Lelio Basso
Socialismo e rivoluzione nella concezione di Rosa
Luxemburg
[...]
“Rosa Luxemburg è stata spesso presentata come
l’alfiere di un socialismo che, al contrario del socialismo autoritario che ha
conosciuto l’URSS sotto Stalin, unirebbe la presa di
possesso dei mezzi di produzione da parte del proletariato alla libertà
individuale. In realtà essa non faceva che riprendere e proseguire la battaglia
di Marx: il trionfo del socialismo implica il pieno dispiegamento
dell’individuo”, ha scritta un comunista francese, Gilbert Badia. Siamo
d’accordo con lui nel ritenere che la concezione luxemburghiana del socialismo
è in opposizione a quella che s’è venuta formando sotto Stalin nell’Unione
Sovietica, e siamo d’accordo con lui anche nel ritenere che la concezione
luxemburghiana discende direttamente da quella di Marx. Ma non ci limiteremo a
vedere la caratteristica della concezione luxemburghiana nell’unire
socializzazione dei mezzi di produzione e libertà individuale: più che di
libertà nel senso corrente della parola, che è un problema che riguarda gli
individui in quanto tali si tratta nella Luxemburg di autogestione collettiva
della collettività, cioè, per quanto riguarda i singoli, di partecipazione
cosciente e responsabile a quest’autogestione collettiva. È ovvio che una tale
partecipazione implica anche la libertà (non può essere responsabile chi non è
libero) ma non si esaurisce in essa, non però una libertà intesa nel senso
dell’arbitrio di ciascuno di fare quello che gli piace, perché in tal caso verrebbe
meno proprio la responsabilità. La società socialista è, per la Luxemburg, una
collettività di uomini responsabili che si autogovernano ed è appunto questa
interpretazione del socialismo che deriva direttamente da Marx.
Non c’è bisogno di ricorrere agli scritti giovanili
di Marx per trovarne la conferma, perché quest’idea di un uomo cosciente e
responsabile sottende tutta l’opera marxiana. Si ricordi l’accenno alla
differenza fra l’ape e l’architetto: l’ape può costruire anche un alveare
architettonicamente perfetto, ma la superiorità dell’uomo, anche del peggiore
architetto, sta nel fatto che l’architetto costruisce nel suo cervello prima di
costruire materialmente, che egli cioè è un essere dotato di una volontà
cosciente e responsabile che domina la sua attività creatrice. E, al contrario,
quello che costituisce l’aspetto più degradante della società capitalistica,
non è lo sfruttamento economico del lavoro operaio, ma il fatto che l’operaio è
condannato a un lavoro parcellare, che il risultato d’assieme può addirittura
sfuggirgli completamente, che egli non costruisce più nel suo cervello prima
che nella realtà, che non padroneggia più la sua attività creatrice, che è
ridotto al rango di un semplice congegno meccanico dominato dall’esterno.
Questa soggezione dell’uomo e della sua attività creatrice a una volontà e a
una decisione esterna, questa privazione della responsabilità personale della
capacità autonoma di partecipazione e decisione, questa rimane per Marx la
suprema offesa che il capitalismo infligge all’uomo, per cui solo nel comunismo
egli vedrà la piena realizzazione dell’uomo.
In
una risposta, sia pure scherzosa, data a un questionario postogli dalle sue
figlie, egli dice che la sua idea dell’infelicità è la sottomissione, che il
difetto che gl’ispira maggiore avversione è la servilità, che uno dei suoi due
eroi preferiti è Spartaco, e uno dei suoi tre poeti preferiti è Eschilo, il
cantore di Prometeo, che lo stesso Marx aveva chiamato “il più nobile dei santi
e dei martiri del calendario filosofico” e di cui ricordava nella sua tesi di
dottorato le parole rivolte al messaggero di Zeus:
“Io, t’assicura,
non
cangerei la mia misera sorte
con la tua
servitù. Meglio d’assai
lo star
qui ligio a questa rupe io stimo,
che fedel messaggero di Giove”.
La
rivoluzione socialista rappresenta appunto per Marx la aspirazione a liberare
l’umanità da ogni forma d’alienazione, di feticismo, di reificazione, di
dominio del prodotto sul produttore, a fare cioè di ogni uomo un soggetto
partecipe e cosciente del destino comune, anziché, oggetto dominato
dall’esterno (dal passato, dall’ideologia, dalla merce, dal padrone, dai
rapporti sociali, dal potere estraneo, dalla burocrazia, dall’organizzazione,
ecc.). Il superamento delle differenze fra città e campagna, fra lavoro
intellettuale e materiale sono viste in questa direzione. L’affermazione che
l’emancipazione del proletariato debba essere opera del proletariato stesso, e
di un proletariato cosciente, affermazione spesso ripresa da Rosa Luxemburg, va
nella stessa direzione.
Una
rivoluzione simile presuppone che il proletariato acquisti una propria autonoma
coscienza di classe nel corso di una lunga lotta, cioè che si formi un uomo
nuovo capace di gestire una società nuova e che si formi già all’interno dei
vecchi rapporti sociali nel corso, e come risultato, del processo
rivoluzionario. Perciò l’idea kautskiano-leninista che la coscienza di classe
possa esser data al proletariato dall’esterno, che il socialismo possa esser
costruito dall’alto, dopo la presa del potere, sono idee estranee al marxismo.
