i testi
L’UOMO NUOVO NELLA SOCIETÀ SOCIALISTA

L’UOMO NUOVO NELLA SOCIETÀ SOCIALISTA

di LELIO BASSO

“C’è bisogno di profonda comprensione per capire che anche le idee, le opinioni e i concetti, insomma anche la coscienza degli uomini cambia col cambiare delle loro condizioni di vita, delle loro relazioni sociali, della loro esistenza sociale? [...] La rivoluzione comunista è la più radicale rottura con i rapporti tradizionali di proprietà; nessuna meraviglia che nel corso del suo sviluppo si rompa con le idee tradizionali nella maniera più radicale”. Queste frasi di Marx nel Manifesto ci dicono chiaramente come egli concepisce la rivoluzione proletaria non soltanto diretta alla trasformazione dei rapporti sociali e delle condizioni materiali di vita, ma come diretta altresì alla trasformazione della coscienza stessa degli uomini, della loro formazione ideologica e spirituale. E già nell’Ideologia Tedesca aveva affermato: “Tanto per la produzione in massa di questa coscienza comunista, quanto per il successo dell’impresa stessa, è necessaria una trasformazione massiccia degli uomini, il che può aver luogo soltanto in un movimento pratico, in una rivoluzione. La rivoluzione dunque è necessaria non soltanto perché non è possibile abbattere per altra via la classe dominante, ma anche perché la classe che abbatte non può riuscire che in una rivoluzione a sbarazzarsi di tutto il vecchio sudiciume e a diventare in tal modo capace di dare un nuovo fondamento alla società”.

Se le premesse del marxismo sono esatte, la Rivoluzione russa, che segue il suo corso ormai da oltre trent’anni, dev’essere riuscita a darci il tipo dell’uomo nuovo, l’esempio della nuova umanità socialista in rottura radicale col vecchio mondo, con la vecchia concezione dell’uomo e dei rapporti umani, con i vecchi valori del mondo borghese, portatrice di nuove tavole di valori, di un nuovo umanesimo. Chiunque, anche senza aver mai posto piede nell’Unione Sovietica, ne segue le manifestazioni del pensiero, dell’arte, della letteratura, chiunque si interessa all’edificazione della nuova civiltà e ha occhi per vedere non soltanto le grandiose opere pubbliche, le officine immense, le superbe realizzazioni nel campo dell’agricoltura e della tecnica, ma anche per leggere nell’intimo dell’uomo, sa che questo uomo nuovo è veramente nato. Di pari passo con la grande rivoluzione sociale, con la lotta a morte condotta dal proletariato e dai suoi alleati contro le strutture oppressive del vecchio mondo, con la mirabile vittoriosa resistenza contro l’accerchiamento capitalista e i ripetuti tentativi di aggressione dell’imperialismo, un’altra battaglia non meno dura non meno difficile non meno tenace, anche se più oscura, si e combattuta nel corso di questi stessi decenni nella coscienza dell’uomo sovietico contro le ideologie, le tradizioni e le sopravvivenze del vecchio uomo e contro tutti i tentativi di infiltrazione della propaganda avversaria. Questa battaglia non è ancora interamente vinta, ma noi possiamo fin d’ora tratteggiare le grandi linee della nuova umanità socialista.

Il valore di questa nuova concezione dell’uomo è che essa supera tutte le contraddizioni in cui si dibatte l’umanesimo borghese, e risolve in una nuova realtà concreta le opposizioni e le antinomie astratte (uomo-società, individualismo - collettivismo, libertà - autorità, ecc.) in cui si esprime il dramma insolubile dell’uomo borghese. Questo dramma insolubile è il dramma dell’“alienazione” dell’uomo, secondo l’espressione di Marx, il dramma dell’uomo che è uscito da se medesimo, dell’uomo che non ha ancora ritrovato se stesso come “uomo totale”.

***

Nel corso della sua storia più volte millenaria l’uomo non ha modificato soltanto l’ambiente naturale in cui vive, non ha soltanto lottato contro la natura per trasformarla, per assoggettarla, per servirsene ai propri fini, ma ha lottato anche contro gli altri uomini trasformando così i rapporti sociali, il suo ambiente umano, e ha lottato infine anche contro se stesso, contro le proprie interne antinomie, modificando così profondamente anche se medesimo, la propria interna “natura” e la coscienza ch’egli aveva di sé. La nostra analisi parte dal presupposto marxista che non esiste un’essenza umana immutabile, ma che l’uomo è nella storia come unità di soggetto e oggetto, cioè al tempo stesso come autore delle trasmutazioni e dei rivolgimenti che formano la storia e come prodotto di queste trasmutazioni e rivolgimenti. Anche: il concetto di “uomo” quindi, e a maggior ragione quelli di libertà o dignità della persona umana sono concetti che vanno esaminati storicamente. E ad un esame storico risulterà che sono occorse decine di migliaia di anni perché si venissero formando quei determinati concetti di “uomo” e di “libertà” che sembrano tanto familiari al mondo occidentale da esser troppo spesso scambiati per concetti eterni, per valori assoluti, quel concetto di “personalità umana” di cui il mondo borghese si considera difensore contro le minacce che deriverebbero dal sorgere della nuova civiltà collettivista considerata come oppressiva dei diritti individuali.

Non è evidentemente in questa sede che noi possiamo tracciare questa storia dell’uomo, cioè della coscienza che l’uomo ha avuto di se stesso: ci basta richiamarne in sintesi gli aspetti essenziali. L’uomo primitivo non parte certo dalla soggettività o dall’autonomia della persona: al contrario egli si sente confuso col mondo che lo circonda, parte di questo mondo, in cui realtà materiale e realtà spirituale sono assolutamente indistinte, come indistinti sono i confini fra mondo del sogno e mondo della realtà. In questa primitiva visione l’uomo, secondo la sua concezione, può essere o non essere sede di determinati poteri, che gli vengono dall’esterno o possono sfuggirgli verso l’esterno, e che quindi non gli appartengono, non formano il suo “io”; la “forza” che può uscire dagli orifizi del corpo, o può essere distrutta colpendo determinate parti del corpo, la vita stessa dell’uomo che è sovente collegata a una esistenza esterna, sono espressioni di un’umanità che non si distingue come soggettività, che non si conosce come esperienza soggettiva. È soltanto attraverso una lunga drammatica esperienza che l’uomo acquista coscienza del suo potere sulla natura e della sua distinzione dalla natura, e si pone come soggetto, come “io”, interiorizzando come attributi dell’“io” poteri e facoltà che erano prima considerati affatto esterni, e trasferendo a una soggettività più alta, alla divinità, quei maggiori poteri e quelle maggiori virtù che l’umanità non sa ancora ritrovare in se stessa o nella natura.

Ma sono poi necessarie altre migliaia di anni perché alla coscienza della soggettività si aggiunga e si accompagni la coscienza dell’individualità. Distinto dall’ambiente naturale, l’uomo continua a non distinguersi che molto oscuramente dal suo ambiente sociale, dal suo villaggio, dalla sua tribù. La concezione che la collettività è responsabile per gli atti e le colpe di ciascuno dei suoi membri, come pure le maledizioni che colpiscono le generazioni future e fanno gravare sui discendenti le colpe dei padri, sono espressione di questa solidarietà che lega tutti i membri di una stessa collettività, sia nello spazio (villaggio, tribù, ecc.) che nel tempo (generazioni successive), e nella coscienza collettiva disperde i tratti individuali. Ancora ai giorni nostri il concetto dell’“onore familiare” che sarebbe macchiato dalle colpe di un membro della famiglia, e altre simili nozioni che sopravvivono entro i confini della nostra civiltà individualistica sono reminiscenze di questo passato. E noi conserviamo molti documenti storici che ci testimoniano come attraverso millenni l’umanità abbia combattuto per giungere all’affermazione dell’autonomia personale, della responsabilità individuale, per far lentamente affiorare, dall’esistenza e coscienza collettiva, i tratti individuali del singolo uomo, la sua esistenza, la sua coscienza. Tracce di questa lotta troviamo nella storia d’Egitto, p. es. in quel profondo rivolgimento sociale politico e religioso verificatosi verso la fine del terzo millennio a.C. attraverso il quale anche il popolo minuto riesce a conquistare il diritto alla sopravvivenza individuale oltre la tomba, che prima era riconosciuta soltanto al Faraone e alle alte cariche dello Stato; tracce ne troviamo nella storia babilonese, p. es. nelle disposizioni del codice di Hammurabi in cui è presente lo spirito individualista degli antichi nomadi del deserto, o nei salmi penitenziali che cantano il dramma del giusto sofferente, il dramma della responsabilità personale; una traccia importantissima ne troviamo nella storia hittita, nelle preghiere del re Tursilis, il quale, colpito per lunghi anni da una pestilenza che distrugge il suo popolo e avvertito dagli oracoli che la pestilenza punisce dei peccati del padre, rivolge appunto lunghe preghiere ai suoi dei per dimostrare in un’appassionata polemica che l’uomo è responsabile individualmente dei propri atti.

Si inizia così quel processo di distinzione dell’uomo dall’ambiente sociale, dell’individuo dalla collettività, destinato a trionfare nel mondo occidentale, processo che si afferma già decisamente nella civiltà greca, si universalizza nella civiltà cristiana, ed è il fondamento della civiltà borghese. Sarebbe però errore credere che si tratti di un processo rettilineo e continuo. Al contrario possiamo affermare, sia pure in modo generico, che quante volte trionfa nel corso della storia una civiltà di tipo agricolo, a base di ricchezza immobiliare, l’uomo tende a perdere i suoi tratti individuali e a farsi riassorbire nella coscienza collettiva; mentre ogni affermazione di civiltà a base mobiliare di denaro, di scambi, di traffici, di viaggi, come nella civiltà greca o nei comuni medievali o all’inizio dell’epoca moderna, fa riemergere la volontà dell’individuo di strapparsi ai legami tradizionali, di riaffermare l’essere individuale, staccandolo dalla comunità.

Ma anche qui, questo processo di distinzione fra individuo e collettività tende a porsi nella coscienza dell’uomo come processo di separazione, addirittura di contrapposizione. Se da un lato esso segna un passo avanti sulla vecchia coscienza confusa, se rappresenta una vittoria parziale sull’alienazione e esteriorizzazione dell’uomo, esso si impiglia però in nuove contraddizioni, in nuove alterazioni, perché il rapporto non esplicato che lega l’uomo agli altri uomini e cioè alla società, la presenza della vita sociale nella coscienza dell’uomo senza che egli ne abbia la chiara percezione, costituisce per l’uomo un altro mistero, come costituiscono un mistero le forze inesplicate della natura. E questa mancata spiegazione, cioè questa incapacità dell’uomo di ritrovare in se stesso la ragione dei fatti sociali, così come la sua incapacità di conoscere e dominare i fenomeni naturali, contribuiscono a rafforzare le false spiegazioni religiose e mitiche, in quanto i rapporti che l’uomo non riesce a spiegare si trasformano ai suoi occhi in “feticci”, in entità astratte ed esteriori. Sicché non riuscendo a raggiungere una chiara coscienza del suo essere sociale, l’uomo si avviluppa sempre più nei meandri della coscienza mistificata, sempre più è vittima delle apparenze che assumono aspetto di realtà e nascondono le contraddizioni profonde della realtà vera.

