezzi sul mercato, la pressione
fiscale, le manipolazioni monetarie, l’andamento del corso della Borsa, ecc. Ma
per la scienza borghese tutto ciò è in funzione delle “leggi eterne”
dell’economia, e per il piccolo borghese che non riesce a vedere i reali rapporti di classe,
dietro la apparenza del “libero gioco delle forze economiche” non esiste il
problema sociale delle contraddizioni che stanno alla base della società
contemporanea e che fanno funzionare in un certo modo il reale meccanismo della
società, ma soltanto il problema individuale della sua libertà, intesa nel
senso classicamente borghese di una sfera di attività che sia a lui riservata.
Ora
qual’è, in regime borghese, la sfera di attività riservata a ciascun cittadino,
a ciascun membro di questa società? Evidentemente non rientra nella sfera della
libertà dei singoli la soluzione dei problemi principali della vita sociale, i
quali sono condizionati da forze collettive (principalmente la potenza
organizzata dei grandi monopoli che ha al proprio servizio l’apparato statale)
non riducibili in nessun modo al controllo dei singoli in quanto individui e
neppure in quanto elettori. La guerra e la pace, le profonde crisi economiche
che sconvolgono la società e che gettano milioni di uomini nella disoccupazione
e nella miseria, cioè in definitiva i fatti fondamentali della vita dei popoli,
sfuggono completamente al campo di attività proprio di quei milioni di uomini
che ne sono le vittime principali, molti dei quali subiscono questi avvenimenti
senza rendersi conto della ragione di essi come se si trattasse della cieca
volontà del destino. Anzi la società borghese coltiva deliberatamente
nell’opinione pubblica media un certo disprezzo per la politica in generale,
per cui l’uomo comune considera un segno di superiorità il non occuparsi di
politica, cioè dei problemi essenziali da cui dipende l’avvenire suo e della
collettività cui appartiene, considera prova di “obiettività” il guardare con
distacco gli avvenimenti politici, e si illude di essere tanto più padrone di
se stesso e superiore alle passioni di parte, tanto più quindi superiore alle
lotte che si combattono e agli avvenimenti che si producono, quanto più si
svincola da legami sociali, quanto più si rifugia nella sua “imparziale
obiettività”, senza rendersi conto che, così facendo, egli favorisce il giuoco
delle forze dominanti, diventando in definitiva, senza saperlo, schiavo di un
mondo di cui dovrebbe essere padrone. È superfluo osservare che l’aggettivo
“indipendente” attribuito a certa stampa, o l’elogio della tecnica contro la
politica, rientrano in questo tentativo di indirizzare le idee dell’uomo medio
verso una pretesa obiettività e un preteso giudizio tecnico, che significano
soltanto rinuncia a pensare politicamente, cioè a giudicare criticamente
l’operato della classe dominante. In altre parole l’uomo che rivendica la
libertà come una sfera riservata di attività, in realtà si chiude e si confina
in questa sfera come in una prigione, si fa prigioniero della società. Ma
appunto perciò quest’uomo che si fa schiavo dei rapporti sociali che egli
potrebbe contribuire a modificare impegnandosi nell’azione politica e nella
vita collettiva, che rinuncia cioè all’aspetto fondamentale della libertà, che
è quello di partecipare con gli altri membri della collettività a determinare
gli eventi anziché farsene dominare, si proclama geloso difensore della propria
libertà privata, del diritto cioè di disporre di una sfera propria riservata,
in cui rientrano i piccoli fatti della vita individuale (acquistare l’uno o
l’altro giornale, andare a questo o quel teatro o cinematografo, servirsi
nell’uno o nell’altro negozio, ecc.), quelli cioè che non hanno in definitiva
che poca o nessuna influenza sulle sorti della collettività. Che poi la
produzione cinematografica o la stampa quotidiana siano in definitiva al
servizio di determinati interessi o espressione della mentalità della classe
dominante e destinati a imporre al pubblico un determinato patrimonio di idee,
questo sfugge all’attenzione dell’individualista piccolo-borghese che non si
accorge che la sua libertà in verità non esiste neppure nel senso borghese
della parola, perché la sua scelta, ch’egli crede libera, è in realtà una
scelta già condizionata alle origini dall’ambiente in cui vive, e comunque una
scelta che appartiene alla sfera dell’“accidentale”
e non incide minimamente sul corso degli eventi.