Ed è viceversa all’interno del marxismo la concezione luxemburghiana del
rapporto movimento-organizzazione: quel che conta è il movimento in funzione
dello scopo finale, rivoluzionario, cioè un movimento che implica insieme
trasformazione della società e degli uomini, mentre le forme organizzative e di
direzione devono essere subordinate alle esigenze del movimento e dunque si
plasmano e si correggono secondo le sue necessità. Perciò il rimprovero di Rosa
a Lenin di concepire un partito esterno alla classe (secondo la definizione del
bolscevico come giacobino legato alla classe operaia) e una dittatura non del
proletariato ma di tipo borghese sono perfettamente calzanti e porgono
l’accento sugli aspetti non-marxisti del pensiero di Lenin.
È
questa concezione del socialismo che Rosa ci presenta nel programma dello
Spartakusbund, contenuto in questo volume. “L’essenza della società socialista
consiste nel fatto che la grande massa lavoratrice cessa di essere una massa
governata, per vivere tutta la vita politica ed economica e per dirigerla con
una consapevole libera autodeterminazione”. “Oggi - aveva scritto pochi giorni
prima in un articolo per il giornale giovanile pure compreso in questo volume -
la produzione viene diretta in ogni impresa di propria mano dal singolo
capitalista. Che cosa e come debba venir prodotto, dove, quando e come le merci
prodotte debbano essere vendute, tutto viene deciso dall’imprenditore. Gli
operai non si occupano affatto di tutto questo, sono soltanto macchine viventi
che devono eseguire il loro lavoro”. Macchine “viventi” deve intendersi in
senso fisiologico, ma “morte” in senso spirituale. Ed ecco allora, è detto
ancora nel programma che “le masse proletarie devono imparare a trasformarsi da
macchine morte impiegate dal capitalista nel processo di produzione, in piloti
pensanti, liberi, spontanei di questo processo. Devono acquistare il senso di
responsabilità di membri attivi della comunità, che è la sola proprietaria di
tutta la ricchezza sociale [...]. Tutte queste civiche virtù socialiste insieme
con le nozioni e la capacità necessarie a dirigere le aziende socialiste, la
massa operaia può conquistarle soltanto con la sua attività e con la sua
esperienza”.
Questa
attività e questa esperienza sono l’attività e l’esperienza della lotta di
classe rivoluzionaria, nel corso della quale “la massa del proletariato è
chiamata non soltanto a trasmettere alla rivoluzione, con chiara
consapevolezza, obiettivi e direttrici”, ma “anche a dare vita al socialismo
con la sua stessa attività”. Perciò non si può pensare a un socialismo
costruito dall’alto. “Questa ricostruzione e questo rivolgimento non possono
avvenire per decreto di una qualche autorità o commissione o di un parlamento;
possono essere affrontati ed effettuati soltanto dalla massa popolare stessa”.
“I nudi decreti delle massime autorità rivoluzionarie sulla socializzazione
sono da soli parole vuote. Soltanto gli operai possono, con la loro azione, dar
corpo alle parole”. “Il socialismo non si fa e non può essere fatto mediante
decreti, neppure da un governo socialista caratterizzato”. Perciò la
rivoluzione socialista “non è un tentativo disperato di una minoranza di
modellare il mondo con la forza secondo un proprio ideale, ma l’azione delle grandi
masse popolari di milioni di uomini, chiamata a compiere la sua missione
storica ed a tradurre in realtà la necessità storica. Ma la rivoluzione
proletaria è nel contempo la campana a morto per ogni servitù ed oppressione”.
Le
espressioni “missione storica”, “necessità storica”, come altre ancora più
drastiche (“le ferree leggi della storia non si lasciano prendere in giro”,
oppure “il ferreo `non dev’essere’ della storia”, ecc.) possono far apparire la
concezione luxemburghiana come una concezione deterministica, e in questo senso
sono state difatti interpretate e criticate, mentre al contrario il pensiero
luxemburghiano pone sempre l’accento sulla volontà e l’azione delle masse. Su
questa apparente contraddizione mi sono già ampiamente intrattenuto altrove e
rimando a quel mio scritto il lettore eventualmente interessato ad approfondire
il problema; qui basterà osservare che le leggi storiche o la necessità storica
cui la Luxemburg fa riferimento sono le leggi marxistiche dello sviluppo
nascente dalle contraddizioni interne alla società. Ma queste leggi obiettive,
che in realtà sono delle tendenze, perché ad esse si contrappongono necessità
contraddittorie e logiche antagonistiche, si esprimono attraverso processi
obiettivi che sono in interazione continua con interventi soggettivi: se anche
il socialismo è, in questo senso, una necessità storica, esso non si realizzerà
senza l’intervento cosciente del proletariato, quell’intervento cosciente del
proletariato nei processi obiettivi che corrispondeva, per Marx, al processo
rivoluzionario. È nello stesso spirito che Rosa Luxemburg fa della necessità
che il proletariato diventi protagonista della nuova storia in fieri un suo
leit-motiv fondamentale.
Inoltre,
per quanto riguarda gli scritti raccolti in questo volume non bisogna mai
dimenticare che si tratta di scritti di agitazione nel corso di un periodo
rivoluzionario e che la nota ottimistica sulla vittoria inevitabile della
rivoluzione, sulla necessità ferrea del socialismo, è una componente necessaria
del lavoro di agitazione, uno strumento vero e proprio della battaglia in
corso. Quando si tenga conto di queste circostanze, si vedrà che questi
scritti, nonostante il loro carattere agitatorio, cioè avente finalità pratiche
immediate, rivelano sempre un serio fondamento teorico ed un sicuro
orientamento nell’intelligenza di quello che era il corso reale della storia in
atto e il ruolo dei vari protagonisti. Essi ci mostrano in vivo, nel pieno
svolgimento di una battaglia decisiva, la concezione luxemburghiana della
rivoluzione e del partito, ne confermano la coerenza teorico-pratica e ne
verificano la validità proprio alla prova dei fatti, cioè nel fuoco di una
rivoluzione. Soffermiamoci un momento ad esaminare questi due momenti
fondamentali della concezione luxemburghiana, la dottrina della rivoluzione e
la dottrina del partito.