***

Il mondo borghese è il trionfo di questa coscienza mistificata, e l’“uomo” della società borghese, l’uomo cioè come è concepito dalla civiltà borghese, è per eccellenza un fantasma, l’apparenza dell’uomo reale, che dell’uomo reale, dell’uomo sociale nasconde appunto le contraddizioni. Così i “diritti dell’uomo”, la libertà, l’eguaglianza, ecc. appaiono reali, nel mondo borghese, solo alla coscienza mistificata. La concezione che la società borghese ha dell’uomo e su cui fonda i suoi rapporti umani è una concezione individualistica esasperata. Non a caso il mondo, borghese si sviluppa con lo svilupparsi della ricchezza mobiliare, soprattutto dopo la scoperta dell’America e l’afflusso di metalli preziosi dal nuovo continente, afflusso che contribuisce a minare le fondamenta della vecchia economia feudale a base terriera, favorendo così il sorgere di una nuova concezione individualistica non soltanto dei rapporti umani ma anche dei rapporti religiosi con Dio (individualismo della Riforma).

La scuola del diritto naturale, gli empiristi inglesi, Rousseau, Kant, gli economisti sono altrettante espressioni di questa concezione individualistica. Ma per coglierne il vero significato politico e sociale, dobbiamo soffermarci a considerare in modo particolare quello che è il momento culminante della grande rivoluzione borghese, e cioè la Rivoluzione Francese e la sua “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, in cui la nuova economia prevalentemente mercantile e mobiliare si manifesta attraverso la ribellione a quel complesso di norme e di vincoli sociali che durante i secoli del medioevo avevano legato l’uomo alla terra o alla corporazione, e in cui il nuovo uomo borghese afferma la sua visione egoistica, cioè una visione negativa della libertà, intesa soprattutto alla soppressione dei vincoli e degli ostacoli preesisterti, in modo da consentirgli una sua sfera esclusiva di attività. In un suo scritto giovanile, sulla Questione degli Ebrei, Marx ha fatto una critica definitiva di questa concezione borghese che vale la pena di riportare, perché in questa critica è già implicita la direzione in cui si muoverà più tardi la civiltà socialista.

I droits de l’homme, i diritti dell’uomo, sono come tali distinti dai droits du citoyen, dai diritti del cittadino. Chi è l’homme distinto dal citoyen? Nessun altri che il membro della società borghese. Perché il membro della società borghese è chiamato ‘uomo’, uomo semplicemente, perché i suoi diritti sono chiamati diritti dell’uomo? Donde ricaviamo la spiegazione di questo fatto? Dal rapporto dello stato politico alla società borghese, dall’essenza dell’emancipazione politica. […]

Prima di tutto constatiamo il fatto che i cosiddetti diritti dell’uomo, i droits de l’homme distinti dai droits du citoyen, non sono altro che i diritti del membro della società borghese, cioè dell’uomo egoista, dell’uomo separato dall’uomo e dalla comunità. La Costituzione più radicale, la Costituzione del 1793, può dire :

Déclare des droits de l’homme et du citoyen. Art.2. Ces droits etc. (les droits naturels et imprescriptibles) sont: l’égalité, la liberté, la sûreté, la propriété.

In che cosa consiste la liberté?

Art.6. La liberté est le pouvoir qui appartient à l’homme de faire tout ce qui ne nuit pas aux droits d’autrui (la libertà è il diritto di fare tutto ciò che non nuoce ai diritti altrui), oppure secondo la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 1791: La liberté consiste à pouvoir faire tout ce qui nuit pas à autrui.

La libertà è quindi il diritto di fare e di tendere a tutto ciò che non danneggia alcun altro. Il confine entro cui ciascuno può muoversi senza danneggiare altri, è determinato dalla legge, come il confine tra due campi è determinato dalla siepe. Si tratta della libertà dell’uomo in quanto monade isolata ripiegata su se stessa [...]

La pratica applicazione di questo diritto di libertà è il diritto della proprietà privata.

In che cosa consiste il diritto della proprietà privata?

Art.16. (Const. de 1793): Le droit de propriété est celui qui appartient à tout citoyen de jouir et de disposer à son gré de ses biens, de ses revenus, du fruit de son travail et de son industrie. (Il diritto di proprietà è quello che appartiene ad ogni cittadino di godere e di disporre a suo arbitrio dei suoi beni, dei suoi redditi, del frutto del suo lavoro e della sua industria).

Il diritto di proprietà privata è quindi il diritto di godere e di disporre a proprio arbitrio (à son gré) della propria sostanza, senza riguardo ad altri uomini, indipendentemente dalla società, il diritto dell’egoismo. Quella libertà individuale, come questa applicazione della stessa, formano la base della società borghese. Essa fa trovare ad ogni uomo nell’altro uomo non la realizzazione, ma piuttosto il limite della sua libertà. Ma essa proclama innanzi tutto il diritto de jouir et disposer à son gré de ses biens, de ses revenus, du fruit de son travail et de son industrie.

Restano ancora gli altri diritti dell’uomo, l’égalité e la sûreté. L’égalité che, nel suo significato non politico, non è altro che l’eguaglianza della liberté sopra descritta, cioè che ogni uomo viene egualmente considerato come una tal monade che riposa su se stessa. La Const. del 1795 determina così il concetto di questa eguaglianza, commisurata al suo significato:

Art.3 (Const. de 1795): L’égalité consiste en ce que la loi est la même pour tous soit qu’elle protège, soit qu’elle punisse.

E la sûreté?

Art.8 (Const. de 1793): La sûreté, consiste dans la protection accordée par la société à chacun de ses membres pour la conservation de sa personne, de ses droits et de ses propriétés.

La sicurezza è il più alto concetto sociale della società borghese, il concetto della polizia, che tutta la società esiste soltanto per questo, per garantire ad ognuno dei suoi membri la conservazione della sua persona, dei suoi diritti e della sua proprietà [...] Mediante il concetto della sicurezza la società borghese non si eleva al di sopra del proprio egoismo. La sicurezza è piuttosto l’assicurazione dell’egoismo.

Nessuno dunque dei cosiddetti diritti dell’uomo supera l’orizzonte dell’uomo egoistico, dell’uomo in quanto è membro della società borghese, e propriamente dell’individuo ripiegato su se stesso, sul suo privato interesse e sul suo privato arbitrio, separato dalla comunità. Ben lungi dal concepirsi in essi l’uomo come essere sociale, la stessa vita sociale, la società appare piuttosto come una cornice esterna agli individui, come limitazione della loro originaria indipendenza. Il solo legame che li tiene assieme è la necessità naturale, il bisogno e l’interesse privato, la conservazione della loro proprietà e della loro egoistica persona.” (Marx Engels - Gesamtausgabe, I, 1, 593 segg.).

Questa analisi di Marx pone nella loro giusta luce gli aspetti essenziali dell’umanesimo borghese, quali ci appaiono attraverso gli ideali della Rivoluzione. Essi sono:

a) scissione dell’uomo reale, dell’uomo che vive concretamente nella società, in due momenti, entrambi quindi astratti ed irreali, e cioè l’“uomo” e il “cittadino”, il primo essendo il membro della società borghese, cioè l’uomo vivente in società sulla base della difesa del proprio egoismo individuale, e il secondo essendo invece la proiezione del primo sul terreno politico, sul terreno statale;

b) riduzione dell’“uomo”, cioè del membro della società borghese, ad un essere astratto, considerato non nella sua effettiva realtà, ma come incarnazione di una generica “essenza umana”, e perciò concepito come un essere eguale a tutti gli altri esseri, rigidamente chiuso nella sfera del proprio egoismo, nel campo cintato della propria astratta libertà (è Benedetto Croce che ha paragonato questi esseri astratti della rivoluzione francese a tante fredde lisce uguali palle da bigliardo), donde il favore settecentesco per il mito dell’uomo solo nell’isola deserta o per la concezione dell’uomo come di una monade chiusa rispetto alle altre monadi e aperta solo verso l’alto, verso Dio;

c) infine eguaglianza puramente giuridica e formale dei cittadini: l’“uomo”, il membro della società borghese essendo concepito come eguale a tutti gli altri, come avente eguale “essenza umana” e quindi eguali diritti “naturali”, ne discende che questa “essenza umana” è, rispettata quando lo Stato riconosce a ciascuno eguali diritti, senza preoccuparsi delle differenze reali che esistono nella società ma che non sono prese in considerazione. Perciò l’emancipazione soltanto politica, cioè l’eguaglianza formale dei cittadini innanzi alla legge, è considerata come la più alta conquista democratica, come la democrazia pienamente raggiunta.