Il punto
di arrivo dell’individualismo borghese è quindi il seguente: da un lato una
libertà limitata alla sfera del contingente, e dall’altro le vicende storiche
del mondo, che pur sono opera dell’uomo, fatte incomprensibili e misteriose
all’uomo stesso, perché non sono frutto di una concorde e cosciente volontà ma
del conflitto di infinite volontà contrastanti, il cui risultato non si può
prevedere né padroneggiare. E così l’operaio o l’impiegato del mondo
occidentale è libero p. es., in tempi di prosperità,
di cambiare impiego e padrone, ma non ha nessuna possibilità di impedire e
neppure di prevedere se e quando un’improvvisa crisi economica non lo lascerà
per mesi od anni assolutamente senza impiego e senza padrone. La conseguenza di
questa situazione contraddittoria è che da un lato, in tempi tranquilli, quando
tutto sembra marciare favorevolmente, il membro della società borghese s’illude
di essere libero e corre dietro le illusioni del liberalismo borghese; ma in
tempi di crisi, di guerra, di difficoltà, quando le circostanze lo dominano e
lo schiacciano, ed egli non sa individuare dietro queste circostanze le forze
sociali che le hanno determinate, sicché esse gli appaiono come cieca e
misteriosa fatalità, è portato a rifugiarsi o nella disperazione ò nella
religione. Otto Bauer ha descritto in poche righe le ragioni di questo progresso
della religione in epoca di crisi: “Il capitalismo ha ancora rafforzato questi
elementi, giacché se in passato le radici della religione risiedevano
nell’impotenza degli uomini dinanzi alle forze naturali ostili, il capitalismo
ha sottomesso le masse lavoratrici al gioco delle forze sociali, che esse non
comprendono di più e che non possono, di conseguenza, padroneggiare più delle
forze naturali stesse, ma che esercitano sulla sorte degli individui e delle
masse, delle ripercussioni altrettanto dure. L’operaio si reca al suo lavoro il
mattino, con la testa piena di preoccupazioni: si dice che l’officina sarà
chiusa, sarò dunque licenziato questa sera? A casa, sua moglie
prega: “Signore, risparmia a mio marito l’orrore della disoccupazione!” Il
disoccupato se ne va, disperato, da un’officina all’altra, alla ricerca di
lavoro. A casa sua madre si domanda con angoscia: “Come vivremo noi, se il mio
ragazzo non trova lavoro?”, Ed essa giunge le mani: “Signore, dacci oggi il
nostro pane quotidiano”. La donna di casa se ne va al mercato, dove constata
che la vita diventa ogni giorno più cara. Al crocevia
s’inginocchia davanti all’immagine della Vergine: “Fa che il nostro salario sia
sufficiente per dar da mangiare ai bambini”. (Il socialismo, la religione
e la Chiesa, pp. 58-9
della traduz. francese non ho a disposizione, in
questo momento, l’edizione originale).
E per chi non voglia rifugiarsi nella religione, non resta aperta
altra via che quella della “evasione” dalla società, della fuga, della
solitudine, della disperazione o dell’angoscia; tutta la letteratura del mondo
borghese oscilla in genere fra queste due forme di fondamentale egoismo:
l’indifferenza tranquilla, la serenità olimpica del borghese arrivato e vincitore, e la angosciosa disperazione del
borghese fallito, che oggi trionfa soprattutto nell’esistenzialismo, e in cui
naufraga un individualismo egoista incapace di comprendere l’uomo come membro
della società e le forze sociali come opera dell’uomo e perciò spaventato
dinanzi al mistero del suo destino, del quale l’uomo è autore ma senza averne
coscienza.
Oltre un
secolo fa, nell’Ideologia Tedesca, Marx aveva
già condotto quest’analisi della società borghese: “La forza sociale, ossia la
forza di produzione moltiplicata, che sorge dalla collaborazione dei diversi
individui condizionata nella divisione del lavoro, poiché la collaborazione
stessa non è frutto di libera volontà ma è imposta dalle condizioni obiettive,
appare a questi individui non come la loro propria
forza associata, ma come una forza estranea che sta al di fuori di essi, di cui essi non sanno né donde venga né
dove vada, che essi quindi non sono più in grado di dominare, ma che al
contrario percorre ora una propria serie successiva di fasi e gradi di
sviluppo, indipendente dal volere e dal corso degli uomini, anzi addirittura
capace di dirigere questo volere e questo corso”. (M.E.G.A., I, 5, 23-24).
“Anzitutto le forze produttive appaiono come assolutamente indipendenti ed
avulse dagli individui, come un proprio mondo accanto agli individui, ciò che
ha il suo fondamento nel fatto che gli individui, di cui essi sono le forze,
sono isolati ed in reciproco contrasto, laddove queste forze dal canto loro
sono forze reali solo nel mutuo rapporto e nella coesione di questi individui.
Da un lato quindi una totalità di forze produttive ché hanno assunto, per così
dire, un aspetto obiettivo, e per gli individui stessi non sono più le forze
degli individui, ma della proprietà privata, e quindi degli individui solo in quanto essi sono proprietari
privati”. (M.E.G.A., I, 5, 56-57) Le condizioni del libero sviluppo e movimento
degli individui “erano sinora lasciate al caso, e si rendevano autonome contro
i singoli individui proprio a cagione della loro separazione come individui e
della loro unione forzata, che era data con la divisione del lavoro e divenuta
per la loro separazione un vincolo ad essi estraneo […] Nell’ambito di queste
condizioni poi gli individui potevano fruire del caso. Questo diritto di poter
fruire indisturbati del caso, nell’ambito di certe condizioni, veniva sinora
chiamato libertà personale”. (M.E.G.A., I, 5, 64) “La concorrenza e la lotta
degli individui fra di loro produce e sviluppa questo ‘caso’ come tale. Nella
rappresentazione quindi gli individui sotto il dominio della borghesia sono più
liberi di prima, perché le loro condizioni di esistenza sono per essi
accidentali, ma in realtà essi sono meno liberi, perché più sottomessi ad una
forza obiettiva”. (M.E.G.A., I, 5, 66)
***
Tutt’altra è la visione dell’uomo socialista. Già nella critica di Marx ai principi borghesi c’è in nuce quella
che sarà poi l’esperienza viva del movimento operaio. Non esiste l’uomo
singolo, separato dagli altri uomini, chiuso nell’isolamento del suo egoismo
come un dato che precede la società, e che debba poi rinunciare ad una parte
della sua libertà per entrare nella società secondo le fantasie settecentesche;
e non esiste la società come un’entità astratta che trascenda gli individui
singoli e li schiacci. L’uomo esiste solo come uomo sociale, come uomo cioè
legato da infiniti rapporti ad altri uomini, e la società è l’insieme di questa
rapporti. I quali rapporti
sono alla lor volta il risultato dell’attività umana,
risultato dell’attività che ci ha preceduti e che si pone, sì, come limite ma anche come condizione
e stimolo al nostro operare, per cui l’uomo, modificando se stesso, modifica
anche il complesso dei rapporti che lo legano agli altri uomini e quindi anche
la società, e reciprocamente la società, modificandosi sotto i molteplici
impulsi degli uomini, modifica gli uomini stessi. La storia umana, i rapporti
umani che si sono formati fra gli uomini, gli istituti, le abitudini, la
ricchezza, la tecnica, la religione, la vita spirituale, tutto ciò che è accaduto e che accade nel mondo
insomma, è quindi in definitiva il risultato del lavoro e della produzione
collettiva, ed ogni generazione trasmette alla successiva in un’ininterrotta
continuità storica di patrimonio da essa ereditato, trasformato e prodotto (si
tratti di beni esteriori, come strumenti di lavoro, ricchezze, ecc. o di
qualità interiori come abitudini, tradizioni, patrimonio scientifico e
culturale), sia in ciò che esso ha di valore positivo (ricchezze materiali e
spirituali) che va conservato e arricchito, sia in ciò che ha di negativo (rapporti
di produzione superati, tradizioni morte, ecc.) che va abbattuto e distrutto.