Se
la rivoluzione è la strada da percorrere per arrivare alla società socialista
di cui abbiamo parlato, essa deve presentare caratteristiche appropriate. In
primo luogo, poiché deve trasformare e far maturare la coscienza degli uomini,
non può essere che un processo lungo. Lungo non solo come periodo di
trasformazioni rivoluzionarie della società, di trasformazione di rapporti
sociali e di rapporti di potere, ma lungo anche come vera e propria crisi
rivoluzionaria, come epoca di scontri violenti. “Il concetto di rivoluzione
quale lo definisce Rosa Luxemburg non è una battaglia di strada terminata in
qualche ora, ma un lungo periodo di scontri violenti fra borghesia e
proletariato [...]. Rivoluzione non è sinonimo di rivoluzione ma di periodo
rivoluzionario”. Ridurre la rivoluzione all’insurrezione, allo scontro armato,
è una semplificazione che può condurre ad errori fatali. Quindici giorni prima
di morire, al congresso di fondazione del Partito comunista, in polemica con
gli estremisti del suo partito, che erano purtroppo maggioranza al congresso e
che in virtù del loro estremismo, cadranno nella trappola della provocazione
controrivoluzionaria, essa insiste ancora una volta: “Voi dite: o
mitragliatrici o parlamentarismo. Noi vogliamo un radicalismo un po’ più
raffinato. Non soltanto questo grossolano aut-aut. È più comodo, più semplice,
ma è una semplificazione che non serve alla formazione e all’educazione delle
masse”.
Ma
se l’insurrezione è una semplificazione, la via parlamentare è un inganno già
smentito dalla storia: è la vecchia illusione piccolo-borghese che “risorge,
senza splendore e talento e senza il fascino della novità, in noiosa, pedante,
erudita edizione tedesca nei Kautsky Hilferding, Haase”. “Che piano idilliaco:
realizzare il socialismo per via parlamentare, con una semplice risoluzione a
maggioranza. Peccato che questa fantasia celestiale del paese dei sogni non
tenga conto nemmeno dell’esperienza storica della rivoluzione borghese e tanto
meno del carattere particolare della rivoluzione proletaria [...]. Quest’ultima
lotta, che supera per grandiosità di compiti tutto quello che l’ha preceduta,
dovrebbe fare ciò che nessuna lotta di classe, nessuna rivoluzione hanno mai
fatto: risolvere la lotta mortale di due mondi in un lieve mormorio di
battaglie oratorie e di risoluzioni di maggioranza parlamentare!”. Si dimentica
“che la borghesia non è un partito parlamentare, ma una classe dominante che è
in possesso di tutti i mezzi di potere economici e sociali”, che se ne sta
tranquilla fino a quando non si cerca di incidere seriamente sul rapporto
salariale, ma che se si dovesse cercare di colpirla “al cuore - e il suo cuore
batte nei forzieri - combatterà per la vita o per la morte per il suo dominio e
accumulerà migliaia di resistenze aperte e nascoste contro i provvedimenti
socialisti”.
Non
quindi la semplice via insurrezionale e tanto meno la via parlamentare, ma una
tenace, sistematica, progressiva azione dal basso, che estenda dovunque i
consigli degli operai e dei soldati, che ne faccia degli organi effettivi di
potere, che affronti in ogni impresa il potere capitalistico, che s’incunei
nello Stato borghese fino ad occuparne tutte le posizioni, e che in questo modo
scalzi le basi del potere borghese assai più efficacemente e durevolmente di
quanto potrebbe farlo un colpo di mano anche riuscito. “Disegnato in questo
modo, il processo appare forse un tantino più lungo di quanto si sarebbe
inclini a raffigurarcelo in un primo momento”, ma purtroppo “la storia non ci
fa le cose così comode come nelle rivoluzioni borghesi, quando bastava
rovesciare al centro il potere ufficiale e sostituirlo con un paio o con un
paio di dozzine di uomini nuovi. Noi dobbiamo lavorare dal basso e questo
corrisponde precisamente al carattere di massa della nostra rivoluzione quanto
agli scopi che vanno al fondo della costituzione sociale; risponde al carattere
della odierna rivoluzione proletaria che noi dobbiamo conquistare il potere
politico non dall’alto ma dal basso”.
Una
strategia rivoluzionaria di questa natura, una strategia a lungo termine che
deve riuscire a frenare tutte le impazienze e tutti gli estremismi e deve
mantenere in tensione le masse per un lungo periodo, sembrerebbe esigere un alto
grado di preparazione e di maturità delle masse, e
questa maturità non si acquista soltanto con i libri o con i discorsi ma
precisamente nell’azione, e cioè proprio nel corso del processo rivoluzionario.
Questa potrebbe apparire, ed è apparsa infatti, una contraddizione della
Luxemburg: presentare da un lato una strategia che è possibile solo con delle
masse preparate e mature, e avvertire dall’altro che solo praticando questa
strategia le masse diventeranno preparate e mature.
