Problemi e limiti dello sviluppo democratico in Italia
I
Da un decennio l’Italia è, almeno ufficialmente, una
repubblica democratica. In quale misura però questa definizione, che era
contenuta nel voto del 2 giugno e che la Costituzione ha più tardi solennemente
consacrato nel primo articolo, sia diventata una realtà, in quale misura la
democrazia sia diventata davvero sostanza della vita italiana, è argomento
quotidiano di polemica politica. Le risposte che si possono dare a questo
interrogativo sono indubbiamente diverse a seconda del grado di profondità a
cui si spinga l’esplorazione: se ci si limita alla superficie dei fenomeni
parlamentari, l’Italia può essere annoverata fra i paesi di democrazia
borghese; se invece si analizzano le strutture della società italiana, o anche
soltanto gli indirizzi politici della classe dominante e della sua prassi di
governo, non è difficile scorgere su quali fragili basi poggi ancor oggi in
Italia la convivenza democratica.
Questo contrasto fra apparenza e realtà esisteva in
Italia, in misura diversa, anche prima del fascismo. Allora pochi avrebbero
messo in dubbio che anche il nostro paese fosse avviato verso un sicuro
sviluppo democratico, un po’ in ritardo su altri paesi, ma comunque destinato a
percorrere la strada del “progresso”, la strada in cui prima o poi il
capitalismo industriale stava avviando tutti i paesi del mondo. Non bastò
neppure il trionfo del fascismo a far mutare opinione alla maggior parte dei
politici italiani educati nel clima precedente; piuttosto che dubitare della
“democrazia” italiana, preferirono considerare il fascismo come un fatto
accidentale, come, una “parentesi”. Indubbiamente questa errata valutazione
della reale situazione italiana ebbe conseguenze anche sulla condotte della
lotta politica e sui suoi catastrofici risultati; cionondimeno ancora nel
recente dopoguerra, Benedetto Croce sentì il bisogno di “protestare contro
l’affermazione dell’allora presidente del consiglio Ferruccio Parri, secondo
cui l’Italia prefascista non era stato un paese democratico. Lo stesso Gaetano
Salvemini che pur dell’Italia giolittiana era stato critico severo, pubblicando
qualche anno fa su “Ponte” uno studio intorno al problema se l’Italia
prefascista fosse una democrazia, sentì il bisogno di apporre al titolo un
prudente interrogativo.
Credo che rispondere a questa domanda, non solo per
l’Italia prefascista ma più ancora per l’Italia di oggi, sia essenziale per chi
militi nel campo democratico e, soprattutto, per chi militi in un partito che
dell’edificazione di uno stato democratico secondo le grandi linee della nostra
Costituzione dovrebbe fare il proprio compito principale in questo periodo
storico. Non quindi da un punto di vista accademico, ma proprio sotto un
profilo pratico - pratico in senso marxistico - vorrei invitare
all’approfondimento di questo problema, cioè allo studio storico dello sviluppo
democratico italiano, alla ricerca degli ostacoli strutturali e delle loro
manifestazioni sovrastrutturali che questo sviluppo ha incontrato e che devono essere
rimossi, se ancora persistono, per avviare a risultati fecondi la lotta
politica dei prossimi anni.
Sono soltanto alcune note introduttive al problema
che io mi propongo di tratteggiare in questo articolo.
Il primo aspetto del
problema che mi sembra opportuno considerare è un aspetto comparativo: quali
siano cioè le condizioni che hanno consentito, in altri paesi, uno sviluppo
democratico borghese. A mio giudizio, e, naturalmente, semplificando per
ragioni di spazio, queste condizioni si possono così riassumere.
Una democrazia può sussistere solo in un paese in
cui l’intiera collettività sia sostanzialmente d’accordo sul principi che
reggono l’ordine politico-sociale esistente, giacché, se vi fosse un contrasto
profondo, un radicale disaccordo, se mancasse unità di linguaggio e
di spirito, non sarebbe pensabile un
alternarsi di opposti partiti al governo della cosa pubblica. In altre parole,
perché sussista un regime democratico, è necessario ché vi sia generale accordo
sui principi fondamentali, e che
il disaccordo cada soltanto su particolari aspetti e indirizzi di politica.
