Lelio Basso
Consensi e riserve sul federalismo
(Il senatore Basso ha parlato a braccio; lasciamo
all’intervento il suo andamento discorsivo, che ha una sua suggestione).
Desidero prima di tutto ringraziare il dott.
Meriano delle parole eccessivamente lusinghiere che ha pronunciato sul mio
conto presentandomi; e lo ringrazio ancor più per avermi invitato a questo
dibattito, che per me è un cimento, in quanto non sono un militante
federalista, non mi sono mai occupato ex professo di questi problemi: sono un dilettante.
Ho accettato volentieri l’invito perché mi ha offerto l’occasione di leggere un
libro molto interessante, che mi ha aiutato a ripensare il problema del
federalismo. Ma mi sento in un certo imbarazzo: so benissimo che non porterò
nessun contributo. Mi hanno spinto ad essere qui con voi alcuni motivi come
dire? occasionali; uno riguarda il prof. Petrilli, ed uno riguarda me stesso.
La parte del libro che ha attirato di più la mia attenzione è quella del prof.
Petrilli - io sono un politico e mi seno interessato soprattutto all’analisi
della situazione attuale della Comunità -; e mi è piaciuta, in particolare,
l’affermazione di un bisogno di utopia. Conoscevo già un certo debole del prof.
Petrilli per l’utopia: ho letto il suo libro sul fondatore dell’utopia moderna,
Tommaso Moro; ma non conoscevo Petrilli come utopista militante, che milita
anche nei giorni feriali, in favore dell’utopia anche se, proprio nei giorni
feriali, egli è il più grosso imprenditore in Italia, e dirige con estrema
competenza la più complessa articolazione aziendale del nostro paese. Questa
unione, questa capacità di duplicità di aspetti, mi ha sedotto. E quando dico
utopia, non lo dico per svalutare, tutt’altro. Non sarei un socialista se non
credessi all’utopia. Non ho mai creduto alle distinzioni tradizionali tra
socialismo utopistico e scientifico. Credo che una grande utopia ci sia sempre,
in ogni speranza di futuro. Credo che se non ci fosse saremmo della povera
gente. Mi considero anch’io un utopista e sono lieto quando trovo delle persone
che hanno responsabilità come quelle del prof. Petrilli e che poi accettano,
anzi rivendicano questo bisogno di utopia, anche con molta spregiudicatezza: ci
sono infatti molte verità crude nelle pagine del prof. Petrilli che
fanno parte di questo libro.
L’altro motivo contingente che mi ha portato qui,
riguarda me stesso. È un poco triste quando si è al tramonto della propria
vita, come io sono ed accade troppo spesso, leggere un libro che riguarda la
storia di un movimento a cui non ho partecipato, in cui non ho nessuna parte, e
tuttavia incontrarvi il mio passato. Così mi è capitato con questo libro.
Quando si è costretti a vivere di ricordi, l’incontro con il passato ci aiuta
un pochino a ringiovanire. Occupandomi di politica, anche se non ho fatto ex
professo il federalista, però mi sono incontrato, qualche volta, con il
movimento federalista: leggendo queste pagine sono tornati in me ricordi di più
di trent’anni fa. Ero appena ritornato a Milano dal campo di concentramento di
Col Fiorito, quando una giovane signora, che veniva da Ventotene, mi portò il
Manifesto di Ventotene. Era la moglie del mio indimenticabile amico, Eugenio
Colori (oggi la moglie di Altiero Spinelli) assassinato dai fascisti. Conoscevo
Eugenio da quando era studente, e Ursula da quando si erano sposati; ero quindi
un vecchio amico, per quanto era possibile esserlo per dei giovani sposi.
Ursula mi portò il Manifesto perché gli amici e compagni di Ventotene volevano
un mio parere su quel documento. Debbo dire che diedi un parere negativo, e
proprio sul punto fondamentale, che ha toccato il prof. Petrilli: il punto cioè
della priorità della battaglia politica per il federalismo, sugli altri
aspetti. È chiaro che per un socialista che si richiama a Marx come io mi richiamo,
non c’è nessuna difficoltà a riconoscere il superamento dello stato nazionale.
Poi in pratica è successo che nonostante Marx avesse lanciato il famoso appello
“proletari di tutti i paesi unitevi” i proletari se ne sono dimenticati, e i
capitalisti se ne sono ricordati. I capitalisti hanno fatto
l’internazionalizzazione nelle grandi “multinazionali”, mentre il movimento
operaio è rimasto a livello nazionale. Questa è una delle accuse più gravi che
faccio al movimento operaio. Questa è una delle ragioni per cui non milito più
nei partiti: a mio giudizio, i partiti assumono comportamenti assurdi rispetto
a quella che è la realtà attuale.