In realtà ci troviamo qui di fronte a quella che è la dialettica permanente del
processo storico: come si impara a camminare camminando o a nuotare nuotando,
così gli uomini e le classi apprendono sempre dall’esperienza e quindi anche
dagli errori e dalle sconfitte ad assolvere
il compito che in ogni momento assegna ad essi il corso della storia, e ad
indirizzarli verso questi compiti, anche se non vi sono preparati, sono i
processi obiettivi, sono le contraddizioni della società, sono le situazioni
stesse che gli uomini e le classi vogliono cambiare. Il socialismo è
l’autogoverno dei lavoratori e anche a governare, ammonisce Rosa Luxemburg,
s’impara solo governando, s’impara ad esercitare il potere esercitandolo, ma si
comincia ad esercitarlo nel consiglio di fabbrica, nel comune, nella propria
collettività, e attraverso l’esperienza e gli errori anche il proletariato può
elevarsi in questo modo da classe dominata a classe dominante.
È
in questo senso che la Luxemburg dice che le rivoluzioni socialiste sono sempre
premature e le sconfitte inevitabili. È in questo senso che vede la conquista
del potere come un processo lungo che si svolge dal basso, a condizione che
protagonista della lotta sia la massa dei lavoratori e non soltanto un gruppo
di dirigenti, è in questo senso che essa pensa che il movimento operaio possa
perdere anche molte battaglie ma prevede che riporterà la vittoria finale,
perché la rivoluzione socialista è scritta nella storia futura, non certo come
una fatalità ma come una delle due sole alternative possibili, l’altra essendo
la vittoria dell’imperialismo, cioè la progressiva degradazione dell’umanità,
la ricaduta nella barbarie. “La storia è la sola vera maestra, e la rivoluzione
è la migliore scuola del proletariato”.
È
la migliore scuola perché la rivoluzione imprime agli avvenimenti una forte
accelerazione e con ciò mette più facilmente a nudo i rapporti reali che la
società borghese tende normalmente a velare e mistificare, fa scoppiare più
palesemente i contrasti, logora rapidamente le formule viete o le parole
d’ordine ingannatrici, obbliga ciascuno a prendere posizione di fronte ai
problemi cruciali e quindi a prendere coscienza della propria posizione nella
società.
Inoltre
la rivoluzione acutizza tutte le tensioni economiche, sociali e politiche e
mette in moto contemporaneamente pressioni di ogni genere, sovrapponendole,
intersecandole, integrandole, in modo che da una battaglia economica per il
salario può scaturire una battaglia politica per il potere o da una
rivendicazione politica per il diritto e l’uguaglianza del suffragio può
derivare una battaglia per la conquista di condizioni sociali di uguaglianza
che rendano effettivo questo diritto. Viene così infranta nel corso del
processo rivoluzionario quella separazione fra la lotta politico-parlamentare e
la lotta sindacale che il movimento operaio si è fatto imporre dal suo
avversario, dalla società capitalistica, che ha permesso di diluire la lotta di
classe (che, secondo l’insegnamento marxista, è sempre una lotta politica per
il potere) in una serie di rivendicazioni salariali, tradeunionistiche,
subalterne, e in un riformismo spicciolo che ha rafforzato, anziché indebolire,
la società capitalistica. Facendo cadere quella barriera, la rivoluzione dà
alla lotta di classe la sua dimensione unitaria, facilita al lavoratore la
visione globale dei problemi e dei rapporti sociali, svolge un’opera immensa
“per approfondire l’antagonismo delle classi, acuire e chiarire la situazione”,
e quest’opera sopravvive anche al di là delle sconfitte.
Naturalmente,
pur con tutta l’accelerazione rivoluzionaria, ci vuole necessariamente
parecchio tempo perché “le singole schiere del movimento operaio siano portate
a poco a poco dalla loro amara esperienza a riconoscere la giusta via della
rivoluzione”; perciò può essere cattiva consigliera l’impazienza che spinge a
cercare troppo presto lo scontro decisivo che la stessa controrivoluzione può
aver interesse a provocare. Pericoloso non solo perché può portare ad una
sconfitta che si poteva evitare, ma anche perché potrebbe portare ad una
vittoria che non darebbe tutti i suoi frutti. Infatti, come potrebbe una classe
lavoratrice non ancora matura e cosciente gestire socialisticamente il potere,
realizzare un’autentica società socialista? È su queste basi, partendo da
queste premesse, che Rosa Luxemburg definisce i compiti e le finalità dello
Spartakusbund nel progetto di programma poi approvato dal congresso:
“Lo
Spartakusbund non è un partito che voglia giungere al dominio al di sopra della
massa operaia o per mezzo della massa operaia. Lo Spartakusbund è soltanto la
parte del proletariato cosciente dei suoi scopi, la quale ad ogni passo
richiama tutta l’ampia massa degli operai ai suoi compiti storici, la quale
rappresenta in ogni singolo stadio della rivoluzione il fine ultimo socialista
e in tutte le questioni nazionali gli interessi della rivoluzione mondiale
proletaria [...]. Lo Spartakusbund non assumerà mai altrimenti il potere di
governo se non attraverso la chiara, inequivocabile volontà della grande
maggioranza della massa proletaria di tutta la Germania, mai altrimenti se non
in forza dell’adesione consapevole alle opinioni, ai fini e ai metodi di lotta
dello Spartakusbund. La rivoluzione proletaria potrà conquistare lottando la
piena chiarezza e maturità soltanto gratuitamente, passo passo, percorrendo il
calvario delle sue amare esperienze, attraverso sconfitte e vittorie. La
vittoria dello Spartakusbund non si trova all’inizio, ma alla fine della
rivoluzione: essa s’identifica con la vittoria delle grandi masse dei milioni
di proletari socialisti”.