“Nessuna democrazia potrebbe rimaner sana se i principi dell’azione divengono
così diversi fra le diverse classi della società, perché è l’essenza stessa
della democrazia che i principi della azione debbano essere posseduti in comune
da tutte le classi che contano” (Laski).
Ciò può avvenire agevolmente in una società senza
classi in cui gli uomini si sentano solidalmente uniti per il raggiungimento di
fini comuni, ma è molto più difficile in una società divisa in classi
antagonistiche, come la società capitalistica. Ciononostante alcuni paesi
capitalistici hanno avuto uno sviluppo democratico, ma questo è stato possibile
solo lo là dove un forte sviluppo economico ha da un lato reso possibile alle
masse di acquistare forza, compattezza e coscienza dei propri diritti, e
dall’altro ha consentito alla classe dominante, grazie ai larghi margini di
profitto, di soddisfare tutte le fondamentali esigenze dei lavoratori,
elevandone il tenore di vita, mentre in mezzo a queste due classi
antagonistiche ha fatto sorgere e fiorire un vasto ceto medio di insegnanti,
professionisti, giornalisti, letterati, tecnici, impiegati, uomini politici,
che hanno assunto il duplice compito di elaborare in termini ideologici la
difesa dell’ordine esistente e di inquadrare in quest’ambito, e sulla base di
questi principi, la soddisfazione delle esigenze delle classi dominate. E
poiché queste esigenze crescono continuamente e devono continuamente essere
soddisfatte almeno in parte, e poiché d’altra parte lo sviluppo e la
complessità della vita moderna esigono sempre nuovi compiti di cultura e di
propaganda, che si traducono nella necessità di impiegare sempre più vaste
categorie di intellettuali e di
ceti medi in genere, ne risulta necessariamente che “una democrazia politica ha
bisogno per essere solida di un’economia in via di espansione” (Laski). “Ciò
che apparve con evidenza nel periodo fra le due guerre, è che le istituzioni
democratiche erano funzione di una economia di prosperità. Se non si ammetteva
ciò, la contraddizione fra le conseguenze del capitalismo e della democrazia
non poteva essere superata”, (Laski). Studiando i problemi connessi al sorgere
di nuove democrazie borghesi nei paesi già coloniali, il Bailey è arrivato ad
una conclusione analoga: “In passato gli stati potevano mantenere lo standard
di vita a un livello bassissimo durante secoli o addirittura millenni. Ma oggi
si può considerare che lo stato parlamentare che non può offrire ai suoi cittadini
la realtà o almeno la ferma speranza di un livello di vita migliore, discredita
la democrazia e l’espone all’attacco immediato del comunismo o del fascismo.
Certo, la creazione simultanea di un governo parlamentare e di uno stato
prospero è un compito arduo, poiché essa necessita ad un tempo di
un’amministrazione importante e addestrata e di una popolazione unita,
intelligente e disciplinata con un senso acuto dei doveri civici”.
Questa breve premessa ci
chiarisce subito che il primo importante limite che uno sviluppo democratico ha
incontrato in Italia è precisamente l’insufficiente sviluppo economico. Di
questo ritardato sviluppo economico, le ragioni principali sono note: le grandi
scoperte geografiche e i grandi viaggi dei secoli XV e XVI hanno spostato dal
Mediterraneo all’Atlantico il centro di gravità del commercio mondiale e aperto
la via alla decadenza economica dell’Italia proprio nel momento in cui, grazie
soprattutto all’afflusso di metalli preziosi dall’America e all’incremento
della ricchezza mobiliare e dei traffici, l’economia degli altri paesi subiva
un notevole impulso. L’Italia si trovò così a poco a poco distanziata nel
processo di sviluppo dell’economia capitalistica, e la sua progressiva
decadenza nel commercio mondiale fu ulteriormente aggravata dalla divisione in
tanti piccoli stati, che paralizzava anche il commercio interno togliendogli la
possibilità di disporre di un grande mercato, e ostacolava così lo sviluppo
della produzione. Si aggiunga la scarsa fertilità del suolo e la natura
accidentata del terreno, principalmente montagnoso e collinoso, con la
conseguenza di una agricoltura povera, che avrebbe avuto bisogno, per
progredire, di grandi investimenti di capitale.