È chiaro che per una visione di
questa natura non vi sono né forze misteriose ne leggi eterne che dominano
l’individuo: tutto ciò che è nella società è prodotto degli uomini, e la
collettività è l’artefice dei propri destini. Se perciò vi sono nel mondo
borghese di oggi dei fatti che sfuggono al controllo degli uomini, se
sussistono dei rapporti inesplicati o delle forze che appaiono misteriose, se
il prodotto dell’attività degli uomini si presenta talora addirittura come un
feticcio che nasconde dietro di sé la
realtà vera dei rapporti sociali, e a un certo momento schiaccia, attraverso
guerre o crisi, la società che lo ha prodotto, ciò è possibile soltanto per le
contraddizioni della presente struttura sociale che, spezzando il legame di
solidarietà dei membri della società e riducendoli alla condizione di individui
isolati, fa sì che il risultato ultimo dei loro sforzi contrastanti o anche
semplicemente divergenti sfugga alla previsione cosciente della collettività e
appaia come un mistero alla coscienza mistificata.
Ma per chi abbia superata questa concezione e si ponga sul terreno
della “socialità” e quindi senta la società non come un fatto esterno e
trascendente, ma come la condizione stessa del suo essere, come un fatto quindi
della sua coscienza stessa di uomo sociale, il mistero si svela e cessa la
condizione dell’uomo che contempla la sua propria opera senza riconoscerla come
propria e magari l’adora come un essere trascendente, cessa cioè l’alienazione
dell’uomo. L’umanità percorre così anche rispetto alla società il ciclo che ha
compiuto rispetto alla natura: si è sentita prima tutt’uno con essa, poi ha
avvertito la propria soggettività ma senza riuscire a sentire la propria unità
con l’oggetto, con la natura, rimasta “misteriosa” e perciò divinizzata. e
adorata, fino a quando l’umanità stessa è venuta scoprendo le leggi della
natura e, perciò comprendendola razionalmente e padroneggiando le forze
naturali. Così di fronte alla società l’uomo ha sentito prima il suo io confuso
con quello della sua tribù o del suo villaggio; poi si è affermato come essere
distinto e addirittura opposto (individuo contro la società) fino a che la
società e le forze sociali gli sono apparse come un mistero inesplicato, capace
di dominarlo e perciò anche suscettibile di alimentare la sua fede religiosa;
ma quando nella sua visione di “uomo sociale” egli sente la sua unità con la
società, l’uomo pone finalmente le
fondamenta della sua vera libertà, di un essere cioè che partecipa
coscientemente alla costruzione dell’avvenire comune, membro cioè di una
collettività che è artefice cosciente dei propri destini, autrice della propria
storia.
***
Una concezione così profondamente rivoluzionaria dell’uomo e della
condizione umana non poteva essere frutto che di una profonda rivoluzione
sociale. Solo una classe nuova, la classe operaia, poteva essere portatrice di
questi nuovi valori. La classe operaia infatti non è legata né alle vecchie
civiltà agrarie, soffocatrici della personalità, né
alle civiltà mercantili e del denaro, ispiratrici di egoistico individualismo.
Essa riunisce nella vita della fabbrica, le profonde esigenze di unità e
solidarietà delle civiltà statiche a base immobiliare, e la vitalità e
ricchezza personale delle moderne civiltà dinamiche, che trovano anzi nella
macchina la loro più alta espressione. Perciò i valori collettivi che si
sprigionano da questa esperienza non rappresentano un ritorno a forme
primitive, non vanno a detrimento dei valori personali; al contrario la
persona, non più legata alle vicende individuali mercantili o artigiane, si fa
centro e nodo di rapporti sociali, e perciò sintesi viva di individualità e
collettività. Basta considerare anche sommariamente l’esperienza di vita della
fabbrica per capire questo nuovo processo formativo che solo al proletariato è
stato possibile.