Si
è molto discusso, allora e più tardi, se in questa analisi del processo
rivoluzionario e in questa solenne affermazione che la rivoluzione spartachista
vuol essere solo una rivoluzione di maggioranza, ci sia una sottintesa polemica
con la rivoluzione sovietica, a cui Rosa aveva rivolto critiche in un
manoscritto del periodo della carcerazione, pubblicato postumo. Non pare dubbio
che su parecchi punti del manoscritto carcerario l’autrice, alle prese con la
dura esperienza della rivoluzione tedesca, abbia poi cambiato opinione, in
particolare sulla libertà da lasciare alla classe avversaria: tale almeno
sembra il senso della frase, contenuta sempre nello stesso programma: “Tutta
questa resistenza deve venir spezzata passo passo con pugno di ferro, con
energia senza riserve. Alla violenza della controrivoluzione borghese bisogna
opporre la violenza rivoluzionaria del proletariato”.
Ma
su altri punti il dissenso certamente permane: in primo luogo sul fatto che la
rivoluzione sovietica non possa essere eretta a modello universale di
rivoluzione, in secondo luogo che le condizioni diverse della Germania
consentono al partito comunista tedesco di porre in termini diversi il problema
della conquista e dell’esercizio del potere, e cioè nei termini di rivoluzione
di maggioranza e di autentica democrazia socialista. “Perché dittatura del
proletariato vuol dire democrazia in senso socialista”. “Dotare la massa
compatta del popolo lavoratore di tutto il potere politico per i compiti della
rivoluzione: ecco la dittatura del proletariato e quindi la vera democrazia”,
“e soltanto con una costante e viva interazione fra le masse popolari e i suoi
organi - i consigli degli operai e dei soldati - la loro attività può conferire
allo stato un vero spirito socialista”. È probabile che se Rosa Luxemburg si
fosse trovata alla testa di una rivoluzione vittoriosa avrebbe dovuto
modificare alcune visioni un po’ troppo idilliche della società socialista,
almeno nella sua prima fase di faticosa costruzione, ma è certo che sarebbe
rimasto immutato lo spirito con cui avrebbe affrontato i problemi come pure
immutato il proposito, e costante lo sforzo, di costruire questo tipo di
società. E qualunque forzata deviazione da questo cammino le fosse stata
imposta dalle circostanze, Rosa Luxemburg avrebbe poi cercato al più presto di
superarla e correggerla.
Un
altro punto da mettere in rilievo è quello che riguarda il carattere
internazionale della rivoluzione socialista. Ripetute ed univoche sono le sue
prese di posizione in questo senso. “Il proletariato di un solo paese non può,
nemmeno col più grande eroismo, sciogliere questo laccio. La rivoluzione russa
diventa così un problema internazionale”, scrive nel maggio 1917. Ma non solo
il proletariato russo non può portare a termine da solo il compito gigantesco
che si è assunto; neppure il proletariato tedesco lo può. “Ma quest’opera così
grande non può essere compiuta dal proletariato tedesco da solo; esso può
combattere e vincere, soltanto se fa appello alla solidarietà dei proletari di
tutto il mondo [...]. La Germania è impregnata della rivoluzione sociale, ma il
socialismo può realizzarlo soltanto il proletariato mondiale”, perché in ultima
analisi sono i rapporti di forza mondiali, è la lotta di classe a livello mondiale,
che deciderà della vittoria o della sconfitta dell’imperialismo o del
socialismo. Perciò “la lotta di classe e la solidarietà internazionale del
proletariato sono sempre stati il principio supremo” del socialismo.
Abbiamo così
tratteggiato nelle sue grandi linee la dottrina della rivoluzione socialista di
Rosa Luxemburg, che vedremo esprimersi a contatto con il corso stesso della
rivoluzione nei testi che abbiamo raccolto nel presente volume, e di cui nelle
pagine che seguono di questa introduzione cercare o di verificare la validità o
meno di fronte alla sconfitta subita dagli spartachiani. Ma prima vogliamo
illustrare anche la dottrina luxemburghiana del partito, perché è chiaro che
per condurre vittoriosamente la rivoluzione nel senso sopra indicato ci vuole
un partito beni diverso non solo da quello che era od era stata la
socialdemocrazia tedesca, ma anche dal partito leninista centralizzato.
Abbiamo
visto infatti che il punto centrale della visione socialista di Rosa Luxemburg
come di Marx è la liberazione dell’uomo da ogni forma di oppressione imposta o
di sottomissione accettata, è la nascita dell’uomo responsabile capace di
partecipare, alla pari con ogni altro, all’autogoverno della collettività. Una
società divisa in classi non potrà mai produrre una simile collettività di
uomini, perché tenderà sempre a produrre oppressi ed oppressori, quindi solo la
rivoluzione socialista è la via per giungere a questo risultato. Ma poiché
l’uomo socialista deve sorgere già nel corso del lungo processo rivoluzionario,
e anzi la lotta di classe e la rivoluzione devono essere la sua scuola
formativa, è chiaro che il partito rivoluzionario dev’essere lo strumento per
eccellenza di creazione di questi uomini e non, quindi, un partito
gerarchizzato, burocratizzato, centralizzato, in cui la base sia svuotata di
ogni effettiva partecipazione e di ogni vitalità democratica.