Ma questo concorso di circostanze fece sì appunto
che l’Italia si trovasse poverissima di capitali nel momento in cui negli altri
paesi sopravveniva la rivoluzione industriale, e, per di più, quasi interamente
sfornita, nel sottosuolo, di materie prime utilizzabili a scopo industriale.
Perciò l’Italia rimase durante tutto il Risorgimento e fino al compimento
dell’unità un paese quasi esclusivamente agricolo, in ritardo di parecchi
decenni sui paesi più progrediti. Renan osservava che la borghesia italiana
aveva avuto allora il suo 1830, ma “in realtà - secondo uno studioso della
agricoltura italiana, Ghino Valenti - lo stato economico dell’Italia fra il
1860 e il 1865 non era molto diverso da quello della Francia dal 1789 al 1804”,
talché l’Italia poteva tranquillamente nel 1865 copiare il Codice Napoleone,
senza sentire il bisogno di introdurvi articoli che disciplinassero i rapporti
economici che nascono da una società industriale. E Vincenzo Porri, nel noto
studio sull’evoluzione economica italiana, ha affermato che l’Italia, al
momento dell’unità, “era in ritardo all’incirca di un secolo rispetto
all’Inghilterra”.
Se l’esistenza di questo ritardo economico era
pacificamente ammessa da tutti gli studiosi ed osservatori, non se ne traevano
in genere conseguenze circa lo sviluppo democratico, se non, tutt’al più,
quelle di un parallelo ritardo. Prevaleva l’opinione, a cui ho accennato in
principio, che il capitalismo avrebbe dovunque creato condizioni di vita
democratica; che la differenza fra i diversi paesi potesse essere solo di grado
raggiunto o di ritmo di sviluppo, ma che il cammino da percorrere era comunque
lo stesso e agli stessi risultati si sarebbe in definitiva pervenuti. Nella sua
classica opera sulle “Democrazie
Moderne”, Bryce si poneva appunto questo problema:
“Conviene considerare separatamente ciascun ordine
di forze e di fatti, e quindi io mi propongo, in questo capitolo, di passare in
rapida rassegna i tratti salienti del processo storico, onde si sono svolti i
governi di tipo popolare. Qualche luce può in tal modo proiettarsi sulla
questione: se la tendenza alla democrazia, ora largamente visibile, sia una
tendenza naturale, dovuta ad una legge generale di progresso sociale. Se è
così, o se, in altre parole, cause simili a quelle che hanno in molti paesi
sostituito il governo dei molti a quello di uno o dei pochi, sono - perché
naturali - probabilmente destinate ad agire anche in futuro, ci si può
aspettare che la democrazia viva dove ora esiste, e spunti anche in altri
paesi. Se, invece, all’opposto, queste cause, o talune di esse, sono locali, o
transeunti, tale previsione sarà meno giustificabile”.
La risposta che noi possiamo dare a questo quesito
è totalmente diversa da quella che si soleva dare cinquant’anni fa, prima dello
scoppio della prima guerra mondiale. In primo luogo, se consideriamo, come abbiamo
accennato, lo sviluppo economico e il miglioramento delle condizioni di vita
dell’intiera popolazione un elemento indispensabile per uno sviluppo
democratico, dobbiamo ammettere che condizioni favorevoli allo sviluppo
economico come quelle che si sono verificate nei paesi anglosassoni, e che
hanno consentito alle classi dominanti di questi paesi di garantire condizioni
privilegiate ai loro lavoratori rispetto a quelle di tutti gli altri paesi del
mondo, non si ripetono per i paesi in ritardo di sviluppo.