Innanzi tutto la fabbrica è esperienza di vita
collettiva. Mentre per l’impiegato, il professionista, l’esercente, il
funzionario, che pur essi vivono oppressi dallo sfruttamento e sovente dalla
miseria, il problema della propria emancipazione è visto quasi d’istinto come
un problema individuale (l’impiegato o il funzionario cercheranno di sfuggire
all’oppressione e alla miseria soprattutto attraverso la carriera, il
professionista attraverso il successo personale e il miglioramento della
clientela, l’esercente attraverso la buona riuscita dei suoi affari, ecc.), per
cui sovente si realizza il “mors tua vita mea”, che è
un’espressione dell’egoismo borghese; l’operaio invece sa che, salvo rarissimi
casi, non esiste un problema, non dico di emancipazione, ma neppure di serio
miglioramento individuale: la sua esperienza è un’esperienza di lotta in comune
di migliaia e migliaia di compagni di lavoro posti a vivere nelle medesime
condizioni, di fronte agli stessi problemi, oppressi dallo stesso padrone, e
che solo da una comune vittoria possono attendere un’emancipazione reale. Donde
una naturale solidarietà e una più facile vittoria sull’egoismo, che ha trovato
la sua espressione quando le prime società operaie scrissero sulla loro
bandiera la formula della solidarietà operaia “Uno per tutti, tutti per uno”,
contrapposta alla vecchia formula dell’egoismo borghese “Ciascuno per sé e Dio
per tutti”.
Ma vi è anche un altro aspetto meno appariscente e più
profondo del legame che unisce l’operaio ai suoi compagni di lavoro e fa
maturare una nuova concezione dell’uomo. Io lo riprendo in questa sede con le
parole stesse con cui mi espressi in un discorso ai giovani del marzo 1948: “La
nostra concezione della libertà, la nostra concezione dell’individuo, della
persona umana, nasce invece dall’esperienza di vita della grande fabbrica,
dall’esperienza della divisione del lavoro collettivo, per cui un determinato
prodotto, una determinata macchina esce dalla fabbrica grazie al contributo di
lavoro solidale di tutti gli operai della fabbrica. E come ciascun operaio sa
che il pezzo che egli produce la vite, il bullone, la molla, un ingranaggio
qualsiasi che sia frutto del suo lavoro, non serve a nulla da solo, non ha
nessun valore in se stesso, isolatamente, ma acquista valore in quanto faccia
parte del complesso unitario ed organico della macchina, come ciascun operaio
sa che il suo lavoro diventa qualche cosa di efficace o di utile, in quanto sia
unito al lavoro degli altri, e col lavoro degli altri esca dalla fabbrica
armonicamente completo, allo stesso modo l’uomo moderno acquista coscienza del
valore della propria vita, della propria personalità, in quanto entri in
rapporto con altri uomini, e si integri con essi in un’organica unità. [...] Un
pezzo della macchina, preso isolatamente, non ha alcun valore sociale, ma si
integra con altri formando un tutto organico; la macchina è precisamente questo
tutto organico, non una semplice somma aritmetica di pezzi uguali e staccati.
Così l’uno non è un individuo isolato né la società è una pura somma di
individui; la società è un complesso organico, e ogni uomo vive in quanto è
membro di questa società. Ecco perché le nozioni di personalità e di libertà,
come noi le intendiamo, non si riferiscono a un individuo, contrapposto alla
società e allo stato, bensì all’individuo in quanto membro della società. Il
che è quanto dire che ogni uomo si potenzia, rafforza la sua personalità,
sviluppa la sua libertà nell’atto stesso di potenziare la società. Ogni uomo si
viene qualificando non nel chiuso del proprio egoismo, ma nei rapporti con gli
altri uomini, acquista coscienza di se stesso in quanto è a contatto con gli
altri e contribuisce a far acquistare agli altri coscienza del proprio valore.
[...] Vi è insomma in ciascuno di noi la presenza costante di tutta la società
attraverso la catena di tutti gli umani rapporti; la presenza di tutta la
storia attraverso i legami con le generazioni che ci hanno preceduto è con
quelle che ci seguiranno, vive in ciascuno di noi il senso della collettività,
il senso dell’universalità”.
***
L’essenza
del conflitto ideologico che divide il mondo è racchiusa in queste due
contrastanti visioni del mondo. Da un lato la visione del mondo capitalista che
tende a ricacciare l’uomo verso la barbarie del suo egoismo, facendo centro
della vita sociale l’individuo a cui sarebbero riservate nel mondo occidentale
illimitate possibilità; che nel cinematografo, nel romanzo, nei giornali a
fumetti, nei condensati di stupidità che sono i “Reader’s Digest” e simili, fa balenare queste possibilità come se
fossero realmente in atto per tutti, mostra cioè le apparenze esterne di questo
mondo per far dimenticare il grigiore vero di una vita uniforme e vuota; che
nello sforzo di disgregare ogni rapporto di solidarietà sociale, ogni vincolo
umano che rompa la catena dell’egoismo, non si limita più a combattere la
coscienza di classe dei ceti oppressi, ma ormai anche la coscienza nazionale,
sostituendovi un generico e retorico “cosmopolitismo”, mirando così a svuotare
l’uomo di ogni suo contenuto umano, a farne un automa mosso soltanto dalla
molla dell’egoismo, con apparenti possibilità illimitate, ma in realtà diretto
esclusivamente verso gli obiettivi che gli sono assegnati dalla sola forza
reale di questo mondo capitalistico, che è la potenza dei monopoli. Una massa
sterminata di individui, chiusi e ostili gli uni agli altri, senza sostanziali
legami fra di loro e perciò spogli di ogni connotato personale, fatti eguali
gli uni agli altri proprio grazie a questa soppressione
di ogni personalità, quindi incapaci di capire e tanto meno di dominare le
leggi e le forze sociali da cui è retta la società presente; una massa sterminata
di automi manovrata dall’invisibile e inaccessibile potenza del capitalismo
monopolistico, cui è riservato invece ogni reale potere: questo è l’ideale
della “democrazia” e della “libertà” occidentali, tutt’al più, come si è visto,
con il correttivo della consolazione religiosa o della disperazione della
“evasione” del mondo.