Basta un esame rapidissimo per mostrare l’inconsistenza e l’astrattezza di questo pseudo-umanesimo, sul quale pure si fondano i principi cosiddetti “immortali” e i diritti cosiddetti “naturali”, che dovrebbero giustificare sul piano non soltanto storico ma assoluto la società borghese in cui viviamo. Già la stessa scissione dell’uomo in due piani, l’uomo tout court e il cittadino che esercita i suoi diritti nella sfera puramente politica, non corrisponde alla realtà storica e di fatto della società borghese, in cui “uomo” e “cittadino” sono una persona sola, e in cui le condizioni di vita del membro della società borghese influiscono nettamente sul modo di esercizio del suo diritto di cittadino. Ma questo sdoppiamento della società in due piani diversi, considerati ciascuno per sé anziché nei loro reciproci rapporti e nella loro sostanziale unità, è una necessità di vita per la società borghese, in quanto è il solo modo che essa abbia per conciliare, almeno apparentemente, le profonde contraddizioni che la lacerano. La società feudale e più tardi la monarchia assoluta avevano anch’esse delle profonde disuguaglianze e contraddizioni all’interno, avevano delle classi privilegiate e delle classi condannate a vivere nella miseria, ma la religione offriva la soluzione di queste contraddizioni, in quanto giustificava queste gerarchie nella vita terrena ma proclamava l’eguaglianza degli uomini oltre la tomba. La religione costituiva cioè quel comune patrimonio, quel comune linguaggio degli uomini viventi nella società precapitalistica, senza il quale non sarebbe possibile una connessione sociale che non poggiasse sull’esercizio continuo della violenza da parte dei dominatori: ciò permetteva di far accettare agli oppressi l’oppressione, in quanto si prometteva ad essi di ripagarli ad usura nella vita eterna. Contro questa concezione del mondo la borghesia si era battuta, affermando l’eguaglianza degli uomini non soltanto dinanzi a Dio ma dinanzi alla ragione umana, non soltanto nella vita eterna ma nella vita terrena; si era battuta per distruggere i privilegi delle classi dominanti e si era battuta contro la religione strumento di governo. Essa non poteva quindi logicamente prospettare nel nuovo regime soltanto delle soluzioni ultraterrene alle contraddizioni terrene; non poteva più presentare i privilegi come privilegi, perché doveva dimostrare di realizzare i principi da essa proclamati nell’ambito della nuova società. Da ciò la ragione di questo sdoppiamento non più in una vita terrena e in una ultraterrena, ma in una vita reale e in un’apparenza giuridica, per cui l’eguaglianza davanti alla legge sostituisce l’eguaglianza davanti a Dio, e la democrazia formale, l’emancipazione puramente politica, fa da velo alle contraddizioni della vita reale come una volta lo faceva il Regno di Dio. “Dove lo stato politico ha raggiunto la sua vera figura, l’uomo vive una doppia vita non soltanto nel pensiero, nella coscienza, ma nella realtà, nella vita, una vita celeste ed una terrena, la vita nella comunità politica [...] e la vita nella società borghese [...] Lo stato politico si comporta con la società borghese così spiritualmente come il cielo con la terra. Sta verso di essa nella stessa antitesi, la supera al modo stesso come la religione supera la limitatezza del mondo profano [...] L’uomo nella sua realtà più immediata, nella società borghese, è un essere profano [...] Nello stato per contro [...] egli è il membro immaginario di una sovranità fittizia, è spogliato della sua reale vita individuale e penetrato di una generalità irreale.” (Marx - Per la questione degli Ebrei, in M.E.G.A., I, 1, 584).

Questa emancipazione puramente politica, questa democrazia formale, che la civiltà borghese celebra come il regime perfetto, è quindi in realtà ombra di un’ombra. È la proiezione giuridica di un essere astratto quale è l’“uomo” della Dichiarazione dei Diritti, l’uomo isolato, considerato in se stesso, nella sua mitica “essenza umana”, uguale agli altri uomini. Nella realtà questo uomo non esiste; non esistono uomini isolati ma uomini che vivono in società, non esistono uomini che possano chiudersi in se stessi, perché vivere significa intrattenere rapporti con altri infiniti uomini; nella realtà in luogo dell’“uomo” astrattamente uguale esistono degli operai.. dei contadini, degli industriali, dei banchieri, cioè degli uomini concreti e profondamente disuguali gli uni dagli altri. Anzi a questo proposito si può ben dire che forse nessuna precedente società aveva spinto così a fondo come la società capitalistica le reali disuguaglianze, fino a privare la classe più numerosa, il proletariato, della più elementare certezza umana, il diritto alla vita, perché il Capitalismo presuppone, per il suo normale funzionamento, una più o meno estesa disoccupazione permanente. E ciò mentre da parte dei detentori delle ricchezze monopolistiche si accumula una potenza finanziaria assolutamente senza precedenti nella storia.

Ora questa essendo la condizione reale e l’eguaglianza degli uomini essendo appunto una astrazione, ne consegue che l’emancipazione politica, l’eguaglianza giuridica, non risolve nessuna contraddizione. Infatti il “cittadino” che è eguale innanzi alla legge ed eguale nell’esercizio dei diritti politici, non può essere separato dall’uomo che vive nella società, immerso nei reali rapporti di classe, in condizioni di effettiva disuguaglianza; il “cittadino” che vota non è un essere mitico calato improvvisamente dal cielo dell’eguaglianza per assolvere a questo diritto del voto, ma è l’uomo reale, ricco o povero, colto o ignorante o addirittura analfabeta, il cui peso nella vita sociale e politica, e quindi anche di fronte al voto, è infinitamente vario a seconda del grado di potenza sociale raggiunto, e che in tanto può esercitare il proprio diritto al voto secondo una propria volontà pienamente cosciente dei propri interessi, dei fini che si propone e dei mezzi per conseguirli, in quanto la società l’ha posto in condizione di acquistare questa coscienza e questa volontà, o non piuttosto di subire quella di altri. Così pure nella vita quotidiana le leggi, che in astratto sono eguali per tutti, si applicano però ad uomini reali, profondamente disuguali fra di loro, e disuguali anche di fronte alla concreta applicazione della legge.

Perciò l’emancipazione politica proclamata dalle Dichiarazioni dei Diritti si risolve in un inganno, in quanto offre una soluzione puramente apparente delle contraddizioni sociali del mondo borghese. Quello che c’è veramente dietro a questo fantasma dell’“uomo” astratto e isolato, non è un’“essenza umana” eguale per tutti, non è l’eguaglianza, ma semplicemente l’egoismo come carattere distintivo del membro della società borghese. Nell’esasperato individualismo della borghesia nascente, nella battaglia combattuta in nome della libertà contro i privilegi, nella distruzione dell’ordine gerarchico antico, si manifesta la volontà del borghese di affermare la propria individualità, in una lotta tenace e continua contro gli altri uomini: lotta di classe contro i vecchi ceti privilegiati e contro le classi oppresse, lotta di concorrenza all’interno della propria classe. Nulla definisce meglio questa società capitalistica che la vecchia concezione hobbesiana dell’homo homini lupus o la definizione di bellum omnium contra omnes.

In una società che ha per legge l’assoluta mancanza di solidarietà fra i suoi membri, ove ogni uomo è considerato non come una condizione di sviluppo ma come un ostacolo per gli altri uomini, è ovvio che l’uomo consideri se stesso come un’individualità chiusa, consideri la libertà come la ricerca di una sfera di attività riservata all’individuo, consideri lo stato ideale come quello stato che si prefigge per compito principale quello negativo che consiste nell’impedire violazioni alla sfera di libertà di ciascuno si direbbe che l’uomo, il quale ha lottato per millenni per conquistarsi la certezza del proprio io individuale, si preoccupi soltanto di elevare muraglie insuperabili a protezione di questa individualità. Ma queste muraglie che vorrebbero garantire la difesa dell’individuo da attacchi esterni portati contro la sua libertà, sono in realtà in contraddizione, fondamentale col fatto che l’uomo, è per sua natura un essere sociale, che esso è a un tempo condizione e frutto della società in cui vive, e che pertanto la sua libertà, la sua personalità si possono sviluppare non isolandosi ed appartandosi dalla società, ma al contrario integrandosi nella vita sociale. “Per la loro stessa attività, dice Lefebvre, gli individui umani entrano in rapporti determinati, che sono rapporti sociali. Essi non possono separarsi da questi rapporti; la loro esistenza ne dipende, così come la natura stessa della loro attività, i suoi limiti e le sue possibilità. Ciò significa che la loro coscienza non crea questi rapporti, ma che è al contrario impegnata in essi, dunque determinata da essi. Così i rapporti nei quali entra necessariamente, giacché non può isolarsi, costituiscono l’essere sociale di ciascun individuo; ed è l’essere sociale che determina la coscienza, non la coscienza che determina l’essere sociale.” (Le Marxisme, Paris, 1948, p. 61). Ed è appunto svolgendo questi concetti che Marx nell’Ideologia Tedesca giunge alla conclusione che solo in una comunità “l’individuo acquista i mezzi di sviluppare le sue facoltà in tutti i sensi”, e per conseguenza “non è che nella comunità che la libertà personale diventa possibile”.

***

Spettava storicamente al proletariato il compito di porre in termini chiari le antinomie in cui si avviluppa la società capitalistica e di risolvere su queste nuove basi il problema della libertà dell’uomo. È infatti il proletariato, che è posto dalle sue condizioni di vita nella fabbrica in condizione di rendersi conto in forma si può dire immediata di quella che è la contraddizione fondamentale della società capitalistica, il contrasto fra la socialità della produzione e l’appropriazione individuale del prodotto, e che nella figura del padrone che si appropria a titolo individuale del prodotto del lavoro collettivo ha dinanzi agli occhi quasi plasticamente l’immagine dell’oppressione di classe che è alla radice di quella contraddizione. Per il piccolo borghese lo sfruttamento da parte della classe dominante non si verifica in una forma così diretta, ma piuttosto si cela dietro l’anonimato degli innumerevoli rapporti sociali, da cui dipendono la formazione dei prezzi sul mercato, la pressione fiscale, le manipolazioni monetarie, l’andamento del corso della Borsa, ecc. Ma per la scienza borghese tutto ciò è in funzione delle “leggi eterne” dell’economia, e per il piccolo borghese che non riesce a vedere i reali rapporti di classe, dietro la apparenza del “libero gioco delle forze economiche” non esiste il problema sociale delle contraddizioni che stanno alla base della società contemporanea e che fanno funzionare in un certo modo il reale meccanismo della società, ma soltanto il problema individuale della sua libertà, intesa nel senso classicamente borghese di una sfera di attività che sia a lui riservata.