Una battaglia politica per il superamento del
nazionalismo, delle nazionalità degli stati nazionali, nel tentativo di costruire
un’Europa federale, mi trova totalmente consenziente. Non mi trova invece
consenziente il problema della priorità di questa battaglia su tutte le altre,
nel Manifesto di Ventotene praticamente si diceva: “Lasciamo andare la
battaglia entro i confini nazionali per la democrazia e per il socialismo e
poniamo come compito prioritario quello del federalismo A mio giudizio era un
errore; e credo che oggi pensi così anche l’amico Altiero Spinelli (perché è
stata compiuta, in parte, un’autocritica su queste questioni). Non c’era
infatti nessuna possibilità nell’immediato dopoguerra di costruire uno stato
italiano in una federazione europea. Dalla guerra sarebbero usciti di nuovo
degli stati nazionali e il nostro compito più urgente era di batterci, nella misura
delle nostre possibilità, perché ognuno di questi stati nascesse con
caratteristiche profondamente democratiche, che avrebbero potuto poi, in
avvenire, favorire lo sviluppo federale. Mi sono annotata la frase con cui il
prof. Petrilli ha terminato la sua così lucida esposizione, quando ha parlato
di una “complementarietà” fra la lotta federalista e la lotta democratica. Sono
d’accordo che ci sia una complementarietà. Non ritenevo allora e non ritengo
oggi che si possa parlare di una priorità da dare all’istanza federalista,
lasciando in disparte la battaglia democratica che secondo me, e secondo il
prof. Petrilli, spero, se ho ben capito quello che ha scritto, crea una
precondizione, di un qualunque movimento, di una qualunque realizzazione
federalista.
Qualche mese fa sono stato in Danimarca, proprio
poche settimane dopo che si era votato per il referendum sull’adesione alla
Comunità. Ho parlato naturalmente con dei miei amici di sinistra, i quali
avevano combattuto l’adesione della Danimarca alla CEE. Essi erano fortemente
contrari all’idea di un’evoluzione politica della Comunità, con
un’argomentazione che, a mio giudizio, ha un grosso peso. Il prof. Petrilli
ricordava poco fa alcune caratteristiche delle democrazie anglosassoni,
scandinave: caratteristiche che si riconoscono in un controllo democratico in
ogni sede, in ogni istanza. Come potete immaginare allora che degli inglesi e
ancora più dei danesi, accettino domani di integrarsi politicamente in uno
stato federale, con organi federali, di cui fanno parte paesi che non offrono
questa garanzia di democraticità? Devo dire con dispiacere che lo stato che
veniva citato come il meno democratico era il mio, l’Italia. Questo dicevano i
miei amici danesi: certo avremo difficoltà, per molto tempo ancora, prima di
costruire uno stato federale con i tedeschi. I tedeschi li abbiamo conosciuti
in casa nostra durante la guerra. La Germania oggi non è più nazista; ma ci
sono malattie che possono covare allo stato latente e poi esplodere, e questo
procedere verso una Comunità politica è già un freno. Lo stesso vale per
l’Italia fascista, ex fascista. Ma voi questo fascismo lo avete ancora in casa.
Le due piaghe più gravi della non democraticità italiana sono la polizia e la
magistratura. Così mi parlavano i miei amici danesi. Come potete allora pensare
che un danese con il tipo di democrazia che noi abbiamo, accetti domani di
essere governato, in uno stato foderale, da una maggioranza che magari
applicherà quei criteri che in casa nostra sono propri della nostra
magistratura e della nostra polizia? Il loro modo di sentirsi cittadini
democratici è ben diverso dal nostro, diverse sono le loro esigenze. Ecco
quindi che una battaglia per democratizzare il proprio paese mi sembra, in una
certa misura, pregiudiziale: non penso che faremo dei passi molto avanti sulla
via della federazione, se ogni paese non avrà una certa omogeneità sia pure
nelle differenziazioni. Sono perfettamente d’accordo che omogeneità non vuole
dire identità. Questo tessuto omogeneo, - ed un suo elemento fondamentale
consiste nel rapporto tra cittadino e stato, - è essenziale. Credo che non ci
sia bisogno di avere molta esperienza né di diritto pubblico né di vita
costituzionale per sapere che il rapporto cittadino-stato è profondamente
diverso, in un paese la cui civiltà è anglosassone o scandinava, rispetto al
modo in cui lo è in Italia, al modo in cui questo rapporto si realizza ogni
giorno. Di conseguenza penso che la battaglia per la democrazia nei singoli
paesi debba essere prioritaria rispetto ai fini federalisti.
Un altro ricordo mi ha suscitato questo libro. Dopo
la firma, i Trattati di Roma furono presentati al parlamento per la ratifica.