Dall’altro lato la visione di una
società solidale, in cui non v’è altra realtà all’infuori di quella degli
uomini associati, ciascuno dei quali è membro della collettività e concorre con
tutti gli altri a forzare la volontà collettiva che, poggiando su interessi solidali, non è lacerata da interne
contraddizioni. La libertà di questi uomini, così associati non consiste quindi
nell’isolarsi, nel rinchiudersi, nel perseguire una propria sfera di attività
preclusa ad ogni altro ma al contrario nella loro partecipazione cosciente
all’elaborazione degli scopi comuni e all’apprestamento dei mezzi comuni in
vista di questi scopi. La grande superiorità di questa società solidale è che i
risultati dell’attività collettiva non nascono da un conflitto di molte volontà
divergenti o contrastanti, ma dall’armonia di sforzi concordi sono perciò
risultati prevedibili, che possono essere tempestivamente studiati e preparati
e non si abbattono mai inopinatamente sull’umanità con la apparenza di forze
cieche o come manifestazioni di leggi eterne. La pianificazione cosciente degli
scopi collettivi, cioè una comune volontà armata di previsione, è quindi la
reale espressione dell’umana libertà in questa società solidale che è la
società socialista.
Ciò implica naturalmente la
necessità per gli individui di coordinare le proprie attività alle esigenze di
questa comune volontà armata di previsione, ed è questo che il mondo
occidentale presenta come una “menomazione della libertà” o una “limitazione
dei diritti individuali”. Marx e Engels avevano già dato in anticipo risposta a queste critiche. Engels in modo particolare nell’Antidühring:
“Hegel fu il primo che espose esattamente il rapporto fra libertà e necessità.
‘La necessità è cieca solo in quanto non è compresa.’ Non nella immaginaria
indipendenza dalle leggi naturali risiede la libertà, ma nella conoscenza di
queste leggi e nella possibilità con ciò avuta di farle operare secondo un
piano per determinati scopi. Questo vale tanto riguardo alle leggi della natura
esteriore, quanto riguardo a quelle che regolano la stessa esistenza fisica e
spirituale dell’uomo, due classi di leggi che noi possiamo tutt’al più separare
l’una dall’altra nell’immaginazione, ma non nella realtà. Libertà di volere non
significa quindi altro che la capacità di potersi determinare con cognizione di
causa. Quindi quanto più è libero il giudizio di un uomo rispetto ad una
determinata questione, con tanto maggiore necessità sarà determinato il
contenuto di questo giudizio; mentre l’incertezza fondata sull’ignoranza,
l’incertezza che fa un’apparente scelta arbitraria fra molte e diverse
possibilità di determinazione, dimostra appunto con ciò la sua mancanza di
libertà, la sua sottomissione all’oggetto che essa invece dovrebbe dominare”. (ediz. Mongini, p. 96-7)
Alla stregua di questi principi, ci
è facile vedere, quale sia il reale significato della libertà umana che si
realizza nella società socialista in contrapposto alla falsa libertà del mondo
borghese. Così come nella sfera dei rapporti con il mondo della natura noi ci
atteniamo senza difficoltà all’insegnamento di Bacone
che “non si comanda alla natura se non obbedendole”, cioè conoscendone e rispettandone le
leggi, e perciò non riterremo certo più libero un uomo che, ignorando la legge
di gravità, si abbandonasse nel vuoto e si sfracellasse al suolo piuttosto che l’uomo normale
che conosce e rispetta la legge di gravità, oppure un uomo che ignorando le
leggi del nuoto si buttasse in mare con le tasche piene di ferro e affogasse,
anziché l’uomo normale che per nuotare si mette in condizione di essere più
leggero dell’acqua; allo stesso modo, nella sfera dei rapporti sociali, noi non
possiamo considerare più liberò l’uomo che vive in una società di cui non
conosce le leggi e si comporta secondo il proprio egoismo, salvo poi, essere
schiacciato dagli avvenimenti che sono il prodotto dell’attività degli uomini, ma un
prodotto “oscuro” e “misterioso”, piuttosto che l’uomo che vive in una società pianificata, in
una società cioè in cui la volontà umana domina i propri prodotti ed è in grado
di formulare previsioni e programmi di interesse comune, ma nella quale l’uomo,
anziché abbandonarsi ad una scelta arbitraria, regola la propria attività in
armonia con la volontà collettiva, alla cui formazione egli partecipa e i cui risultati rappresentano non
l’espressione di un meschino calcolo egoistico ma il raggiungimento di fini
solidali in una società solidale. Marx ha esposto più volte, e con grande chiarezza, questo
medesimo concetto. Nella Questione degli
Ebrei, ha scritto: “Solo se il reale uomo individuale riassume in sé
l’astratto cittadino e come uomo individuale nella sua vita empirica, nel suo
lavoro individuale, nei suoi rapporti individuali, è diventato ‘essere umano generico’, solo se l’uomo ha riconosciuto e organizzato le
sue forces propres come forze
sociali e quindi non separa più da sé la forza sociale nella figura della forza
politica, solo allora l’emancipazione umana è compiutamente realizzata”.