Ora qual’è, in regime borghese, la sfera di attività riservata a ciascun cittadino, a ciascun membro di questa società? Evidentemente non rientra nella sfera della libertà dei singoli la soluzione dei problemi principali della vita sociale, i quali sono condizionati da forze collettive (principalmente la potenza organizzata dei grandi monopoli che ha al proprio servizio l’apparato statale) non riducibili in nessun modo al controllo dei singoli in quanto individui e neppure in quanto elettori. La guerra e la pace, le profonde crisi economiche che sconvolgono la società e che gettano milioni di uomini nella disoccupazione e nella miseria, cioè in definitiva i fatti fondamentali della vita dei popoli, sfuggono completamente al campo di attività proprio di quei milioni di uomini che ne sono le vittime principali, molti dei quali subiscono questi avvenimenti senza rendersi conto della ragione di essi come se si trattasse della cieca volontà del destino. Anzi la società borghese coltiva deliberatamente nell’opinione pubblica media un certo disprezzo per la politica in generale, per cui l’uomo comune considera un segno di superiorità il non occuparsi di politica, cioè dei problemi essenziali da cui dipende l’avvenire suo e della collettività cui appartiene, considera prova di “obiettività” il guardare con distacco gli avvenimenti politici, e si illude di essere tanto più padrone di se stesso e superiore alle passioni di parte, tanto più quindi superiore alle lotte che si combattono e agli avvenimenti che si producono, quanto più si svincola da legami sociali, quanto più si rifugia nella sua “imparziale obiettività”, senza rendersi conto che, così facendo, egli favorisce il giuoco delle forze dominanti, diventando in definitiva, senza saperlo, schiavo di un mondo di cui dovrebbe essere padrone. È superfluo osservare che l’aggettivo “indipendente” attribuito a certa stampa, o l’elogio della tecnica contro la politica, rientrano in questo tentativo di indirizzare le idee dell’uomo medio verso una pretesa obiettività e un preteso giudizio tecnico, che significano soltanto rinuncia a pensare politicamente, cioè a giudicare criticamente l’operato della classe dominante. In altre parole l’uomo che rivendica la libertà come una sfera riservata di attività, in realtà si chiude e si confina in questa sfera come in una prigione, si fa prigioniero della società. Ma appunto perciò quest’uomo che si fa schiavo dei rapporti sociali che egli potrebbe contribuire a modificare impegnandosi nell’azione politica e nella vita collettiva, che rinuncia cioè all’aspetto fondamentale della libertà, che è quello di partecipare con gli altri membri della collettività a determinare gli eventi anziché farsene dominare, si proclama geloso difensore della propria libertà privata, del diritto cioè di disporre di una sfera propria riservata, in cui rientrano i piccoli fatti della vita individuale (acquistare l’uno o l’altro giornale, andare a questo o quel teatro o cinematografo, servirsi nell’uno o nell’altro negozio, ecc.), quelli cioè che non hanno in definitiva che poca o nessuna influenza sulle sorti della collettività. Che poi la produzione cinematografica o la stampa quotidiana siano in definitiva al servizio di determinati interessi o espressione della mentalità della classe dominante e destinati a imporre al pubblico un determinato patrimonio di idee, questo sfugge all’attenzione dell’individualista piccolo-borghese che non si accorge che la sua libertà in verità non esiste neppure nel senso borghese della parola, perché la sua scelta, ch’egli crede libera, è in realtà una scelta già condizionata alle origini dall’ambiente in cui vive, e comunque una scelta che appartiene alla sfera dell’“accidentale” e non incide minimamente sul corso degli eventi.

Il punto di arrivo dell’individualismo borghese è quindi il seguente: da un lato una libertà limitata alla sfera del contingente, e dall’altro le vicende storiche del mondo, che pur sono opera dell’uomo, fatte incomprensibili e misteriose all’uomo stesso, perché non sono frutto di una concorde e cosciente volontà ma del conflitto di infinite volontà contrastanti, il cui risultato non si può prevedere né padroneggiare. E così l’operaio o l’impiegato del mondo occidentale è libero p. es., in tempi di prosperità, di cambiare impiego e padrone, ma non ha nessuna possibilità di impedire e neppure di prevedere se e quando un’improvvisa crisi economica non lo lascerà per mesi od anni assolutamente senza impiego e senza padrone. La conseguenza di questa situazione contraddittoria è che da un lato, in tempi tranquilli, quando tutto sembra marciare favorevolmente, il membro della società borghese s’illude di essere libero e corre dietro le illusioni del liberalismo borghese; ma in tempi di crisi, di guerra, di difficoltà, quando le circostanze lo dominano e lo schiacciano, ed egli non sa individuare dietro queste circostanze le forze sociali che le hanno determinate, sicché esse gli appaiono come cieca e misteriosa fatalità, è portato a rifugiarsi o nella disperazione ò nella religione. Otto Bauer ha descritto in poche righe le ragioni di questo progresso della religione in epoca di crisi: “Il capitalismo ha ancora rafforzato questi elementi, giacché se in passato le radici della religione risiedevano nell’impotenza degli uomini dinanzi alle forze naturali ostili, il capitalismo ha sottomesso le masse lavoratrici al gioco delle forze sociali, che esse non comprendono di più e che non possono, di conseguenza, padroneggiare più delle forze naturali stesse, ma che esercitano sulla sorte degli individui e delle masse, delle ripercussioni altrettanto dure. L’operaio si reca al suo lavoro il mattino, con la testa piena di preoccupazioni: si dice che l’officina sarà chiusa, sarò dunque licenziato questa sera? A casa, sua moglie prega: “Signore, risparmia a mio marito l’orrore della disoccupazione!” Il disoccupato se ne va, disperato, da un’officina all’altra, alla ricerca di lavoro. A casa sua madre si domanda con angoscia: “Come vivremo noi, se il mio ragazzo non trova lavoro?”, Ed essa giunge le mani: “Signore, dacci oggi il nostro pane quotidiano”. La donna di casa se ne va al mercato, dove constata che la vita diventa ogni giorno più cara. Al crocevia s’inginocchia davanti all’immagine della Vergine: “Fa che il nostro salario sia sufficiente per dar da mangiare ai bambini”. (Il socialismo, la religione e la Chiesa, pp. 58-9 della traduz. francese non ho a disposizione, in questo momento, l’edizione originale).

E per chi non voglia rifugiarsi nella religione, non resta aperta altra via che quella della “evasione” dalla società, della fuga, della solitudine, della disperazione o dell’angoscia; tutta la letteratura del mondo borghese oscilla in genere fra queste due forme di fondamentale egoismo: l’indifferenza tranquilla, la serenità olimpica del borghese arrivato e vincitore, e la angosciosa disperazione del borghese fallito, che oggi trionfa soprattutto nell’esistenzialismo, e in cui naufraga un individualismo egoista incapace di comprendere l’uomo come membro della società e le forze sociali come opera dell’uomo e perciò spaventato dinanzi al mistero del suo destino, del quale l’uomo è autore ma senza averne coscienza.

Oltre un secolo fa, nell’Ideologia Tedesca, Marx aveva già condotto quest’analisi della società borghese: “La forza sociale, ossia la forza di produzione moltiplicata, che sorge dalla collaborazione dei diversi individui condizionata nella divisione del lavoro, poiché la collaborazione stessa non è frutto di libera volontà ma è imposta dalle condizioni obiettive, appare a questi individui non come la loro propria forza associata, ma come una forza estranea che sta al di fuori di essi, di cui essi non sanno né donde venga né dove vada, che essi quindi non sono più in grado di dominare, ma che al contrario percorre ora una propria serie successiva di fasi e gradi di sviluppo, indipendente dal volere e dal corso degli uomini, anzi addirittura capace di dirigere questo volere e questo corso”. (M.E.G.A., I, 5, 23-24). “Anzitutto le forze produttive appaiono come assolutamente indipendenti ed avulse dagli individui, come un proprio mondo accanto agli individui, ciò che ha il suo fondamento nel fatto che gli individui, di cui essi sono le forze, sono isolati ed in reciproco contrasto, laddove queste forze dal canto loro sono forze reali solo nel mutuo rapporto e nella coesione di questi individui. Da un lato quindi una totalità di forze produttive ché hanno assunto, per così dire, un aspetto obiettivo, e per gli individui stessi non sono più le forze degli individui, ma della proprietà privata, e quindi degli individui solo in quanto essi sono proprietari privati”. (M.E.G.A., I, 5, 56-57) Le condizioni del libero sviluppo e movimento degli individui “erano sinora lasciate al caso, e si rendevano autonome contro i singoli individui proprio a cagione della loro separazione come individui e della loro unione forzata, che era data con la divisione del lavoro e divenuta per la loro separazione un vincolo ad essi estraneo […] Nell’ambito di queste condizioni poi gli individui potevano fruire del caso. Questo diritto di poter fruire indisturbati del caso, nell’ambito di certe condizioni, veniva sinora chiamato libertà personale”. (M.E.G.A., I, 5, 64) “La concorrenza e la lotta degli individui fra di loro produce e sviluppa questo ‘caso’ come tale. Nella rappresentazione quindi gli individui sotto il dominio della borghesia sono più liberi di prima, perché le loro condizioni di esistenza sono per essi accidentali, ma in realtà essi sono meno liberi, perché più sottomessi ad una forza obiettiva”. (M.E.G.A., I, 5, 66)

***

Tutt’altra è la visione dell’uomo socialista. Già nella critica di Marx ai principi borghesi c’è in nuce quella che sarà poi l’esperienza viva del movimento operaio. Non esiste l’uomo singolo, separato dagli altri uomini, chiuso nell’isolamento del suo egoismo come un dato che precede la società, e che debba poi rinunciare ad una parte della sua libertà per entrare nella società secondo le fantasie settecentesche; e non esiste la società come un’entità astratta che trascenda gli individui singoli e li schiacci. L’uomo esiste solo come uomo sociale, come uomo cioè legato da infiniti rapporti ad altri uomini, e la società è l’insieme di questa rapporti[1]. I quali rapporti sono alla lor volta il risultato dell’attività umana, risultato dell’attività che ci ha preceduti e che si pone, sì, come limite ma anche come condizione e stimolo al nostro operare, per cui l’uomo, modificando se stesso, modifica anche il complesso dei rapporti che lo legano agli altri uomini e quindi anche la società, e reciprocamente la società, modificandosi sotto i molteplici impulsi degli uomini, modifica gli uomini stessi. La storia umana, i rapporti umani che si sono formati fra gli uomini, gli istituti, le abitudini, la ricchezza, la tecnica, la religione, la vita spirituale, tutto ciò che è accaduto e che accade nel mondo insomma, è quindi in definitiva il risultato del lavoro e della produzione collettiva, ed ogni generazione trasmette alla successiva in un’ininterrotta continuità storica di patrimonio da essa ereditato, trasformato e prodotto (si tratti di beni esteriori, come strumenti di lavoro, ricchezze, ecc. o di qualità interiori come abitudini, tradizioni, patrimonio scientifico e culturale), sia in ciò che esso ha di valore positivo (ricchezze materiali e spirituali) che va conservato e arricchito, sia in ciò che ha di negativo (rapporti di produzione superati, tradizioni morte, ecc.) che va abbattuto e distrutto[2].

È chiaro che per una visione di questa natura non vi sono né forze misteriose ne leggi eterne che dominano l’individuo: tutto ciò che è nella società è prodotto degli uomini, e la collettività è l’artefice dei propri destini. Se perciò vi sono nel mondo borghese di oggi dei fatti che sfuggono al controllo degli uomini, se sussistono dei rapporti inesplicati o delle forze che appaiono misteriose, se il prodotto dell’attività degli uomini si presenta talora addirittura come un feticcio che nasconde dietro di sé la realtà vera dei rapporti sociali, e a un certo momento schiaccia, attraverso guerre o crisi, la società che lo ha prodotto, ciò è possibile soltanto per le contraddizioni della presente struttura sociale che, spezzando il legame di solidarietà dei membri della società e riducendoli alla condizione di individui isolati, fa sì che il risultato ultimo dei loro sforzi contrastanti o anche semplicemente divergenti sfugga alla previsione cosciente della collettività e appaia come un mistero alla coscienza mistificata.