Io allora militavo nel partito socialista - nelle mie alterne vicende, le
montagne russe della mia partecipazione al partito - ed ero membro della
segreteria del partito. In quel momento, vi ricorderete tutti, il partito
comunista prese una posizione nettamente negativa, votò contro, con
un’argomentazione che veramente in bocca a comunisti e marxisti lasciava perplessi: la sovranità nazionale. Credo di avere della sovranità nazionale
lo stesso concetto che hanno i miei amici federalisti: è veramente un relitto
del passato. Quindi non mi commuoveva minimamente questa posizione dei
comunisti. Ma c’era un altro argomento che aveva la sua validità. La matrice
della Comunità era atlantica, di guerra fredda; quindi, sotto questo profilo,
era ovvia la nostra posizione critica di fronte ai Trattati. Nel PSI non ci fu
un atteggiamento unico - io lo considero un elemento di democrazia -; ci furono
tre posizioni diverse: una parte voleva votare contro, associarsi al partito
comunista più o meno sulle stesse posizioni; c’era poi chi voleva votare a
favore perché portava in sé quella che giustamente il prof. Petrilli ha definito
“l’illusione funzionalista”, (mettiamo in moto il meccanismo, essi dicevano, e
poi andrà
avanti automaticamente); c’era, infine, una terza posizione che grosso modo
faceva capo a me, che si trovava nella situazione di non essere d’accordo né
col no né col sì. Non d’accordo con il no, perché consideravamo che nel fatto
di superare gli stati nazionali, nel creare il principio di Comunità c’era,
almeno in embrione, un elemento di possibile futura sopranazionalità. Si
trattava d’un aspetto positivo in se stesso, politicamente ed economicamente.
Ma la strumentazione dei Trattati, il modo come
veniva realizzata la Comunità, la fondamentale antidemocrazia di tutta la
struttura istituzionale della Comunità ci trovava totalmente all’opposizione.
Dicevamo sì al fatto che si andava al di là dei confini nazionali; dicevamo no
al modo come i Trattati di Roma avevano organizzato questa nuova istituzione.
Purtroppo, lo sapete, la vita parlamentare ammette tre scelte: sì, no,
astensione. L’astensione può apparire talvolta una vigliaccheria, una fuga
davanti alla responsabilità, ma in molti casi è la sola maniera di non dire né
sì né no quando non si può dire né sì né no. Io mi battevo nel mio partito per
l’astensione e vinsi. Fu una delle poche battaglie che ho vinto nella mia vita
di partito. Ma ottenni allora che il partito si astenesse, e feci io la
dichiarazione di voto. Motivai la nostra astensione, spiegando le ragioni di
adesione alla spinta sopranazionale, ma di opposizione alla strumentalizzazione
che le veniva data. Credo che anche sotto questo profilo, oggi, non mi debba
pentire delle cose dette. I comunisti mi attaccarono allora piuttosto duramente
sull’Unità, ed io risposi con pari moneta sull’Avanti! Oggi
leggo con piacere che i compagni comunisti hanno rinunciato a chiedere
l’annullamento del Trattato di Roma; chiedono la revisione. Benissimo. La
Comunità, ma una Comunità diversa, una Comunità più democratica, più
rispondente a quella che è la nostra visione dei rapporti umani, sociali,
economici nel mondo. Questa rimane tuttora la mia posizione. Credo che sia
necessario fare delle grandi battaglie per ottenere questi risultati.
Ho letto con molta attenzione
tutto il libro, ma mi sono soffermato, ripeto, maggiormente sulla parte del
prof. Petrilli, perché è quella che tocca più da vicino i problemi su cui posso
permettermi di avere delle opinioni. Debbo dire che sono in grandissima parte
d’accordo con l’analisi di Petrilli: la Comunità non ha risposto non dico a
quelle che erano le sue aspettative più ottimistiche, ma neanche alle sue
premesse. Il Trattato nel preambolo poneva dei fini alla Comunità ed uno dei
fini era quello di superare gli squilibri; viceversa la Comunità li ha
aggravati. Quindi una Comunità così concepita, così funzionante ha dato prova
negativa. Si pone ora il problema di come uscire da questa situazione: la
Comunità c’è; ha funzionato male; che cosa possiamo fare per migliorare questa
situazione? Esiste questo problema notevole: la democratizzazione delle
istituzioni, in modo particolare del Parlamento. Debbo dire che per quanto
riguarda la proposta di legge pendente davanti al Senato, se sarà presentata la
voterò senz’altro. La voterò nel senso che ha ricordato il prof. Petrilli: essa
può essere un fatto importante che serva a richiamare l’attenzione
dell’opinione pubblica; ma non può mutare la sostanza. I Trattati infatti
stabiliscono che i membri del parlamento debbono essere eletti dal parlamento e
delegati da esso, quindi la designazione popolare può essere fatta soltanto
scegliendo membri di quel consesso, perché altrimenti non possono andare al
parlamento europeo. Ma è una battaglia politica; ed io credo che anche le
rivoluzioni più profonde esigono sempre delle mediazioni che chiamerei
culturali. Non ho mai pensato che le rivoluzioni si facciano soltanto con i
mitra sulle barricate. Anzi, credo che più andremo avanti meno serviranno i
mitra sulle barricate. Quindi sono abbastanza seguace di Hegel quando dice che
le idee hanno mani e piedi e camminano; sono seguace, se volete, di Marx, quando
dite che la rivoluzione è una talpa: lavora sotterraneamente, invadendo poco a
poco le coscienze, ed un giorno ci si accorge che il mondo così come è, non può
essere più vissuto. Certamente nessuno si aspettava nel 1877 la Rivoluzione
francese, e Lenin stesso nel 1916 tenne una conferenza in Svizzera dicendo: “Io
non vedrò mai la rivoluzione russa”. Cioè le situazioni maturano e scoppiano in
un modo che nessuno si aspetta. Ci sono delle vie sotterranee, inafferrabili.