Non solo infatti in questi paesi manca, come si è
rilevato per l’Italia, quell’accumulazione originaria di capitale, che fu
premessa fondamentale della rivoluzione capitalistica; ma le condizioni esterne
che hanno favorito lo sviluppo dei primi paesi capitalistici si sono
gradualmente rovesciate per i successivi. I primi paesi capitalistici, proprio
per il fatto che erano i primi, avevano a propria disposizione enormi
possibilità di espansione derivanti dall’esistenza di paesi agricoli e di
mercati coloniali, verso cui potevano dirigere la loro produzione esuberante o
i loro capitali e da cui potevano trarre derrate agricole o materie prime
industriali, e ciò sulla base di termini di scambio largamente favorevoli anche
per la mancanza di qualsiasi concorrenza internazionale, con il risultato di
prezzi industriali crescenti e di profitti inflazionistici che hanno potuto
alimentare un ritmo di sviluppo eccezionale. Così eccezionale che Hicks ha
potuto avanzare l’ipotesi che “forse l’intera rivoluzione industriale degli
ultimi 200 anni non è stata altro che un enorme boom secolare”, e Maurice Dobb ha affermato che la rivoluzione
industriale inglese e lo sviluppo americano sono da considerarsi “casi
speciali”, conseguenze di trasformazioni e saggi di sviluppo che devono
ritenersi anormali e transitori anziché normali e durevoli.
Non occorre essere economisti per rendersi conto
che i paesi giunti più tardi allo sviluppo economico hanno trovato una quantità
sempre minore di mercati vergini e di paesi coloniali, e hanno viceversa dovuto
subire una sempre più forte concorrenza internazionale da parte dei paesi più
sviluppati, in modo da rendere sempre più difficile il proprio progresso
economico e l’elevamento delle condizioni interne di vita. La situazione si è anzi
a tal segno rovesciata che un economista come il Nurske può tranquillamente
affermare che oggi i paesi sottosviluppati, ove lasciassero operare il gioco
delle forze automatiche che agiscono all’interno del sistema, finirebbero con
l’essere condannati ad una condizione permanente di “equilibrio di
sottosviluppo”.
Viene così a mancare ai paesi
ritardatari la premessa indispensabile di uno sviluppo democratico, e cioè una
situazione di prosperità rapidamente crescente che consente alle classi
dirigenti una politica di concessioni e favorisce così l’inserimento delle
masse lavoratrici nella vita dello stato borghese. Ma, mancando questa prima
condizione, tutto il ritmo di sviluppo politico ne risulta profondamente
diverso rispetto al modello dei paesi a democrazia borghese.
In questi ultimi, cioè nei paesi in cui il
capitalismo si è sviluppato dalla società preesistente, attraverso un’adeguata
preparazione storica realizzatasi in serie di trasformazioni successive, i
rapporti di forza fra le classi sociali si sono anch’essi sviluppati attraverso
una serie di mutamenti e scosse, ma in modo da non distruggere mai l’equilibrio
fondamentale della società capitalistica. I vecchi rapporti sono stati
distrutti, molti ceti legati alla società precapitalistica (artigiani,
bottegai, ecc.) sono stati schiacciati, e in parte gettati, insieme con masse
crescenti di contadini, nelle file di un proletariato miserabile, male pagato e
intensamente sfruttato. Ma questi ceti travolti ed oppressi potevano reagire
solo con moti disorganici, magari violenti ma senza possibilità di successo
definitivo, perché mancavano di esperienza, di organizzazione, di coscienza
politica e anche di reale forza sociale. E se è vero che progressivamente
crescono esperienza, organizzazione, coscienza e forza delle masse, se è vero
che il proletariato industriale, a misura che cresce di numero, cresce anche di
potenza sociale, non è men vero che ciò avviene nel quadro di una società
capitalistica che è essa stesa in espansione.
Si irrobustiscono cioè, in pari tempo,
economicamente e politicamente, le classi dominanti, sicché diventa possibile
da un lato migliorare gradualmente le condizioni di vita degli operai, a misura
che più alta si fa la voce delle loro rivendicazioni, sì da attenuarne lo
slancio rivoluzionario grazie a una politica di sapiente riformismo, e,
dall’altro, riassorbire nei nuovi impieghi offerti dallo sviluppo capitalistico
i ceti medi rovinati, trasformando in impiegati, in funzionari, in giornalisti,
insegnanti, amministratori pubblici, ecc., i figli dei bottegai e degli
artigiani, e facendo di una classe inquieta un elemento di stabilità del nuovo
regime. Si realizza così il compromesso liberale-democratico, che è il segno di
un equilibrio raggiunto: equilibrio naturalmente instabile, per l’essenza
stessa della società capitalistica, ma che deve sempre essere ricomposto se si
vuole mantenere il regime democratico, la democrazia borghese essendo in ultima
analisi il riflesso in sede politica di un determinato equilibrio
economico-sociale.