Ma per chi abbia superata questa concezione e si ponga sul terreno della “socialità” e quindi senta la società non come un fatto esterno e trascendente, ma come la condizione stessa del suo essere, come un fatto quindi della sua coscienza stessa di uomo sociale, il mistero si svela e cessa la condizione dell’uomo che contempla la sua propria opera senza riconoscerla come propria e magari l’adora come un essere trascendente, cessa cioè l’alienazione dell’uomo. L’umanità percorre così anche rispetto alla società il ciclo che ha compiuto rispetto alla natura: si è sentita prima tutt’uno con essa, poi ha avvertito la propria soggettività ma senza riuscire a sentire la propria unità con l’oggetto, con la natura, rimasta “misteriosa” e perciò divinizzata. e adorata, fino a quando l’umanità stessa è venuta scoprendo le leggi della natura e, perciò comprendendola razionalmente e padroneggiando le forze naturali. Così di fronte alla società l’uomo ha sentito prima il suo io confuso con quello della sua tribù o del suo villaggio; poi si è affermato come essere distinto e addirittura opposto (individuo contro la società) fino a che la società e le forze sociali gli sono apparse come un mistero inesplicato, capace di dominarlo e perciò anche suscettibile di alimentare la sua fede religiosa; ma quando nella sua visione di “uomo sociale” egli sente la sua unità con la società, l’uomo pone finalmente le fondamenta della sua vera libertà, di un essere cioè che partecipa coscientemente alla costruzione dell’avvenire comune, membro cioè di una collettività che è artefice cosciente dei propri destini, autrice della propria storia.

***

Una concezione così profondamente rivoluzionaria dell’uomo e della condizione umana non poteva essere frutto che di una profonda rivoluzione sociale. Solo una classe nuova, la classe operaia, poteva essere portatrice di questi nuovi valori. La classe operaia infatti non è legata né alle vecchie civiltà agrarie, soffocatrici della personalità, né alle civiltà mercantili e del denaro, ispiratrici di egoistico individualismo. Essa riunisce nella vita della fabbrica, le profonde esigenze di unità e solidarietà delle civiltà statiche a base immobiliare, e la vitalità e ricchezza personale delle moderne civiltà dinamiche, che trovano anzi nella macchina la loro più alta espressione. Perciò i valori collettivi che si sprigionano da questa esperienza non rappresentano un ritorno a forme primitive, non vanno a detrimento dei valori personali; al contrario la persona, non più legata alle vicende individuali mercantili o artigiane, si fa centro e nodo di rapporti sociali, e perciò sintesi viva di individualità e collettività. Basta considerare anche sommariamente l’esperienza di vita della fabbrica per capire questo nuovo processo formativo che solo al proletariato è stato possibile.

Innanzi tutto la fabbrica è esperienza di vita collettiva. Mentre per l’impiegato, il professionista, l’esercente, il funzionario, che pur essi vivono oppressi dallo sfruttamento e sovente dalla miseria, il problema della propria emancipazione è visto quasi d’istinto come un problema individuale (l’impiegato o il funzionario cercheranno di sfuggire all’oppressione e alla miseria soprattutto attraverso la carriera, il professionista attraverso il successo personale e il miglioramento della clientela, l’esercente attraverso la buona riuscita dei suoi affari, ecc.), per cui sovente si realizza il “mors tua vita mea”, che è un’espressione dell’egoismo borghese; l’operaio invece sa che, salvo rarissimi casi, non esiste un problema, non dico di emancipazione, ma neppure di serio miglioramento individuale: la sua esperienza è un’esperienza di lotta in comune di migliaia e migliaia di compagni di lavoro posti a vivere nelle medesime condizioni, di fronte agli stessi problemi, oppressi dallo stesso padrone, e che solo da una comune vittoria possono attendere un’emancipazione reale. Donde una naturale solidarietà e una più facile vittoria sull’egoismo, che ha trovato la sua espressione quando le prime società operaie scrissero sulla loro bandiera la formula della solidarietà operaia “Uno per tutti, tutti per uno”, contrapposta alla vecchia formula dell’egoismo borghese “Ciascuno per sé e Dio per tutti”.

Ma vi è anche un altro aspetto meno appariscente e più profondo del legame che unisce l’operaio ai suoi compagni di lavoro e fa maturare una nuova concezione dell’uomo. Io lo riprendo in questa sede con le parole stesse con cui mi espressi in un discorso ai giovani del marzo 1948: “La nostra concezione della libertà, la nostra concezione dell’individuo, della persona umana, nasce invece dall’esperienza di vita della grande fabbrica, dall’esperienza della divisione del lavoro collettivo, per cui un determinato prodotto, una determinata macchina esce dalla fabbrica grazie al contributo di lavoro solidale di tutti gli operai della fabbrica. E come ciascun operaio sa che il pezzo che egli produce la vite, il bullone, la molla, un ingranaggio qualsiasi che sia frutto del suo lavoro, non serve a nulla da solo, non ha nessun valore in se stesso, isolatamente, ma acquista valore in quanto faccia parte del complesso unitario ed organico della macchina, come ciascun operaio sa che il suo lavoro diventa qualche cosa di efficace o di utile, in quanto sia unito al lavoro degli altri, e col lavoro degli altri esca dalla fabbrica armonicamente completo, allo stesso modo l’uomo moderno acquista coscienza del valore della propria vita, della propria personalità, in quanto entri in rapporto con altri uomini, e si integri con essi in un’organica unità. [...] Un pezzo della macchina, preso isolatamente, non ha alcun valore sociale, ma si integra con altri formando un tutto organico; la macchina è precisamente questo tutto organico, non una semplice somma aritmetica di pezzi uguali e staccati. Così l’uno non è un individuo isolato né la società è una pura somma di individui; la società è un complesso organico, e ogni uomo vive in quanto è membro di questa società. Ecco perché le nozioni di personalità e di libertà, come noi le intendiamo, non si riferiscono a un individuo, contrapposto alla società e allo stato, bensì all’individuo in quanto membro della società. Il che è quanto dire che ogni uomo si potenzia, rafforza la sua personalità, sviluppa la sua libertà nell’atto stesso di potenziare la società. Ogni uomo si viene qualificando non nel chiuso del proprio egoismo, ma nei rapporti con gli altri uomini, acquista coscienza di se stesso in quanto è a contatto con gli altri e contribuisce a far acquistare agli altri coscienza del proprio valore. [...] Vi è insomma in ciascuno di noi la presenza costante di tutta la società attraverso la catena di tutti gli umani rapporti; la presenza di tutta la storia attraverso i legami con le generazioni che ci hanno preceduto è con quelle che ci seguiranno, vive in ciascuno di noi il senso della collettività, il senso dell’universalità”.

***

L’essenza del conflitto ideologico che divide il mondo è racchiusa in queste due contrastanti visioni del mondo. Da un lato la visione del mondo capitalista che tende a ricacciare l’uomo verso la barbarie del suo egoismo, facendo centro della vita sociale l’individuo a cui sarebbero riservate nel mondo occidentale illimitate possibilità; che nel cinematografo, nel romanzo, nei giornali a fumetti, nei condensati di stupidità che sono i “Reader’s Digest” e simili, fa balenare queste possibilità come se fossero realmente in atto per tutti, mostra cioè le apparenze esterne di questo mondo per far dimenticare il grigiore vero di una vita uniforme e vuota; che nello sforzo di disgregare ogni rapporto di solidarietà sociale, ogni vincolo umano che rompa la catena dell’egoismo, non si limita più a combattere la coscienza di classe dei ceti oppressi, ma ormai anche la coscienza nazionale, sostituendovi un generico e retorico “cosmopolitismo”, mirando così a svuotare l’uomo di ogni suo contenuto umano, a farne un automa mosso soltanto dalla molla dell’egoismo, con apparenti possibilità illimitate, ma in realtà diretto esclusivamente verso gli obiettivi che gli sono assegnati dalla sola forza reale di questo mondo capitalistico, che è la potenza dei monopoli. Una massa sterminata di individui, chiusi e ostili gli uni agli altri, senza sostanziali legami fra di loro e perciò spogli di ogni connotato personale, fatti eguali gli uni agli altri proprio grazie a questa soppressione di ogni personalità, quindi incapaci di capire e tanto meno di dominare le leggi e le forze sociali da cui è retta la società presente; una massa sterminata di automi manovrata dall’invisibile e inaccessibile potenza del capitalismo monopolistico, cui è riservato invece ogni reale potere: questo è l’ideale della “democrazia” e della “libertà” occidentali, tutt’al più, come si è visto, con il correttivo della consolazione religiosa o della disperazione della “evasione” del mondo.

Dall’altro lato la visione di una società solidale, in cui non v’è altra realtà all’infuori di quella degli uomini associati, ciascuno dei quali è membro della collettività e concorre con tutti gli altri a forzare la volontà collettiva che, poggiando su interessi solidali, non è lacerata da interne contraddizioni. La libertà di questi uomini, così associati non consiste quindi nell’isolarsi, nel rinchiudersi, nel perseguire una propria sfera di attività preclusa ad ogni altro ma al contrario nella loro partecipazione cosciente all’elaborazione degli scopi comuni e all’apprestamento dei mezzi comuni in vista di questi scopi. La grande superiorità di questa società solidale è che i risultati dell’attività collettiva non nascono da un conflitto di molte volontà divergenti o contrastanti, ma dall’armonia di sforzi concordi sono perciò risultati prevedibili, che possono essere tempestivamente studiati e preparati e non si abbattono mai inopinatamente sull’umanità con la apparenza di forze cieche o come manifestazioni di leggi eterne. La pianificazione cosciente degli scopi collettivi, cioè una comune volontà armata di previsione, è quindi la reale espressione dell’umana libertà in questa società solidale che è la società socialista.