Le idee penetrano nelle coscienze. Io veramente considero che il mondo in cui
viviamo è il più invivibile. Consentitemi. Se c’è qualche purista, mi dirà che
la parola invivibile è un aggettivo che non esiste nei dizionari, comunque,
creiamolo per la circostanza. Credo che la vita di oggi sia invivibile per il
grado di alienazione profonda a cui conduce ognuno di noi, per l’assoluta
disumanizzazione. Non mi riferisco alla condizione dei popoli sottosviluppati
soltanto, mi riferisco alla condizione di ciascuno di noi che veramente viene
strappato ad ogni possibilità di vita comunitaria (non mi riferisco alla
Comunità europea, ma alla comunità in cui viviamo). I rapporti in cui viviamo
sono anonimi, ognuno è depauperato della sua personalità. Questa è la
situazione peggiore, più grave dello sfruttamento economico. Più grave
di qualsiasi cosa è il sentirsi privato di qualche cosa che è intimo alla sua
persona. Credo che queste idee, camminino. Penso che qualsiasi motivo di lotta
culturale di agitazione culturale in questo senso, sia un elemento veramente
importante. Ho avuto l’occasione parecchie volte, alla Televisione svizzera, a
quella italiana, sul giornale Il Giorno, di parlare della “Pacem in terris”, nel decimo anniversario della
morte di Giovanni XXIII. È un pezzo di carta che ha mosso il mondo e che
muoverà ancora il mondo. Credo che la legge che approveremo, come ha fatto la
“Pacem in terris”, aiuterà a camminare nel senso giusto. Però al tempo stesso
dobbiamo avere la coscienza che tutto quello che facciamo per spingere avanti,
in qualunque sede, in qualunque modo, queste cose, deve essere il nostro
impegno quotidiano, nei giorni festivi e feriali. Mi è piaciuto che si sia parlato qui dei giorni festivi e dei giorni feriali, perché
si tratta di una vecchia distinzione che il movimento operaio ha conosciuto.
Ancora prima della prima guerra mondiale, nella socialdemocrazia tedesca si
diceva: “Ho avuto solo due amori nella mia vita, mia moglie e Rosa Luxemburg”;
infatti la maggior parte dei compagni di partito si ricordava del socialismo
solo nei comizi domenicali. Quindi so che cosa vuol dire occuparsi di un certo
ideale soltanto la domenica. Vuol dire: oggi è festa e se ne parla, e poi ce ne
freghiamo (scusate l’espressione) nei giorni feriali. Viceversa penso che
dobbiamo occuparci di questi problemi nei giorni feriali e festivi. Dobbiamo
però anche avere l’idea della dimensione delle difficoltà, degli ostacoli a cui
andiamo incontro. Allora debbo dire che il mio partito - militavo nel PSIUP -
mi aveva designato come deputato al parlamento europeo. Ma io ho rifiutato
perché non credevo che avrei dato un utile contributo in quella sede. Dopo
lunga esperienza parlamentare italiana - sono ventisette anni che faccio il
parlamentare - debbo riconoscere che c’è una decadenza nei parlamenti di tutto il
mondo. Ricordo che nel ‘57 (sono passati già sedici anni) in un convegno a
Londra dell’“Unione interparlamentare” dedicato al “Rapporto tra legislativo ed
esecutivo”, tutti i discorsi concordavano come in un “refrain” comune sulla
decadenza dei parlamenti. Il parlamento non ha più nessun potere; l’Esecutivo
fa quello che vuole. Questo era vero nel 1957, ed è ancora più vero oggi. Noi
assistiamo alla decadenza generale dei poteri parlamentari e quindi non vorrei
che ci facessimo troppe illusioni, su ciò che riusciremo ad ottenere. I
Trattati di Roma prevedono l’elezione a suffragio universale del parlamento
europeo. Se riusciremo ad arrivarci, avremo democratizzato la Comunità. Avremo
creato uno strumento più democratico, avremo fatto un passo avanti; ma non
pensiamo di aver così risolto il problema della democrazia. Essa consiste (come
il prof. Petrilli ricorda più volte nelle sue pagine di questo libro, con
un’espressione, che credo di avere introdotto io nella Costituzione italiana)
non soltanto nel fatto di votare, ma nella “partecipazione”. Si partecipa
soltanto nella misura in cui un problema è sentito, è vivo. Oggi siamo in un
mondo in cui la partecipazione della gente comune diventa sempre più difficile.