(M.E.G.A., I, 1, 599) E nel I Libro del Capitale: “La vita sociale, di cui la
produzione materiale ed i rapporti che questa implica formano la base, non
strapperà il mistico velo di nebbia che ne cela l’aspetto, se non nel giorno in
cui vi si manifesterà l’opera di uomini liberamente associati, agenti
consapevolmente in conformità a un piano determinato e padroni del loro proprio
movimento sociale. Ma ciò richiede, nella società un insieme di condizioni di
esistenza materiale, che alla loro volta non possono essere che il prodotto di
un lungo e doloroso sviluppo storico”. (Das Kapital, Hamburg 1872, pag. 57)
***
È chiaro
pertanto che nella misura in cui la classe operaia viene costruendo la nuova
società socialista, essa crea altresì una nuova coscienza umana, un tipo nuovo
di uomo. Se, come abbiam visto, la classe operaia,
già nel corso della lotta ch’essa conduce contro la dominazione di classe
borghese e per la
propria emancipazione, viene elaborando questo nuovo contenuto di coscienza, tuttavia
una radicale trasformazione non è evidentemente possibile se non dopo la
rivoluzione vittoriosa e dopo che si siano saldamente costituiti i nuovi
rapporti sociali di una società socialista. Lenin e Stalin, sulle orme stesse di Marte,
hanno posto l’accento sul fatto che il compito più importante, la meta
principale della rivoluzione proletaria è appunto la conquista di questo più
alto livello di umanità. Ma appunto perciò è il compito più arduo, in quanto si
tratta di distruggere tradizioni millenarie che sono profondamente ancorate
nell’uomo che vive oggi nel mondo borghese. Scrive Lenin a questo riguardo: “Il
lavoratore non è stato mai diviso dalla vecchia società da una muraglia cinese.
In lui si sono conservate molte tradizioni psicologiche della società
capitalista. Gli operai potranno costruire una nuova società, ma se non
trasformeranno gli uomini in nuovi individui che siano puri dal fango del
vecchio mondo, rimarranno ancora inginocchiati in quel fango. [...] Sarebbe
utopistico pensare che ciò si possa fare immediatamente. Ciò sarebbe un’utopia
che in pratica allontanerebbe nei cieli il regno del socialismo”.
La lotta
per liberarsi da questo fango, dai detriti e sedimenti della vecchia cultura
borghese, è una lotta che ogni militante deve impegnare a fondo con se stesso,
e che dura anche al di là della rivoluzione vittoriosa, come dura tuttora
nell’Unione Sovietica. Tuttavia i dirigenti dell’Unione Sovietica sanno che la
liberazione dell’uomo dai residui del vecchio mondo e la formazione dell’uomo
nuovo sono compiti essenziali della rivoluzione, e vi sono a fondo impegnati.
Definendo gli scrittori come “ingegneri dell’anima”,
non ha inteso Stalin appunto indicare
che la più nobile missione dello scrittore è quella di contribuire alla
creazione dell’uomo nuovo? E del pari un grande artista del cinematografo, Pudovchin, ha scritto della sua arte: “L’ondata possente,
del collettivismo agricolo impegnò milioni di uomini sulla via della cultura
socialista. La trasformazione socialista della coscienza delle masse diventava
l’oggetto più importante e più nobile dell’arte”. E in piena guerra mondiale,
un uomo di teatro, Alessandro Tairov, così delineava
i compiti del teatro sovietico: “L’uomo diventa sempre più il centro del nostro
lavoro artistico, e la sostanza essenziale delle nostre ricerche, lo scopo
delle nostre realizzazioni. [...] Ricercare senza posa i modi di incarnazione
sempre nuovi, scoprire i tratti di cui l’epoca e il nuovo regime hanno
arricchito l’uomo, opporre quest’uomo al falso uomo, alla bestia mascherata da
uomo, e uccidere in questo modo la bestia”. E infine, in un messaggio dei
cineasti sovietici del 1946 si legge: “Il cinema è ora al centro della lotta
per la nascita dell’uomo nuovo”.
Quali sono i tratti fondamentali dell’uomo nuovo, così come viene
formandosi nella società socialista? Essi risultano in gran parte da quanto
abbiamo già detto, ma non è forse superfluo sintetizzarli. In primo luogo si
sviluppa potentemente nell’uomo il senso della sua socialità, della sua
partecipazione alla vita associata, alla vita collettiva; gli altri uomini non
sono più considerati dall’uomo come un limite o un ostacolo, ma al contrario
come una condizione per lo sviluppo della sua personalità. Ne deriva
logicamente un profondo sentimento di solidarietà: “per la prima volta nella
storia, scriveva Gorki nel 1934, il vero amore
dell’uomo è organizzato
come una forza creatrice e si pone come scopo l’emancipazione di milioni di
lavoratoti”. Ma l’uomo che si sente così legato agli altri uomini e solidale
con essi, non ha più bisogni di evasione da questo mondo; al contrario egli si
sente sempre più “impegnato” nella costruzione del nuovo mondo. L’uomo cioè è
sospinto a lavorare nell’interesse comune. Il lavoro non è più, per l’uomo
sovietico, una catena, una pena, la maledizione che pesa sull’uomo dai tempi
biblici, ma la manifestazione più importante della vita associata dell’uomo,
cioè della sua personalità in quanto essere sociale. L’uomo sovietico sa che,
non vi è più nessuno che possa appropriarsi del frutto del suo lavoro, il quale
ora, unito a quello degli altri lavoratori, contribuisce a raggiungere i fini
comuni, a garantire la prosperità comune, condizione del libero sviluppo di
tutti e di ciascuno. L’emulazione socialista, lo stakanovismo
sono espressioni tipiche di una società, in cui sono scomparsi gli Oblomov e gli altri uomini inutili cari alla vecchia
letteratura russa presovietica, e in cui il lavoro è
una manifestazione della gioia di vivere, “il primo bisogno dell’esistenza” secondo la definizione di Marx.