Abbiamo
già trattato abbastanza ampiamente di questo problema nella nostra Introduzione agli Scritti Politici già ricordata, e non vogliamo ripeterci: solo
vogliamo qui ricordare che Rosa Luxemburg è stata la prima a denunciare e a
criticare la progressiva sclerosi della socialdemocrazia tedesca, la prima a
capire quale mistificazione rappresentasse il sedicente rivoluzionarismo della
socialdemocrazia in genere, e dei suoi leader Bebel e Kautsky in ispecie, la
prima a levar la voce, fin dalla prima introduzione dei “funzionari” nel
partito, contro il pericolo che la burocrazia finisse con lo spogliare le masse
di qualsiasi iniziativa, riservando alle “istanze” del partito la titolarità
dell’azione politica. E questo in un periodo in cui Lenin ammirava ancora Bebel
e Kautsky come rivoluzionari e difendeva anche lui con grande vigore il diritto
delle “istanze” contro la base.
“Questa
lotta costante di Rosa Luxemburg contro il peso delle “istanze” - scrive
Gilbert Badia - è la sua reazione contro l’autoritarismo e la burocrazia della
direzione dell’SPD. Parecchi storici hanno mostrato che le strutture della
socialdemocrazia tedesca riflettevano sempre più alla vigilia della guerra le
strutture autoritarie della società e dello stato tedeschi sotto Guglielmo II.
È contro questa “impregnazione” che Rosa Luxemburg reagisce con violenza”. Ora
è certo che la polemica della Luxemburg fu principalmente diretta contro la
socialdemocrazia tedesca in cui essa militò per oltre vent’anni e che quindi la
concerneva più davvicino, ma è vero anche che essa esprimeva a questo proposito
delle idee di carattere generale e che la sua polemica non fu meno vivace
contro Lenin e i bolscevichi.
Per
quel che si riferisce alla socialdemocrazia tedesca (e del resto anche per il
partito bolscevico) la pertinenza delle sue critiche, è confermata dal fatto
che, sulla base di queste stesse critiche, ha potuto prevedere i futuri
sviluppi del partito e i suoi giudizi sulle tendenze di sviluppo in atto in
questi partiti hanno un valore profetico che non può non colpire anche il
semplice osservatore dei fatti politici. Si veda p. es. cosa scriveva nel 1913
a proposito della socialdemocrazia tedesca. Si era alla vigilia della guerra
mondiale, il cui avvicinarsi Rosa Luxemburg denunciava da molti anni contro
l’atteggiamento passivo o addirittura acquiescente della direzione del partito,
e la Luxemburg avrebbe voluto che contro la minaccia di guerra si mobilitassero
le grandi masse popolari. Ma la risposta abituale dei dirigenti era che si
dovesse rafforzare l’organizzazione prima di chiamare le masse alla lotta. Rosa
Luxemburg non manca di rilevare la contraddizione che c’è fra l’affermazione di
voler rafforzare l’organizzazione per la lotta, riempendola di iscritti che
vengono però contemporaneamente privati di qualsiasi iniziativa disabituati
alla lotta, ridotti cioè a semplici strumenti nelle mani dei dirigenti. Ed ecco
alcuni passi della sua polemica:
“Viviamo
in una fase in cui solo l’intervento di larghe masse è in grado d’influire
sulla soluzione delle questioni politiche essenziali [...] Se le masse non
appaiono sulla scena nei momenti decisivi, l’azione del partito viene ad essere
paralizzata, le viene meno il mordente e il partito stesso risente
dolorosamente la sua inadeguatezza”. Invece, nella concezione della direzione
“ci si serve delle masse come di pedine che si avanzano quando, l’abilità
politica e diplomatica dei parlamentari non avendo dato risultati, i dirigenti
vogliono, con questa manovra, far paura al nemico; e che si ritirano
rapidamente dal campo delle operazioni pregandoli di tenersi gentilmente
tranquilli fino a nuovo ordine, nel momento in cui ricominciano le trattative con
l’avversario, condizionato da questo gioco di pedine, o si organizzano con esso
delle azioni comuni”. Certo questo modo di concepire le masse permette ai
dirigenti di fare una politica empirica, di compiere le più acrobatiche svolte:
“esprimere qualche mese fa al Reichstag in materia di politica estera la
fiducia della socialdemocrazia in Bethamnn-Hollweg e, sei mesi dopo, chiamare
le masse a scendere in strada - questa è acrobazia politica, è una politica del
giorno per giorno, che non potrebbe che terminare con un fiasco tanto in
Parlamento che nella strada”. Naturalmente anche la socialdemocrazia tedesca
risente delle tradizioni del paese, tradizioni di disciplina e di ubbidienza:
“la mancanza di una grande tradizione rivoluzionaria nella borghesia tedesca e
quindi anche nel proletariato tedesco ha sicuramente prodotto fino nei ranghi
della socialdemocrazia una certa mancanza di fiducia in sé, un eccesso di
rispetto fatto persona davanti alla “legalità” dello stato di polizia
assolutistico-burocratico e davanti all’autorità della sciabola del
poliziotto”. Ma anziché combattere queste tradizioni, la socialdemocrazia le
incoraggia nei suoi militanti e le sfrutta a vantaggio dei dirigenti: “la
piccola parte di contenuto intellettuale e politico d’iniziativa e di
decisioni, che incombeva alle organizzazioni di base, nella vita di tutti i
giorni, è totalmente trasferita ai piccoli gruppi di vertice [...] Quel che
resta, per la grande massa degli aderenti, sono i doveri relativi al pagamento
delle quote, alla diffusione dei volantini, alle elezioni e all’organizzazione della campagna elettorale,
all’agitazione di casa in casa per abbonamento al giornale e simili”. Con
queste prospettive, “mettersi in testa d’integrare tutto il popolo lavoratore
nei quadri del partito prima di fare la storia (cioè attraverso lotte di massa,
L. B.), è muoversi in un circolo vizioso. Quanto più le nostre
organizzazioni nascono e abbracciano centinaia di migliaia, milioni di
aderenti, tanto più aumenta necessariamente il centralismo [...] Ma è un’idea
strana voler alla lunga occupare milioni di uomini unicamente a compiti di
routine, a dibattere l’aumento delle quote e l’impegno di nuove donne alla
diffusione dei giornali, a eleggere il primo e secondo presidente e il cassiere” ecc. “È un’idea strana pensare che
basterebbe far crescere in proporzioni gigantesche meccanicamente questa
cianfrusaglia burocratica per reclutare con il tempo nelle nostre
organizzazioni, due, tre, quattro milioni di membri e anche più per
custodirveli”.