I centri decisionali si allontanano ogni giorno di più dai cittadini comuni.
Cosa volete che capisca, non dico il cittadino comune, ma magari persone che
occupano posti di responsabilità, dei problemi monetari, che da un giorno
all’altro decurtano il loro patrimonio per la svalutazione della moneta? I problemi
oggi hanno assunto dimensioni e un tecnicismo tali che rendono sempre più
difficile la partecipazione e, purtroppo, bisogna dire che coloro che
esercitano il potere non fanno nulla per consentire e per favorire la
partecipazione popolare. Così, senza partecipazione popolare voi potete creare
tutte le istituzioni che volete, ma saranno sempre istituzioni vuote, perché la
democrazia vive soltanto se c’è questo intercambio continuo, permanente tra le
istituzioni che sono necessarie. Dio mi guardi dal dire che ci deve essere solo
la democrazia assembleare; io so benissimo che ci deve essere la democrazia
rappresentativa e quindi i parlamenti, le deleghe di potere, il popolo, il
paese, i paesi. L’opinione pubblica deve però capire come si gestiscono i suoi
interessi. In realtà questo non succede neanche a noi in parlamento (e così
accade un po’ in tutti i parlamenti). Insomma noi nel parlamento italiano non
assolviamo ad una delle funzioni più importanti. Il parlamento grosso modo ha
tre funzioni: una di indirizzo politico e questa funzione la si assolve in
qualche modo, ma essa si esaurisce presto, si tratta di votare la fiducia al
governo o di non votargliela e di fare qualche grande dibattito politico. Poi
c’è la funzione legislativa, cioè il compito di fare le leggi: e noi le leggi
le facciamo male, malissimo. Infine c’è la terza funzione che non assolviamo
affatto: è la funzione di controllo; noi non controlliamo niente, teoricamente
dovremmo controllare anche il presidente Petrilli, l’IRI e gli enti pubblici,
ma non controlliamo assolutamente niente, e non per colpa dell’IRI. Non siamo
messi neanche in condizioni di controllarlo, non abbiamo nessuno strumento che
ci permetta di controllare non dico l’IRI, ma Il governo, la gestione di
bilancio. Tra l’altro c’è un grosso problema, che naturalmente le maggioranze
non affrontano mai, perché loro non conviene. Noi veniamo da una scuola, almeno
io (voi no perché vedo che siete in gran parte, anzi siete tutti più giovani di
me) che ci insegnava ancora la tripartizione dei poteri: legislativo,
esecutivo, giudiziario. La dialettica tra legislativo ed esecutivo oggi non
esiste più. Esisteva nei vecchi stati, nelle monarchie costituzionali, quando
come nello Statuto Umbertino il re sceglie i suoi ministri e poi c’è un
parlamento che lo controlla. Oggi è il parlamento, la maggioranza parlamentare
che sceglie il suo governo: governo e maggioranza fan tutt’uno. Come si può
pensare che la maggioranza controlli il governo se il governo è fatto dai capi
di partito? È il partito di maggioranza che controlla e governo e maggioranza
parlamentare. La maggioranza vota come le si dice di votare. Questo tipo di
rapporto tra legislativo ed esecutivo come controllo del parlamento sul
governo, è assolutamente inesistente. Oggi la sola dialettica possibile è
quella tra maggioranza e opposizione. L’opposizione ha il diritto e il dovere
di esercitare il controllo. È funzione dell’opposizione controllare il governo.
Noi abbiamo fatto numerosissime inchieste in tutti questi anni; ma mai una
volta che la maggioranza si sia pronunciata contro il governo. Non si
pronuncerà mai, perché non lo può, perché ha dei doveri di disciplina di
partito; non lo può fare, quindi non può esercitare un controllo. Allora ecco
una mia vecchia proposta, una delle tante fallite: ci vuole forse, è
discutibile, una riforma della Costituzione se non basta una riforma del
regolamento delle camere. La mia opinione è che si dovrebbe dare alla
minoranza, all’opposizione, che è minoranza un diritto autonomo di controllo.