Ne deriva altresì uno straordinario
affinamento del senso di responsabilità personale l’uomo che non lavora solo
per sé, per il suo profitto, per il suo egoismo, ma che in ogni momento del suo
lavoro si sente membro della collettività e quindi lavora ad un tempo per sé e per la collettività, lavora per il
conseguimento del fine comune, nel quale s’inquadra anche il soddisfacimento
delle sue particolari esigenze, non può non sentire che l’impegno, che egli ha
verso la società di cui fa parte lo obbliga anche a rispondere verso la
collettività di tutto il suo onerato, e soprattutto degli effetti buoni o
cattivi, utili o dannosi, che questo suo operato produce rispetto al
raggiungimento degli scopi che la collettività si propone. In altre parole
poiché l’uomo non può più considerarsi isolato dall’ambiente in cui vive, e il
suo agire non potendosi più concepire se non come un elemento dell’attività
collettiva con cui deve essere armonicamente coordinato per il conseguimento
del fine comune, ne consegue che gli errori e le deficienze di ciascuno si
ripercuotono sull’opera di tutti. Sicché nessuno può più considerare questi
suoi errori o queste sue deficienze come un fatto che riguardi soltanto lui
stesso e che egli può rimediare per proprio conto, perché la società ne
sopporta conseguenze dannose, anche se l’autore non le avesse volute. Ciò
contribuisce ad accrescere da un lato l’importanza della funzione sociale di
ciascun individuo e parallelamente ne accresce il senso di responsabilità: non
a caso la parola “responsabile” è largamente usata nei partiti della classe
operaia proprio per sottolineare questo particolare aspetto, che cioè ciascun
militante deve rispondere al proprio partito o sindacato od organizzazione
qualsivoglia del modo come egli ha adempiuto al compito che gli è stato
affidato, nel quadro dell’attività complessiva dell’organizzazione di cui fa
parte.
Crescendo l’importanza della
funzione sociale di ciascun individuo, aumenta anche la dignità sociale di
ciascuno. Ogni uomo, anche il più modesto, sa di adempiere ad un lavoro utile
nel quadro dell’opera complessiva, sa di essere un elemento del grande lavoro
comune che ferve nel paese del socialismo. Cessa così la netta separazione
abituale, alla storiografia premarxista fra la massa
amorfa, considerata soltanto oggetto di storia, egli uomini di stato, i
condottieri, gli eroi, ch’erano considerati i protagonisti della storia. “Sono
passati, dice Stalin, i tempi in cui i capi si consideravano come gli unici creatori
della storia e gli operai e i contadini non venivano presi in considerazione. I destini dei popoli e
degli stati non vengono decisi oggi soltanto dai capi, ma prima di tutto e soprattutto da masse di
milioni di lavoratori. Gli operai e i contadini che costruiscono, senza chiasso
e senza pose, officine e fabbriche, miniere e ferrovie, colcos e sovcos;
che creano tutti i beni della vita, che nutrono e vestono il mondo intiero,
ecco chi sono i veri eroi e creatori della nuova vita”.
Tutto ciò ha naturalmente come corollario che se la collettività vuole
ottenere da ciascuno dei suoi membri il miglior contributo possibile per
realizzare armonicamente l’opera collettiva, cioè il conseguimento dei fini
comuni che la collettività si è proposta, essa deve porre ciascuno nelle migliori
condizioni per lo svolgimento del compito che gli è assegnato e deve assegnare
a ciascuno il compito che meglio risponda alle sue possibilità e capacità.
Cioè, in tre parole la collettività
deve tendere a sviluppare al massimo la personalità di ciascuno. Nulla è più
lontano dallo spirito socialista che l’idea dell’astratta eguaglianza, di una
società in cui tutti gli uomini siano livellati, grigi, uniformi, svuotati di
ogni contenuto umano. Al contrario, la società socialista e una società che
permette a ciascuno di essere veramente se stesso, con le sue caratteristiche
personali, una società che sviluppa anzi le disuguaglianze fra uomo e uomo, non
nel senso di aumentare le distanze quantitative, ma nel senso di mettere
ciascuno in condizione di sviluppare le possibilità infinitamente ricche che
sono racchiuse in ogni uomo, una società che non si contrappone più ai suoi
membri e che non pone l’accento sul collettivo a detrimento dell’individuale,
ma che considera ogni uomo come un collaboratore dell’opera comune e ne stimola
pertanto la capacità personale e lo spirito di iniziativa, una società insomma
che si sente più ricca anche spiritualmente quanto più ricca è la personalità
di ciascuno. È chiaro che questo è possibile solo perché la società socialista ha
distrutto l’oppressione di classe e ha creato un vincolo solidale fra i suoi membri, perché ha riconosciuto il
carattere sociale, cioè adeguando le forme della società alle forze che in essa
si esprimono, perché di conseguenza essa non ha più bisogno di una apparenza giuridico-formale nella quale dissolvere le contraddizioni
del mondo reale che essa ha invece risolto e soppresso fin dalle loro
fondamenta, l’esistenza di classi antagonistiche. E questo ci spiega perché la
Costituzione Sovietica non si limita a proclamare semplicemente dei diritti di
libertà e di sicurezza, validi solo nella sfera giuridico-formale,
ma si preoccupa di garantire l’effettivo esercizio di ogni diritto, che deve
trovare il suo fondamento nella struttura sociale del paese.