Ciò implica naturalmente la necessità per gli individui di coordinare le proprie attività alle esigenze di questa comune volontà armata di previsione, ed è questo che il mondo occidentale presenta come una “menomazione della libertà” o una “limitazione dei diritti individuali”. Marx e Engels avevano già dato in anticipo risposta a queste critiche. Engels in modo particolare nell’Antidühring: “Hegel fu il primo che espose esattamente il rapporto fra libertà e necessità. ‘La necessità è cieca solo in quanto non è compresa.’ Non nella immaginaria indipendenza dalle leggi naturali risiede la libertà, ma nella conoscenza di queste leggi e nella possibilità con ciò avuta di farle operare secondo un piano per determinati scopi. Questo vale tanto riguardo alle leggi della natura esteriore, quanto riguardo a quelle che regolano la stessa esistenza fisica e spirituale dell’uomo, due classi di leggi che noi possiamo tutt’al più separare l’una dall’altra nell’immaginazione, ma non nella realtà. Libertà di volere non significa quindi altro che la capacità di potersi determinare con cognizione di causa. Quindi quanto più è libero il giudizio di un uomo rispetto ad una determinata questione, con tanto maggiore necessità sarà determinato il contenuto di questo giudizio; mentre l’incertezza fondata sull’ignoranza, l’incertezza che fa un’apparente scelta arbitraria fra molte e diverse possibilità di determinazione, dimostra appunto con ciò la sua mancanza di libertà, la sua sottomissione all’oggetto che essa invece dovrebbe dominare”. (ediz. Mongini, p. 96-7)

Alla stregua di questi principi, ci è facile vedere, quale sia il reale significato della libertà umana che si realizza nella società socialista in contrapposto alla falsa libertà del mondo borghese. Così come nella sfera dei rapporti con il mondo della natura noi ci atteniamo senza difficoltà all’insegnamento di Bacone che “non si comanda alla natura se non obbedendole”, cioè conoscendone e rispettandone le leggi, e perciò non riterremo certo più libero un uomo che, ignorando la legge di gravità, si abbandonasse nel vuoto e si sfracellasse al suolo piuttosto che l’uomo normale che conosce e rispetta la legge di gravità, oppure un uomo che ignorando le leggi del nuoto si buttasse in mare con le tasche piene di ferro e affogasse, anziché l’uomo normale che per nuotare si mette in condizione di essere più leggero dell’acqua; allo stesso modo, nella sfera dei rapporti sociali, noi non possiamo considerare più liberò l’uomo che vive in una società di cui non conosce le leggi e si comporta secondo il proprio egoismo, salvo poi, essere schiacciato dagli avvenimenti che sono il prodotto dell’attività degli uomini, ma un prodotto “oscuro” e “misterioso”, piuttosto che l’uomo che vive in una società pianificata, in una società cioè in cui la volontà umana domina i propri prodotti ed è in grado di formulare previsioni e programmi di interesse comune, ma nella quale l’uomo, anziché abbandonarsi ad una scelta arbitraria, regola la propria attività in armonia con la volontà collettiva, alla cui formazione egli partecipa e i cui risultati rappresentano non l’espressione di un meschino calcolo egoistico ma il raggiungimento di fini solidali in una società solidale. Marx ha esposto più volte, e con grande chiarezza, questo medesimo concetto. Nella Questione degli Ebrei, ha scritto: “Solo se il reale uomo individuale riassume in sé l’astratto cittadino e come uomo individuale nella sua vita empirica, nel suo lavoro individuale, nei suoi rapporti individuali, è diventato ‘essere umano generico’, solo se l’uomo ha riconosciuto e organizzato le sue forces propres come forze sociali e quindi non separa più da sé la forza sociale nella figura della forza politica, solo allora l’emancipazione umana è compiutamente realizzata”. (M.E.G.A., I, 1, 599) E nel I Libro del Capitale: “La vita sociale, di cui la produzione materiale ed i rapporti che questa implica formano la base, non strapperà il mistico velo di nebbia che ne cela l’aspetto, se non nel giorno in cui vi si manifesterà l’opera di uomini liberamente associati, agenti consapevolmente in conformità a un piano determinato e padroni del loro proprio movimento sociale. Ma ciò richiede, nella società un insieme di condizioni di esistenza materiale, che alla loro volta non possono essere che il prodotto di un lungo e doloroso sviluppo storico”. (Das Kapital, Hamburg 1872, pag. 57)

***

È chiaro pertanto che nella misura in cui la classe operaia viene costruendo la nuova società socialista, essa crea altresì una nuova coscienza umana, un tipo nuovo di uomo. Se, come abbiam visto, la classe operaia, già nel corso della lotta ch’essa conduce contro la dominazione di classe borghese e per la propria emancipazione, viene elaborando questo nuovo contenuto di coscienza, tuttavia una radicale trasformazione non è evidentemente possibile se non dopo la rivoluzione vittoriosa e dopo che si siano saldamente costituiti i nuovi rapporti sociali di una società socialista. Lenin e Stalin, sulle orme stesse di Marte, hanno posto l’accento sul fatto che il compito più importante, la meta principale della rivoluzione proletaria è appunto la conquista di questo più alto livello di umanità. Ma appunto perciò è il compito più arduo, in quanto si tratta di distruggere tradizioni millenarie che sono profondamente ancorate nell’uomo che vive oggi nel mondo borghese. Scrive Lenin a questo riguardo: “Il lavoratore non è stato mai diviso dalla vecchia società da una muraglia cinese. In lui si sono conservate molte tradizioni psicologiche della società capitalista. Gli operai potranno costruire una nuova società, ma se non trasformeranno gli uomini in nuovi individui che siano puri dal fango del vecchio mondo, rimarranno ancora inginocchiati in quel fango. [...] Sarebbe utopistico pensare che ciò si possa fare immediatamente. Ciò sarebbe un’utopia che in pratica allontanerebbe nei cieli il regno del socialismo”.

La lotta per liberarsi da questo fango, dai detriti e sedimenti della vecchia cultura borghese, è una lotta che ogni militante deve impegnare a fondo con se stesso, e che dura anche al di là della rivoluzione vittoriosa, come dura tuttora nell’Unione Sovietica. Tuttavia i dirigenti dell’Unione Sovietica sanno che la liberazione dell’uomo dai residui del vecchio mondo e la formazione dell’uomo nuovo sono compiti essenziali della rivoluzione, e vi sono a fondo impegnati. Definendo gli scrittori come “ingegneri dell’anima”, non ha inteso Stalin appunto indicare che la più nobile missione dello scrittore è quella di contribuire alla creazione dell’uomo nuovo? E del pari un grande artista del cinematografo, Pudovchin, ha scritto della sua arte: “L’ondata possente, del collettivismo agricolo impegnò milioni di uomini sulla via della cultura socialista. La trasformazione socialista della coscienza delle masse diventava l’oggetto più importante e più nobile dell’arte”. E in piena guerra mondiale, un uomo di teatro, Alessandro Tairov, così delineava i compiti del teatro sovietico: “L’uomo diventa sempre più il centro del nostro lavoro artistico, e la sostanza essenziale delle nostre ricerche, lo scopo delle nostre realizzazioni. [...] Ricercare senza posa i modi di incarnazione sempre nuovi, scoprire i tratti di cui l’epoca e il nuovo regime hanno arricchito l’uomo, opporre quest’uomo al falso uomo, alla bestia mascherata da uomo, e uccidere in questo modo la bestia”. E infine, in un messaggio dei cineasti sovietici del 1946 si legge: “Il cinema è ora al centro della lotta per la nascita dell’uomo nuovo”.

Quali sono i tratti fondamentali dell’uomo nuovo, così come viene formandosi nella società socialista? Essi risultano in gran parte da quanto abbiamo già detto, ma non è forse superfluo sintetizzarli. In primo luogo si sviluppa potentemente nell’uomo il senso della sua socialità, della sua partecipazione alla vita associata, alla vita collettiva; gli altri uomini non sono più considerati dall’uomo come un limite o un ostacolo, ma al contrario come una condizione per lo sviluppo della sua personalità. Ne deriva logicamente un profondo sentimento di solidarietà: “per la prima volta nella storia, scriveva Gorki nel 1934, il vero amore dell’uomo è organizzato come una forza creatrice e si pone come scopo l’emancipazione di milioni di lavoratoti”. Ma l’uomo che si sente così legato agli altri uomini e solidale con essi, non ha più bisogni di evasione da questo mondo; al contrario egli si sente sempre più “impegnato” nella costruzione del nuovo mondo. L’uomo cioè è sospinto a lavorare nell’interesse comune. Il lavoro non è più, per l’uomo sovietico, una catena, una pena, la maledizione che pesa sull’uomo dai tempi biblici, ma la manifestazione più importante della vita associata dell’uomo, cioè della sua personalità in quanto essere sociale. L’uomo sovietico sa che, non vi è più nessuno che possa appropriarsi del frutto del suo lavoro, il quale ora, unito a quello degli altri lavoratori, contribuisce a raggiungere i fini comuni, a garantire la prosperità comune, condizione del libero sviluppo di tutti e di ciascuno. L’emulazione socialista, lo stakanovismo sono espressioni tipiche di una società, in cui sono scomparsi gli Oblomov e gli altri uomini inutili cari alla vecchia letteratura russa presovietica, e in cui il lavoro è una manifestazione della gioia di vivere, “il primo bisogno dell’esistenza” secondo la definizione di Marx[3].

Ne deriva altresì uno straordinario affinamento del senso di responsabilità personale l’uomo che non lavora solo per sé, per il suo profitto, per il suo egoismo, ma che in ogni momento del suo lavoro si sente membro della collettività e quindi lavora ad un tempo per sé e per la collettività, lavora per il conseguimento del fine comune, nel quale s’inquadra anche il soddisfacimento delle sue particolari esigenze, non può non sentire che l’impegno, che egli ha verso la società di cui fa parte lo obbliga anche a rispondere verso la collettività di tutto il suo onerato, e soprattutto degli effetti buoni o cattivi, utili o dannosi, che questo suo operato produce rispetto al raggiungimento degli scopi che la collettività si propone. In altre parole poiché l’uomo non può più considerarsi isolato dall’ambiente in cui vive, e il suo agire non potendosi più concepire se non come un elemento dell’attività collettiva con cui deve essere armonicamente coordinato per il conseguimento del fine comune, ne consegue che gli errori e le deficienze di ciascuno si ripercuotono sull’opera di tutti. Sicché nessuno può più considerare questi suoi errori o queste sue deficienze come un fatto che riguardi soltanto lui stesso e che egli può rimediare per proprio conto, perché la società ne sopporta conseguenze dannose, anche se l’autore non le avesse volute. Ciò contribuisce ad accrescere da un lato l’importanza della funzione sociale di ciascun individuo e parallelamente ne accresce il senso di responsabilità: non a caso la parola “responsabile” è largamente usata nei partiti della classe operaia proprio per sottolineare questo particolare aspetto, che cioè ciascun militante deve rispondere al proprio partito o sindacato od organizzazione qualsivoglia del modo come egli ha adempiuto al compito che gli è stato affidato, nel quadro dell’attività complessiva dell’organizzazione di cui fa parte.

Crescendo l’importanza della funzione sociale di ciascun individuo, aumenta anche la dignità sociale di ciascuno. Ogni uomo, anche il più modesto, sa di adempiere ad un lavoro utile nel quadro dell’opera complessiva, sa di essere un elemento del grande lavoro comune che ferve nel paese del socialismo. Cessa così la netta separazione abituale, alla storiografia premarxista fra la massa amorfa, considerata soltanto oggetto di storia, egli uomini di stato, i condottieri, gli eroi, ch’erano considerati i protagonisti della storia. “Sono passati, dice Stalin, i tempi in cui i capi si consideravano come gli unici creatori della storia e gli operai e i contadini non venivano presi in considerazione. I destini dei popoli e degli stati non vengono decisi oggi soltanto dai capi, ma prima di tutto e soprattutto da masse di milioni di lavoratori. Gli operai e i contadini che costruiscono, senza chiasso e senza pose, officine e fabbriche, miniere e ferrovie, colcos e sovcos; che creano tutti i beni della vita, che nutrono e vestono il mondo intiero, ecco chi sono i veri eroi e creatori della nuova vita”.