Cioè, praticamente, oggi per nominare una commissione di inchiesta, ci vuole il
voto del parlamento, il che vuol dire che se la maggioranza non vuole, se il
governo non vuole che si faccia un certo controllo, non lo lascia fare. La
maggioranza vota contro e la commissione non si fa. La mia tesi, che non è
assurda (può sembrare assurdo dare dei diritti alla minoranza, ma non è vero,
perché la Costituzione tedesca lo riconosce; in Germania c’è questa norma e io
non chiedo altro che l’applicazione della stessa norma), consiste nello
stabilire che un terzo, cioè una minoranza, ha il diritto di nominare una
commissione d’inchiesta e di farla. Questo è il solo modo serio perché il
parlamento possa esercitare un controllo. La minoranza ha interesse ad
esercitare un controllo; a parte quelle che sono poi le collusioni di corridoio
tra minoranze e maggioranza, insomma, a parte questa deviazione, c’è una
possibilità. Oggi non esiste neanche la possibilità tecnica. Non ci sono gli
strumenti. A chi ha interesse di controllare, e questo interesse è proprio
della minoranza, non è data la possibilità di controllare. Quindi, non
illudiamoci! Qui è il solo punto, prof. Petrilli, su cui ho qualche dubbio:
quando lei afferma che è necessario “attribuire la priorità al momento politico
costituzionale”. Ho qualche dubbio, appunto per le ragioni che ho detto. Ho il
dubbio che non basti questa priorità. Sono d’accordo che si tratta di una
battaglia da condursi; sono d’accordo ch’essa è importante. I miei dubbi sono
sempre sull’elemento prioritario: credo invece che siano tutte battaglie
convergenti. Anche perché - a mio giudizio - non si deve dimenticare che oggi
la vita sociale, la vita collettiva si svolge a livelli diversi e che noi
dobbiamo operare su tutti questi livelli. Se prendiamo l’uomo comune, credete
che si interessi dei problemi della Comunità, dello Stato, dell’IRI...? Al
massimo si interessa dei problemi locali del suo quartiere, della scuola dei
suoi figli, del suo villaggio se abita in campagna. Il livello su cui si muove
la maggioranza dell’opinione pubblica è quello degli interessi che la toccano
più direttamente, dove riesce ancora a capire qualche cosa. I grandi problemi
la toccano; la svalutazione monetaria ci tocca tutti. Ma non la si capisce.
Quindi come possiamo interessarci dei problemi che non comprendiamo? L’opinione
pubblica si interessa soprattutto dei problemi locali. Qui sono d’accordo con
quello che è stato detto: il federalismo tende ad ampliare il livello attuale
statale, ma sempre più collegandolo ad un’articolazione regionale. I due
problemi sono strettamente e rigorosamente connessi.
C’è poi una potenza formidabile, forse una delle
più grosse potenze: la burocrazia. La burocrazia si muove a livello statale.
Dite alla burocrazia che le nominate un superburocrate che da Bruxelles
controllerà il caposezione del ministero X, che sta a Roma nella tale stanza:
ebbene il burocrate si ribellerà perché non vuole il super burocrate che lo
controlli. Cioè chiunque strappa un brandello di potere, se lo tiene stretto
nelle mani, non lo molla più. Ho conosciuto nella mia vita poca gente a cui il
potere non interessasse. E allora noi abbiamo questa situazione che non
possiamo ignorare: la classe politica e la burocrazia che sono le forze di cui
bisogna tenere conto, si muovono a livello statale e saranno altrettanti
ostacoli ad un qualsiasi passo avanti serio verso l’integrazione- La burocrazia
ha poi un’enorme capacità: non è molto attiva, ma proprio perché non è molto
attiva, ha una forza di inerzia incredibile. Oppone resistenze passive, che è
difficile smuovere. Chi si muove a livello sopranazionale? Questo è il grosso
problema. Sono soprattutto, nella realtà, (a parte il Movimento federalista e
coloro che operano su un piano culturale) le società multinazionali. Qui
abbiamo veramente uno dei problemi più gravi del nostro tempo. Io credo,
veramente, che il problema delle società multinazionali meriterebbe più
attenzione da parte di tutti. Lo dico in modo particolare alle persone che
militano nel mio stesso movimento: un altro dei gravi torti che faccio al
movimento operaio, al partito comunista, a quello socialista, è quello di non
seguire gli avvenimenti, di essere sempre eternamente in ritardo su di essi. Di
capire sempre dopo quello che è già successo. Partiti che vorrebbero fare la
rivoluzione, e che vorrebbero creare il futuro, e viceversa guardano solo il
passato.