E correlativamente, come la collettività si
identifica con i suoi membri, così ciascuno di essi si sente veramente
partecipe della vita collettiva, partecipe sia delle decisioni comuni che del
lavoro comune per realizzare queste decisioni. Il senso vero e profondo della
democrazia socialista sta in questa partecipazione di ciascuno alla soluzione
di tutti i problemi che interessano la collettività di cui fa parte il suo
comune, la sua azienda, la sua associazione sportiva o culturale o di lavoro,
la sua regione, il suo stato, ecc.: questa partecipazione reale e costante di
ciascuno realizza una vita democratica e una coscienza della libertà di tutti
infinitamente più ricche di quelle delle cosiddette democrazie borghesi, ove la
partecipazione del singolo all’esercizio della sovranità popolare e alla
soluzione dei problemi collettivi si esaurisce nel momento del voto, in un atto
cioè isolato dal complesso della vita sociale, e che diventa quindi una
finzione, perché da un lato i cittadini non sono posti neppure in grado di
conoscere realmente i problemi fondamentali della vita nazionale, e perché
dall’altro, i massimi problemi sono risolti fra un voto e l’altro dai
dominatori effettivi della vita nazionale, i gruppi economicamente dominanti,
senza che nessuno degli interessati possa esercitare un reale controllo.
Questa partecipazione di ciascuno alla vita collettiva, e cioè sia
alla elaborazione, che alla realizzazione dei piani comuni, dà a ciascuno
finalmente la coscienza della “umanità” e “storicità” delle forze sociali che
operano e delle circostanze in cui egli vive, toglie ad esse il carattere di
provvidenza, di destino o di forze cieche, distrugge il valore dei feticci e il
senso di mistero che li circonda, e fa così per la prima volta degli uomini non
una massa di esseri slegati e dominati dalle proprie opere collettive, bensì
una collettività organizzata, artefice cosciente della propria storia: una
storia finalmente “laicizzata”.
Qui tocchiamo veramente il fondo del contrasto fra le due società.
Come abbiamo già più volte rilevato nel corso della nostra esposizione, il
mondo occidentale ci offre oggi lo spettacolo di una società in cui l’immensa
maggioranza degli uomini non ha alcuna reale libertà perché non ha alcuna reale
ingerenza nella vita politica, né alcuna possibilità di partecipare
coscientemente alla creazione del proprio avvenire, e la cui sorte dipende, in
definitiva da forze sociali che sfuggono al suo controllo, ma ha invece
l’illusione di questa libertà perché a ciascuno è riservata, nella sfera delle
cose contingenti, una piccola zona di attività abbandonata al suo arbitrio,
uomini cioè ridotti in condizione di effettiva servitù, in gran parte senza
neppure saperlo, vittime di una coscienza mistificata; la società socialista
per contro, essendo fondata su una solidarietà di interessi, realizza insieme
il massimo sviluppo della personalità di ciascuno e il massimo contributo di
ciascuno alla collettività, il massimo di libertà personale, cioè di
partecipazione alla volontà e alla vita collettiva, e il massimo di
pianificazione, cioè di conoscenza delle leggi sociali e di previsione del
futuro.
Nell’Armée Nouvelle, così Jaurès ci descrive, nel
suo stile immaginoso, gli uomini che vivono in questo mondo borghese, schiavi
senza saperlo: “Mi ricordo che una trentina di anni fa, arrivato giovanissimo a
Parigi, fui preso, una sera d’inverno, nella città immensa, da una specie di
spavento sociale. Mi sembrava che le migliaia e migliaia di uomini che
passavano senza conoscersi, folla innumerevole di fantasmi solitari, fossero
sciolti da ogni legame. E mi domandavo con una specie di terrore impersonale
come tutti questi esseri accettassero l’ineguale ripartizione dei beni e dei
mali, come l’enorme struttura sociale non cadesse in dissoluzione. Io non vedevo
in loro catene né alle mani né ai piedi e mi dicevo per quale prodigio queste
migliaia di individui sofferenti e spogliati subiscono tutto ciò che accade? Io
non vedevo bene: la catena era al cuore, ma una catena di cui il cuore stesso
non sentiva il fardello; il pensiero era legato, ma d’un legame ch’esso stesso
non conosceva”.(Ediz. Riedez,
p. 305)
È forse l’umiliazione maggiore inflitta alla condizione umana questa,
di avere fatto degli schiavi contenti, ignari delle catene che portano nel
cuore e nella mente. E giustamente Marx ha
ammonito fin dai suoi scritti giovanili che compito nostro è appunto quello di
rendere più oppressiva l’oppressione reale aggiungendovi la coscienza
dell’oppressione, di far sentire cioè all’uomo le catene invisibili che gli legano
il cuore e la mente perché egli possa meglio sentire le catene che avvincono
anche la sua vita materiale, e si assuma così coscientemente il compito di
realizzare non soltanto l’ingannevole emancipazione politica ma la reale
emancipazione umana, che è il fine più alto della rivoluzione socialista. È in
questo senso che Engels parla dell’avvento del socialismo come del “salto dal
regno della necessità al regno della libertà”, intendendo per regno della
necessità quello in cui l’uomo non riesce a padroneggiare le forze sociali
stesse che sono da lui create, e per regno della libertà quello in cui la
volontà degli uomini fatti solidali fra loro si arma di previsione e si fa
capace di dirigere queste stesse forze sociali verso scopi preordinati in
comune.
La rivoluzione borghese, ci dice Marx nel
Manifesto, ha il grande merito storico di avere liberato delle forze immense
che giacevano nascoste nel grembo della natura; la rivoluzione socialista ha
quello infinitamente più grande di liberare delle forze immense che erano fino
ad oggi prigioniere nel seno stesso dell’umanità.