Molto più arduo e complesso si è presentato invece
questo processo nei paesi giunti in ritardo alla rivoluzione industriale, e nei
quali la trasformazione della società in senso capitalistico è stata frutto più
di compromessi che di ascesa rivoluzionaria in cui lo sviluppo sia della
ricchezza che della mentalità borghese è stato necessariamente più lento. Non è
un caso che in Germania, Italia e Giappone, paesi giunti più tardi alla
rivoluzione industriale, la democrazia abbia avuto basi così deboli e che i tre
paesi si siano poi trovati allineati su uno stesso fronte antidemocratico.
In questi paesi infatti la trasformazione
capitalistica è stata solo in parte frutto della situazione storica precedente,
mentre in parte - maggiore o minore a seconda dei paesi - è stata frutto di
imitazione e di importazione dall’esterno. Perciò essa ha distrutto
l’equilibrio della vecchia società precapitalistica prima di aver assicurato le
condizioni del proprio autonomo sviluppo, ha creato nuovi rapporti di classe e
nuove tensioni sociali senza i necessari fattori di ammortizzamento e di
riequilibramento, e ha perciò provocato delle situazioni di permanente
squilibrio che sono incompatibili con un ordinamento democratico-borghese.
In particolare si è verificato un accavallamento di
situazioni storiche, perché il capitalismo si è sviluppato accanto a
un’agricoltura ancora precapitalistica, e la frase degenerativa
dell’imperialismo è giunta prima che il capitalismo si fosse dispiegato in
tutta la sua potenza. Ciò ha fatto sì che situazioni economiche e rapporti
sociali di epoche diverse si sono trovati giustapposti o addirittura
intrecciati, con il risultato di provocare da un lato una somma di spinte
rivoluzionarie (quella liberale-borghese contro le forme residue precapitalistiche,
quella contadina per la riforma agraria, quella democratica per il suffragio
universale e contro il dominio chiuso dei ceti privilegiati, quella operaia
contro lo sfruttamento capitalistico) e dall’altro una somma di controspinte di
tipo feudale teocratico e capitalistico per frenare il temuto progresso.
Ognuna di queste spinte e controspinte trae
alimento non solo dalla propria esperienza, ma anche da quella dei paesi più
progrediti: così le classi dirigenti traggono, dalla paura anticipata delle possibili
conseguenze dell’industrialismo e della formazione del proletariato, nuovo
incitamento ad opporsi alle riforme, e viceversa i nuovi proletariati nascenti,
classi lavoratrici senza esperienza storica, dal confronto con le condizioni di
vita di altri paesi e di altri proletariati, sono spinti a sentire maggiormente
il peso dell’oppressione. Così i criteri organizzativi e le dottrine politiche,
che sono stati faticosamente elaborati e messi a punto attraverso decenni di
lotte delle più antiche classi operaie, diventano patrimonio di proletariati di
recente formazione; così le tecniche moderne di governo e i mezzi repressivi
studiati e affinati nei paesi progrediti sono messi a disposizione dei vecchi
signori feudali.
Dalla diversa combinazione di questi elementi,
dalla maggiore o minore rapidità di assimilazione delle armi moderne di lotta
politica, e dalla loro maggiore o minore incidenza nelle situazioni di tensione
e nei nodi di sviluppo creati da questi accavallamenti storici, possono
derivare sia delle soluzioni radicalmente rivoluzionarie come nella Russia
zarista o nella Cina di Ciang Kai-scek, sia per contro dei regimi dittatoriali
e fascisti, o, infine, le altre svariate forme pseudo- democratiche di cui
l’America Latina e il Medio Oriente ci hanno offerto innumerevoli esempi.
In quale direzione si sian fatti sentire in Italia
questi effetti del ritardato sviluppo, quali limiti abbiano posto al progresso
democratico esamineremo rapidamente in un secondo articolo.
Lelio Basso