È molto grave. Perché considero il problema delle
società multinazionali molto importante? Esse sottraggono i centri decisionali
a coloro che di quelle decisioni sono poi le vittime. In particolare la
“multinazionale” priva lo stato sottosviluppato, lo stato emergente, di
qualunque potere decisionale sulla propria sorte, sul proprio futuro. Questa
sorte viene decisa al consiglio di amministrazione della “multinazionale”, al
di fuori dalla sede di coloro che sono interessati, del popolo che è
interessato. Anche l’ONU ha giudicato le “multinazionali”. La “multinazionale”
è un’istituzione, diciamo ambigua perché è nella realtà multinazionale, ma
giuridicamente è nazionale... Il problema è molto ingarbugliato, molto
complicato. In realtà queste società sono delle grosse autorità, hanno un
grosso potere di fatto, che esiste a livello internazionale e viceversa non
esiste alcun contropotere. Ora io credo che dovunque vi sia un potere, se non
vogliamo che il potere abusi, ci deve essere sempre un contropotere. Dovremmo
avere un contropotere, ovunque a livello europeo. Il movimento operaio è
paurosamente in ritardo. Una delle cose più impressionanti per me è il ritardo dei sindacati a rendersi conto della necessità di
un’unità europea dei sindacati. Si sono fatti adesso i primi timidissimi
tentativi. Non so quanti anni ci vorranno ancora. Ricordo di avere in un
convegno a Parigi, credo dieci anni fa, lanciato l’idea di un partito
socialista europeo e parve un’eresia, un’utopia. Ma era un’eresia, un’utopia da
coltivare. Perché proprio nella misura in cui l’Europa esiste (zoppa, mal
fatta, ma esiste una certa Comunità di cui subiamo le conseguenze) ebbene noi
dovremmo avere appunto degli altri strumenti allo stesso livello europeo da
poter opporre. Su questo terreno la sinistra è stata completamente assente.
Vi
chiedo scusa di aver forse divagato e di aver detto delle cose che magari non
centravano l’argomento. Ve lo avevo detto prima: io sono un dilettante in
queste questioni; un “extra moenia”, rispetto al Movimento federalista. Però ci
sono cose che vanno, secondo me, profondamente meditate. A me, se così posso
dire, la sovranità nazionale non interessa; però c’è una cosa che mi interessa:
è la sovranità democratica. Domani farò qui a Firenze all’Università una
conferenza-dibattito sul rapporto fra il tipo di Italia che ci configurammo noi
Costituenti quando redigemmo la Costituzione e quella che è oggi. Nella Costituzione
abbiamo scritto, nel primo articolo: “L’Italia è una Repubblica democratica”;
poi abbiamo aggiunto quelle parole forse sovrabbondanti “fondata sul lavoro”; e
poi abbiamo ancora affermato il concetto che la “sovranità appartiene al
popolo”. Sembra una frase di stile e non lo è. Le costituzioni in genere hanno
sempre detto “la sovranità emana dal popolo” “risiede nel popolo”; ma
un’affermazione così rigorosa, come “la sovranità appartiene al popolo che la
esercita” era una novità arditissima. Contro la concezione tedesca della
“sovranità statale”, di quella francese della “sovranità nazionale”, noi
abbiamo affermato la “sovranità popolare” quindi democratica. A questo tipo di
sovranità io tengo. E allora, quando arrivano al parlamento i “regolamenti comunitari”
e ci si dice “sono obbligatori” perché così prevede il Trattato di Roma, io
reagisco. A questo proposito ho fatto una lunga battaglia, mi pare nella
legislatura passata. Sono riuscito, per tre anni, a tenere in scacco il governo
sulla richiesta di delega per approvare questi, “regolamenti comunitari”, con
provvedimento delegato. La mia battaglia non era contro il contenuto dei
“regolamenti comunitari”, ma voleva sottolineare un aspetto costituzionale.
Posi allora, e non solo io, ponemmo in parecchi - naturalmente fummo messi in
minoranza - il problema della validità di questa norma del Trattato, perché,
secondo la nostra Costituzione, le leggi vengono approvate dal parlamento: non
ci può essere una legge, senza approvazione del parlamento. Quando si dice che
un certo Trattato ha delegato ad un’Autorità Comunitaria la facoltà di emanare
provvedimenti obbligatori, diciamo che quel Trattato dove va essere ratificato
con legge costituzionale, perché era una modifica della costituzione. Senza
legge costituzionale, a nostro avviso, quei Trattati, almeno per quel che si
riferisce alla legge di ratifica, almeno per quanto riguarda quella
disposizione, non potevano essere validi. Il parlamento non può essere
spogliato della decisione. Naturalmente chi ha sostenuto questa tesi ha avuto
torto. Dopo tre anni di battaglia sono state approvate quelle norme comunitarie
che noi avevamo tenute ferme. Però io continuo a considerare che qui quello che
conta non è che l’Italia viene spogliata della sovranità nazionale, ma viene
spogliata della sovranità popolare, democratica, perché noi abbiamo degli
organi, come la Commissione Comunitaria o degli organi puramente di potere
esecutivo, come il Consiglio dei ministri, che approvano le disposizioni di
legge, non avendone, il potere, secondo la nostra Costituzione. Si invoca
sempre la norma per cui il Diritto Internazionale prevale sul Diritto Interno.