Credo
che abbiamo avuto tutti esperienze di questa prassi partitica a base di
“bollinaggio”, “volantinaggio”, “diffusione”, ecc. (che non sono, certo, cose
inutili, se sono strumenti per una effettiva vita politica, ma che non possono
diventare i surrogati dell’azione politica presso la base se non si vuole
assistere alla progressiva anemizzazione della lotta politica) per poter
giudicare l’acutezza con cui Rosa Luxemburg sapeva guardare al fondo delle cose
e leggeva già allora, una sessantina di anni fa, il futuro destino di quello
che era ancora considerato da tutti il partito-leader del movimento operaio
internazionale. E dietro questa routine quotidiana Rosa vedeva anche lo
spegnersi di ogni capacità di giudizio autonomo e di iniziativa dei militanti,
ridotti, come scrive nelle pagine riportate in questo volume, “docili pedine”;
“l’essenza di questa politica consiste nel fare un docile gregge di pecore
nelle mani di un pugno di parlamentari, il che è del resto l’essenza di ogni
politica borghese”. Sarà grazie a questa politica che la socialdemocrazia potrà
far accettare ai suoi iscritti la sua capitolazione del 4 agosto 1914, cioè la
capitolazione di fronte alla guerra imperialistica, riuscirà ad imporre “la
silenziosa sottomissione agli orrori del massacro dei popoli, ai crimini della
dittatura militare”, ma il proletariato tedesco pagherà questa silenziosa
sottomissione ritrovandosi alla fine della guerra impotente di fronte ai
momenti decisivi della storia: si sente, scriverà allora Rosa Luxemburg con
un’espressione icastica che scolpisce una situazione, “che sono ancora i vecchi
bravi compagni dei tempi della socialdemocrazia serenamente addormentata per la
quale la tessera era tutto, l’uomo e lo spirito niente”. Un simile partito, una
simile organizzazione, una simile politica non potevano non portare il
proletariato tedesco che all’impotenza, lo dovevano portare a precipitare dalle
speranze rivoluzionarie del 1918 alla capitolazione di fronte a Hitler quindici
anni dopo.
Ma, lo ripetiamo, sarebbe un errore circoscrivere
queste critiche alla sola socialdemocrazia tedesca: sono le critiche di un
metodo, di un metodo verticistico e centralizzato di direzione che uccide
progressivamente nella base, col pretesto di evitare gli errori, ogni spirito
d’iniziativa, di un metodo di direzione che dice agli operai come dice la
borghesia: “Non siete maturi, non potrete diventarlo mai; un’impossibilità
intrinseca; avete bisogno di capi; i capi siamo noi”, come se la massa potesse
diventare matura senza commettere errori, come se potesse “imparare ad
esercitare il potere (se non) esercitando il potere. Non c’è altro mezzo per
inculcarle questa scienza”. Si rileggano ad ogni modo gli scritti che ho sopra
citati di critica a Lenin e ai bolscevichi, quello del 1904 sulla concezione
del partito e quello del 1918 sulla concezione della dittatura del proletariato
nella rivoluzione russa, e si vedrà con quale chiarezza dietro alla concezione
leninista del partito essa vedesse già profilarsi, con acuta preveggenza,
l’ombra della futura degenerazione burocratica, l’ombra dello stalinismo: e ciò
nonostante la sua immensa ammirazione per la rivoluzione sovietica e la sua
totale solidarietà con i bolscevichi.
Se
ci siamo molto dilungati su questo tema, è perché siamo qui al centro di un problema
su cui si fondano le maggiori critiche rivolte alla Luxemburg e allo
spartachismo, e soprattutto le critiche per la sconfitta a cui Rosa Luxemburg è
andata incontro nella rivoluzione tedesca: intendiamo riferirci all’accusa di
spontaneismo e di sottovalutazione sia del ruolo dirigente del partito che
dell’importanza dell’organizzazione, specialmente nei momenti rivoluzionari.
Anche
su questo tema ci siamo già soffermati nella nostra più volte citata Introduzione, e qui ci limiteremo ad
aggiungere quel che riteniamo essenziale alla comprensione del pensiero che
anima gli scritti raccolti in questo volume, e l’atteggiamento ch’essi
esprimono dell’autrice, anche per meglio situarli in rapporto agli avvenimenti
di quei mesi in Germania e al ruolo che la Luxemburg vi ha svolto nei due mesi
trascorsi fra la sua liberazione dal carcere e il suo assassinio.