Tutto ciò ha naturalmente come corollario che se la collettività vuole ottenere da ciascuno dei suoi membri il miglior contributo possibile per realizzare armonicamente l’opera collettiva, cioè il conseguimento dei fini comuni che la collettività si è proposta, essa deve porre ciascuno nelle migliori condizioni per lo svolgimento del compito che gli è assegnato e deve assegnare a ciascuno il compito che meglio risponda alle sue possibilità e capacità. Cioè, in tre parole la collettività deve tendere a sviluppare al massimo la personalità di ciascuno. Nulla è più lontano dallo spirito socialista che l’idea dell’astratta eguaglianza, di una società in cui tutti gli uomini siano livellati, grigi, uniformi, svuotati di ogni contenuto umano. Al contrario, la società socialista e una società che permette a ciascuno di essere veramente se stesso, con le sue caratteristiche personali, una società che sviluppa anzi le disuguaglianze fra uomo e uomo, non nel senso di aumentare le distanze quantitative, ma nel senso di mettere ciascuno in condizione di sviluppare le possibilità infinitamente ricche che sono racchiuse in ogni uomo, una società che non si contrappone più ai suoi membri e che non pone l’accento sul collettivo a detrimento dell’individuale, ma che considera ogni uomo come un collaboratore dell’opera comune e ne stimola pertanto la capacità personale e lo spirito di iniziativa, una società insomma che si sente più ricca anche spiritualmente quanto più ricca è la personalità di ciascuno. È chiaro che questo è possibile solo perché la società socialista ha distrutto l’oppressione di classe e ha creato un vincolo solidale fra i suoi membri, perché ha riconosciuto il carattere sociale, cioè adeguando le forme della società alle forze che in essa si esprimono, perché di conseguenza essa non ha più bisogno di una apparenza giuridico-formale nella quale dissolvere le contraddizioni del mondo reale che essa ha invece risolto e soppresso fin dalle loro fondamenta, l’esistenza di classi antagonistiche. E questo ci spiega perché la Costituzione Sovietica non si limita a proclamare semplicemente dei diritti di libertà e di sicurezza, validi solo nella sfera giuridico-formale, ma si preoccupa di garantire l’effettivo esercizio di ogni diritto, che deve trovare il suo fondamento nella struttura sociale del paese[4].

E correlativamente, come la collettività si identifica con i suoi membri, così ciascuno di essi si sente veramente partecipe della vita collettiva, partecipe sia delle decisioni comuni che del lavoro comune per realizzare queste decisioni. Il senso vero e profondo della democrazia socialista sta in questa partecipazione di ciascuno alla soluzione di tutti i problemi che interessano la collettività di cui fa parte il suo comune, la sua azienda, la sua associazione sportiva o culturale o di lavoro, la sua regione, il suo stato, ecc.: questa partecipazione reale e costante di ciascuno realizza una vita democratica e una coscienza della libertà di tutti infinitamente più ricche di quelle delle cosiddette democrazie borghesi, ove la partecipazione del singolo all’esercizio della sovranità popolare e alla soluzione dei problemi collettivi si esaurisce nel momento del voto, in un atto cioè isolato dal complesso della vita sociale, e che diventa quindi una finzione, perché da un lato i cittadini non sono posti neppure in grado di conoscere realmente i problemi fondamentali della vita nazionale, e perché dall’altro, i massimi problemi sono risolti fra un voto e l’altro dai dominatori effettivi della vita nazionale, i gruppi economicamente dominanti, senza che nessuno degli interessati possa esercitare un reale controllo.

Questa partecipazione di ciascuno alla vita collettiva, e cioè sia alla elaborazione, che alla realizzazione dei piani comuni, dà a ciascuno finalmente la coscienza della “umanità” e “storicità” delle forze sociali che operano e delle circostanze in cui egli vive, toglie ad esse il carattere di provvidenza, di destino o di forze cieche, distrugge il valore dei feticci e il senso di mistero che li circonda, e fa così per la prima volta degli uomini non una massa di esseri slegati e dominati dalle proprie opere collettive, bensì una collettività organizzata, artefice cosciente della propria storia: una storia finalmente “laicizzata”.

Qui tocchiamo veramente il fondo del contrasto fra le due società. Come abbiamo già più volte rilevato nel corso della nostra esposizione, il mondo occidentale ci offre oggi lo spettacolo di una società in cui l’immensa maggioranza degli uomini non ha alcuna reale libertà perché non ha alcuna reale ingerenza nella vita politica, né alcuna possibilità di partecipare coscientemente alla creazione del proprio avvenire, e la cui sorte dipende, in definitiva da forze sociali che sfuggono al suo controllo, ma ha invece l’illusione di questa libertà perché a ciascuno è riservata, nella sfera delle cose contingenti, una piccola zona di attività abbandonata al suo arbitrio, uomini cioè ridotti in condizione di effettiva servitù, in gran parte senza neppure saperlo, vittime di una coscienza mistificata; la società socialista per contro, essendo fondata su una solidarietà di interessi, realizza insieme il massimo sviluppo della personalità di ciascuno e il massimo contributo di ciascuno alla collettività, il massimo di libertà personale, cioè di partecipazione alla volontà e alla vita collettiva, e il massimo di pianificazione, cioè di conoscenza delle leggi sociali e di previsione del futuro.

Nell’Armée Nouvelle, così Jaurès ci descrive, nel suo stile immaginoso, gli uomini che vivono in questo mondo borghese, schiavi senza saperlo: “Mi ricordo che una trentina di anni fa, arrivato giovanissimo a Parigi, fui preso, una sera d’inverno, nella città immensa, da una specie di spavento sociale. Mi sembrava che le migliaia e migliaia di uomini che passavano senza conoscersi, folla innumerevole di fantasmi solitari, fossero sciolti da ogni legame. E mi domandavo con una specie di terrore impersonale come tutti questi esseri accettassero l’ineguale ripartizione dei beni e dei mali, come l’enorme struttura sociale non cadesse in dissoluzione. Io non vedevo in loro catene né alle mani né ai piedi e mi dicevo per quale prodigio queste migliaia di individui sofferenti e spogliati subiscono tutto ciò che accade? Io non vedevo bene: la catena era al cuore, ma una catena di cui il cuore stesso non sentiva il fardello; il pensiero era legato, ma d’un legame ch’esso stesso non conosceva”.(Ediz. Riedez, p. 305)

È forse l’umiliazione maggiore inflitta alla condizione umana questa, di avere fatto degli schiavi contenti, ignari delle catene che portano nel cuore e nella mente. E giustamente Marx ha ammonito fin dai suoi scritti giovanili che compito nostro è appunto quello di rendere più oppressiva l’oppressione reale aggiungendovi la coscienza dell’oppressione, di far sentire cioè all’uomo le catene invisibili che gli legano il cuore e la mente perché egli possa meglio sentire le catene che avvincono anche la sua vita materiale, e si assuma così coscientemente il compito di realizzare non soltanto l’ingannevole emancipazione politica ma la reale emancipazione umana, che è il fine più alto della rivoluzione socialista. È in questo senso che Engels parla dell’avvento del socialismo come del “salto dal regno della necessità al regno della libertà”, intendendo per regno della necessità quello in cui l’uomo non riesce a padroneggiare le forze sociali stesse che sono da lui create, e per regno della libertà quello in cui la volontà degli uomini fatti solidali fra loro si arma di previsione e si fa capace di dirigere queste stesse forze sociali verso scopi preordinati in comune[5].

La rivoluzione borghese, ci dice Marx nel Manifesto, ha il grande merito storico di avere liberato delle forze immense che giacevano nascoste nel grembo della natura; la rivoluzione socialista ha quello infinitamente più grande di liberare delle forze immense che erano fino ad oggi prigioniere nel seno stesso dell’umanità.



[1] “Individui che producono in società, perciò la produzione socialmente determinata degli individui è naturalmente il punto di partenza. Il singolo ed isolato cacciatore e pescatore, con cui iniziano Smith e Ricardo, appartiene alle immagini prive di fantasia delle ‘Robinsonate’ del 18° secolo, che non esprimono affatto, come immaginano gli storici della cultura, solo una reazione contro le eccessive raffinatezze e un ritorno ad una malintesa vita naturale. Come altrettanto poco riposa su questo naturalismo il contrat social di Rousseau che mette contrattualmente in rapporto soggetti indipendenti per natura. Ciò non è che l’apparenza e solo l’apparenza estetica di piccole e grandi Robinsonate. È piuttosto il preannuncio della ‘Società borghese’ che si preparava fin dal 16° secolo e nel 18° faceva passi da gigante verso la sua maturazione. In questa società della libera concorrenza il singolo appare svincolato dai legami naturali ecc., che nelle precedenti epoche storiche fanno di lui un componente di un determinato e ben delimitato conglomerato umano. Ai profeti del 18° secolo, sulle cui spalle poggiano ancora completamente Smith e Ricardo, questo individuo del 18° secolo - il prodotto da un lato della dissoluzione delle forme della società feudale e dall’altra il prodotto delle forze produttive nuove, formatesi fin dal 16° secolo - appare quale ideale, la cui esistenza appartiene al passato. Non quale un risultato storico, ma quale punto di partenza della storia. Pertanto come individuo allo stato di natura, in conformità alla loro rappresentazione della natura umana, non come uno (individuo) nato storicamente, ma posto dalla natura. Questo equivoco è stato finora proprio ad ogni nuova epoca. Steuart, che per qualche aspetto in opposizione al 18° secolo e come aristocratico rimane in misura maggiore sul terreno storico, ha evitato queste ingenuità.

Quanto più profondamente risaliamo nella storia, tanto più l’individuo, quindi anche l’individuo che produce appare come individuo non-indipendente, appartenente ad un insieme maggiore dapprima in modo del tutto conforme alla natura, alla famiglia e alla famiglia allargata a tribù; in seguito nelle comunità risultanti sotto forma diverse dall’antagonismo e, dalla fusione delle tribù. Soltanto nel 18° secolo, nella società borghese le varie forme di unione sociale si presentano al singolo come un semplice mezzo per i suoi scopi privati, come necessità esterna. Ma l’epoca che dà vita a tale punto di vista, quello dell’individuo isolato, è proprio quella dei rapporti sociali sino ad oggi i più sviluppati (generali da questo punto di vista). L’uomo è nel senso più letterale, uno ‘zoon politicòn’, non solo un animale sociale, ma un animale che solo nella società può esistere come singolo. La produzione del singolo isolato fuori della società - un caso raro che può capitare ad un uomo civile disperso per caso in zone selvagge, il quale già possiede in se la dinamica delle forze sociali - è un non senso come lo sviluppo di una lingua senza individui che vivano e parlino assieme. Non è il caso di soffermarsi più a lungo su questo punto”.