In realtà questa è una norma che va sempre - come dire - bilanciata con le
norme costituzionali, perché se dovesse essere interpretata
altrimenti noi arriveremmo alle possibilità più assurde. Ripeto, quella che
viene calpestata non è la sovranità nazionale, alla quale possiamo benissimo
rinunciare, a condizione che sia rispettato, però, il fondamento della
sovranità, che per noi è sempre il popolo e deve essere il popolo.
Questi
sono problemi che mi sembrano oggi da tenere in considerazione, nel quadro di
una prospettiva che io condivido totalmente. Sono d’accordo che si deve andare
avanti verso il superamento delle barriere nazionali, sono d’accordo che si
deve andare avanti verso l’abbandono totale, definitivo di ogni forma di
nazionalismo. Però devo dire che i problemi sono infinitamente complessi e
richiedono interventi a una serie di livelli diversi.
Mi scuso nel fare un’ultima digressione prima di
chiudere. Noi siamo in un periodo in cui diciamo, probabilmente con ragione,
che storicamente le unità nazionali sono superate, però viviamo un periodo in
cui viceversa assistiamo ad una reviviscenza dei problemi nazionali.
Ho cercato di darmi una spiegazione, probabilmente
è tutta sbagliata come in genere le spiegazioni che mi dò io. Il fatto è, come
ho detto prima, che viviamo in una società invivibile. Una delle conseguenze di
questa società è la mutilazione dell’uomo. Ognuno viene gettato in una serie di
rapporti anonimi, impersonali. La vita moderna spoglia l’uomo delle sue
caratteristiche comunitarie. Pensate all’emigrazione di massa, gente sradicata
dal suo paese, abituata a vivere nel suo villaggio, abituata a sapere da sempre
chi è il vicino di casa, cosa fa, abituata ad un tipo di rapporti umani che
interiorizzano veramente la partecipazione di ciascuno alla vita degli altri.
Improvvisamente sono sradicati, sono gettati nella grande città, vanno a vivere
in formicai. C’è la tendenza a cercare di ricostruire le loro unità, ma non è
più la stessa cosa. Vivere in un formicaio alla periferia di Torino o di Milano
e vivere nel proprio villaggio in Lucania o in Calabria... Sapete che cosa
rappresenta! Io mi sono occupato di questi problemi perché ho insegnato per
parecchi anni all’Università di Roma, sociologia dei paesi sottosviluppati. Mi
ha sempre appassionato un aspetto: il lavatoio pubblico per le donne! Il
lavatoio pubblico per le donne era il luogo di convegno, il luogo dove si scambiavano
le opinioni, il luogo dove la donna trovava la sua vita comunitaria. Gli
antropologi ci hanno raccontato - c’è una massa di esempi - che l’introduzione
del rubinetto nelle case e l’abolizione del lavatoio pubblico ha creato dei
drammi veramente enormi nella psicologia femminile; è stato strappato un pezzo
di vita, la vita comunitaria. Oggi questa vita comunitaria si è ridotta a
brandelli. Allora eccoci alla ricerca di qualche elemento comunitario che ci
leghi: e si ricerca la lingua. A mio giudizio, questo riattaccarsi alla lingua,
alla propria lingua ritrovare la propria comunità nella lingua, è un tentativo
di resistere al livellamento generale, ad un anonimato generale in cui non c’è
più niente di comune. Ci conosciamo, ci incontriamo, ci salutiamo, ma in realtà
non abbiamo più una partecipazione di uno alla vita dell’altro.
Questo elemento, secondo me, è anche da valutare,
quando pensiamo ad un movimento federalista che arrivi a superare gli stati e i
nazionalismi. Sono d’accordo, ma ripeto, non dimentichiamo che l’uomo deve
essere ancorato non solo ad una grande comunità, ma anche alla piccola comunità
dei giorni feriali.
(Ha risposto poi brevemente al sen. Basso, ringraziandolo
per il suo stimolante intervento, il prof. Petrilli. “Non credo - ha detto tra
l’altro Petrilli che a Ventotene, in sostanza, ci sia stato proposto di
abbandonare il problema della democratizzazione interna dei paesi, per porre in
primo luogo il problema del federalismo. Non c’è un prima ed un poi. I due
problemi sono complementari”. Il prof. Petrilli ha insistito sul “parallelismo”
della battaglia federalista e della lotta per la democratizzazione interna dei
singoli paesi).