(MARX: Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie [Rohentwurf, 1857-1858], Moskau 1939, vol. I, pp. 5-6). Si tratta di una Critica dell’Economia Politica, preparata da Marx negli anni: 1857-1858, e  rimasta incompiuta. L’introduzione, da cui è estratto il brano da noi citato, e dei saggi su Bastiat e  Carey furono pubblicati sulla Neue Zeit dopo la morte di Engels, e successivamente più volte riprodotti, ma sempre in forma scorretta. La prima edizione integrale del manoscritto lasciato da Marx è quella appunto curata a Mosca in due volumi i cui mi sono valso.

[2] Nella storia “si raggiunge ad ogni stadio un risultato materiale, una somma di forze produttive, un rapporto storicamente formatosi rispetto alla natura e degli individui fra di loro, che viene trasmesso ad ogni generazione dalla precedente, una massa di forze produttive, di capitali e di situazioni, che da un lato viene modificato dalla nuova generazione, ma dall’altro lato le prescrive le sue proprie condizioni di vita e le dà un determinato sviluppo, uno speciale carattere. Pertanto le circostanze fanno gli uomini altrettanto quanto gli uomini fanno le circostanze. Questa somma di forze produttive, capitali e forme sociali di scambio, che ogni individuo ed ogni generazione trovano come qualche cosa di dato, è il reale fondamento di quello che i filosofi si rappresentano come ‘sostanza’ ed ‘essenza’ dell’uomo”. (MARX: Deutsche ideologie,. M.E.G.A., p. 27-28).

“La storia non è che la successione delle singole generazioni, ciascuna delle quali sfrutta i materiali, i capitali,  le forze produttive, trasmesse ad essa da tutte, le precedenti, e quindi essa da un lato prosegue in circostanze affatto mutate l’attività precedente e dall’altro lato modifica le precedenti circostanze con un’attività del tutto diversa”. (ibid., p. 34).

[3] “La seconda fonte del movimento stakhanovista è che nel nostro paese non esiste sfruttamento. La gente non lavora, da noi, per gli sfruttatori, né per l’arricchimento dei parassiti, ma per sé, per la propria società, per la società sovietica, in cui sono al potere i migliori uomini della classe operaia. È per questo che il lavoro ha per noi un’importanza sociale, è oggetto di onore e di gloria. Sotto il capitalismo il lavoro ha carattere privato, personale. Se hai prodotto di più, ricevi di più e vivi per conto tuo, come puoi. Nessuno ti conosce né vuole conoscerti. Lavori per i capitalisti, li arricchisci? E come potrebbe essere diversamente? Ti si è arruolato appunto perchè tu arricchisca gli sfruttatori. Se non sei d’accordo, va nelle file dei disoccupati e vegeta come puoi: ne troveremo degli altri, più trattabili. È chiaro che in simili condizioni non vi può esser posto per un movimento stakhanovista. Le cose vanno ben diversamente in regime sovietico. Qui l’uomo del lavoro è al posto d’onore. Qui egli non lavora per gli sfruttatori, ma per sé, per la sua classe, per la società. Qui l’uomo del lavoro non può sentirsi abbandonato a solo. Al contrario, l’uomo del lavoro, da noi, si sente libero cittadino del suo paese, come fosse un uomo pubblico. E se lavora bene e dà alla società ciò che può dare, è un eroe del lavoro ed è circondato di gloria. È chiaro che soltanto in simili condizioni poteva nascere un movimento stakhanovista”. (STALIN: Questioni del Leninismo, Roma, 1945, vol. II, pp. 230-1)

[4] Giustamente gli scrittori marxisti hanno sempre insistito con molta fermezza su questo aspetto dei rapporti fra individuo e collettività nella società socialista contro tutte le accuse di livellamento fatte dai critici borghesi, e hanno sempre posto l’accento sul fatto che la società socialista è al contrario la sola che possa consentire il massimo sviluppo della personalità umana.

“Rendendosi la società padrona di tutti i mezzi di produzione per impiegarli sistematicamente secondo un piano sociale prestabilito, distrugge l’odierno asservimento degli uomini ai propri mezzi di produzione. S’intende che la società non può emanciparsi senza che ogni individuo non sia emancipato. L’antico modo di produzione deve quindi essere capovolto dalle fondamenta e specialmente l’antica divisione del lavoro deve scomparire. Al suo posto deve subentrare un’organizzazione della produzione in cui da un lato nessun individuo possa riversare su di un altro la sua partecipazione al lavoro produttivo - questa condizione naturale dell’esistenza umana - e dall’altra il lavoro produttivo, invece di essere un mezzo di schiavitù diventi un mezzo per l’emancipazione dell’uomo, in quanto esso offre a ciascun individuo l’opportunità di sviluppare ed esercitare in ogni senso tutte le proprie attitudini fisiche ed intellettuali, un’organizzazione in cui il lavoro dall’essere un peso diventi un piacere”. (ENGELS: Antidühring, Roma, 1911, pp. 250-1).

Questa gente, evidentemente pensa che il socialismo esiga il livellamento, l’egualitarismo, il pareggiamento dei bisogni e della vita personale dei membri della società. Non vale la pena di dire che una simile concezione non ha nulla di comune col marxismo, col leninismo. Per eguaglianza, il marxismo intende non già il livellamento nel campo dei bisogni personali e delle condizioni di vita, ma la distruzione delle classi. [...] Il marxismo parte dal presupposto che i gusti e i bisogni degli uomini, sia nel periodo del socialismo che nel periodo del comunismo, non sono e non possono essere pari e identici né per qualità né per quantità. Questa è la concezione marxista dell’eguaglianza. Il marxismo non ha mai riconosciuto e non riconosce nessun’altra eguaglianza. Tirarne la conclusione che il socialismo esige l’egualitarismo, il livellamento, il pareggiamento dei bisogni dei membri della società, il livellamento dei loro gusti della loro vita personale, tirarne la conclusione che secondo i marxisti tutti devono vestirsi allo stesso modo e mangiare lo stesso cibo e nella stessa quantità, significherebbe dire delle cose scipite e calunniare il marxismo. È ora di comprendere che il marxismo è nemico dell’egualitarismo”. (STALiN: Questioni del Leninismo, Roma, 1945, vol. II, pp. 196-7).

“L’eguaglianza fra gli uomini non è di essere tutti simili. Al contrario. L’eguaglianza per tutti gli uomini è di avere ciascuno a propria disposizione tutte le cose che essi possono desiderare per svilupparsi. Ciascuno ne profitterà secondo la sua propria misura. L’eguaglianza sarà realizzata il giorno in cui nessuno sarà più limitato nei suoi bisogni di espansione. Quel giorno, con l’eguaglianza, vi sarà del pari la libertà, poiché ciascuno, sarà invitato ad essere liberamente tutto ciò che vuole, tutto ciò che può essere[...] La soppressione delle classi è la prima tappa da percorrere; compiuta questa tappa, tutte le altre potranno essere progressivamente raggiunte, col progredire delle trasformazioni che l’uomo stesso subirà per effetto delle condizioni nuove in cui vivrà. Marx riconosce che l’uomo, all’uscire dalla società capitalistica, resterà con tutte le tare morali e fisiologiche che gli vengono dal capitalismo. Ma abolite le classi, e molto rapidamente la natura dell’uomo potrà migliorarsi, egli potrà elevarsi ad una concezione superiore della vita. Egli si sentirà divenuto individuo sociale, l’individuo non essendo più opposto alla società, l’individuo potendo svilupparsi pienamente anche in comunione profonda con la società tutta intiera”. (WALLON: L’individu et la société, pp. 79-80).

In uno studio recente su “La vittoria della rivoluzione sovietica e l’educazione del nuovo uomo sovietico”, M. RoSENTHAL ci dice come la rivoluzione sovietica stia appunto raggiungendo questi risultati. “L’uomo sovietico”, egli scrive, può dire parafrasando Marx: ‘io sono quello che sono individualmente per ciò che liberamente faccio. Se io ho attitudini musicali, la società sovietica mi dà la possibilità di svilupparle liberamente, se io con la mia individualità posso diventare uno studioso, nessuna forza può vietarmi di raggiungere questo fine. Nella mia vita il ruolo principale è tenuto dalla mia individualità, dalla mia attitudine nella collettività sovietica, dal mio lavoro per il bene della società’.”

[5] “Fintanto che noi ricusiamo ostinatamente d’intendere la loro natura e il loro carattere (delle forze produttive) - e contro questa comprensione della produzione recalcitrano il capitalista e i suoi difensori - queste forze operano, nostro malgrado, contro di noi, ci dominano, come noi abbiamo dettagliatamente dimostrato. Ma una volta comprese nella loro natura, esse nelle mani dei produttori associati possono essere convertite da dominatrici indemoniate in servitrici volenterose. È la differenza fra la forza distruttrice dell’elettricità nel lampo della folgore e l’elettricità domata del telegrafo e dell’arco voltaico; la differenza fra l’incendio e il fuoco che opera in servizio dell’uomo. Con questo trattamento delle odierne forze produttive secondo la loro natura finalmente riconosciuta al posto dell’anarchia della produzione sociale subentra una sistemazione della produzione secondo un piano sociale giusta i bisogni così della comunità come di ogni individuo: [...] Con la presa di possesso da parte della società dei mezzi di produzione è eliminata la produzione di merci e con ciò il dominio del prodotto sui produttori. L’anarchia insita nella produzione sociale è rimpiazzata dall’organizzazione cosciente e rispondente a un piano determinato. La lotta individuale per l’esistenza finisce. Con ciò l’uomo per la prima volta si separa, in un certo senso, definitivamente dal regno animale e passa da condizioni animalesche a condizioni di esistenza umane. La cerchia delle condizioni di esistenza che circondano gli uomini e che finora dominava gli uomini stessi, ora passa sotto la signoria e sotto il controllo degli uomini, divenuti per la prima volta i veri coscienti signori della natura, perchè e in quanto essi diventano padroni del loro proprio immedesimarsi con i fini e la vita della società.  Le leggi della propria azione sociale che fino ad oggi stavano loro di contro come leggi naturali estranee, dominatrici, vengono dagli uomini con piena cognizione di causa applicate e quindi dominate. [...] Per la prima volta, da ora innanzi, gli uomini faranno da sé la loro storia con piena coscienza, per la prima volta da ora le cause sociali da essi messe in movimento avranno anche in misura prevalente e continua egli effetti da essi voluti. È il salto dell’umanità dal regno della necessità al regno della libertà”. (ENGELS: Antidüring, Roma, 1911, pp. 239 e 242).