Va
osservato in primo luogo che Rosa non è stata mai una spontaneista nel senso di
considerare che solo conti l’azione spontanea delle masse, senza bisogno di
direzione politica. Al contrario essa ha sempre rimproverato alla
socialdemocrazia di non sapere svolgere proprio la funzione dirigente cui è
chiamata (“Il periodo nuovo, quello dell’imperialismo, ci pone dinanzi dei
problemi nuovi, che non possono essere risolti con i soli mezzi parlamentari,
con il vecchio apparato e la vecchia routine. Il nostro partito deve imparare a
scatenare, quando la situazione lo consente, delle azioni di massa e
a dirigerle [corsivo nostro, L. B.]: non sa ancora farlo”), perché delle
masse svuotate d’iniziativa politica e di capacità di lotta non saranno mai
delle masse che potranno condurre a fondo un’azione rivoluzionaria (anche senza
bisogno di attribuire a questa parola il significato insurrezionale). Non si
tratta quindi di negare il ruolo dirigente del partito, ma di contestare il
modo come viene svolto e che sottovaluta totalmente il ruolo e la capacità
combattiva delle masse, facendo del partito il solo protagonista.
“Storicamente, il partito socialdemocratico è chiamato a costituire
l’avanguardia del proletariato; partito della classe operaia, deve aprire la
marcia e assumere la direzione. Ma se la socialdemocrazia s’immagina che è essa
chiamata a scrivere la storia, che la classe non è niente, e che deve esser
trasformata in partito prima di poter agire, potrebbe darsi che la
socialdemocrazia svolgesse il ruolo di freno nella lotta di classe”, come
infatti l’ha svolto. E d’altra parte, se così fosse, se solo il partito fosse
il titolare della azione politica della lotta di classe, come si spiegherebbe
che la lotta di classe ha preceduto la nascita del partito, e anzi vi ha dato
essa stessa vita, come si spiegherebbe che rivoluzioni socialiste, come a
Parigi nel ‘48 e nel ‘71 e in Russia nel ‘905, sono scoppiate senza che un
partito le avesse preparate e dirette? Come si spiegherebbe la partecipazione
di vastissime masse non organizzate in tanti movimenti e il peso decisivo che
vi hanno esercitato? “In occasione di grandi lotte, l’impeto delle masse non
organizzate rappresenta, ai nostri occhi, un pericolo assai minore della
debolezza dei capi”. Sarebbe quindi “un errore fatale immaginarsi che ormai
l’organizzazione socialdemocratica è diventata la depositaria unica di tutta la
capacità di azione storica del popolo, e che la massa non organizzata del
proletariato è ridotta a un magma amorfo costituente per la storia un’inerte
zavorra”. No, “la materia vivente della storia mondiale resta sempre, a
dispetto della socialdemocrazia, la massa del popolo; e solo se si mantiene una
viva circolazione sanguigna fra il nucleo dell’organizzazione e la massa
popolare, solo quando il polso dell’una e dell’altro battono all’unisono la
socialdemocrazia può dimostrarsi atta a grandi imprese storiche”.
Questo
dunque è il punto essenziale: la funzione dirigente del partito deve esplicarsi
non attraverso ordini e direttive, non con i metodi burocratici dell’apparato,
non mediante le famose “cinghie di trasmissione”, ma attraverso un’interazione
continua che faccia appunto scorrere permanentemente il sangue fra vertici e
base, fra partito e classe, fra organizzazione e movimento, essendo chiaro che
una grande azione politica, un importante compito storico non potranno essere
svolti da una massa abituata soltanto a obbedire.
Rosa
Luxemburg non dimentica questi insegnamenti nel corso della rivoluzione, e
lungi dal disprezzare il ruolo organizzativo e di direzione politica del
partito, lo invoca: invoca dai leader “chiare parole d’ordine” per le masse, ma
avverte che non bastano le parole d’ordine, che bisogna fare di tutto per
assicurare la più energica esecuzione delle parole d’ordine: “la situazione che
si è avuta finora, caratterizzata da una direzione manchevole, dalla mancanza
di un centro organizzativo degli operai berlinesi, è diventata insostenibile.
Se la causa della rivoluzione deve andare avanti, se la vittoria del
proletariato, se il socialismo devono essere qualcosa più d’un sogno, allora
gli operai rivoluzionari devono crearsi organi dirigenti che siano all’altezza
del momento, che sappiano dirigere ed utilizzare l’energia di lotta delle
masse”. Come si vede, il discorso è lo stesso, nella vecchia socialdemocrazia
come nei giorni della rivoluzione: la funzione di direzione spetta al partito,
ma dev’essere una direzione che si esprime in armonia con le masse.
Purtroppo
il partito capace di assolvere questa funzione direttiva era ancora da fare: un
partito che, secondo l’espressione di Rosa Luxemburg, sapesse “essere la
bussola orientatrice, la vela di punta, il lievito proletario-socialista della
rivoluzione: ecco il compito specifico dello Spartakusbund nell’attuale
conflitto fra due mondi”. Pochi giorni dopo avere così delineato la funzione
del partito, essa precisava dalla tribuna del congresso di fondazione del
Partito comunista che quel che occorreva “era una struttura completamente
nuova, che non ha nulla in comune con le vecchie tradizioni tramandateci”. Ma
la controrivoluzione non lasciò a Rosa Luxemburg il tempo di preparare questa
struttura completamente nuova; preferì farla assassinare prima. Non aveva Rosa
stessa scritto poche settimane prima di morire, citando dei versi di Dehmel,
che a noi non manca nulla per essere liberi: soltanto il tempo?
È proprio questa mancanza di tempo che è stata
spesso rimproverata alla Luxemburg come la sua specifica responsabilità nella
sconfitta della rivoluzione socialista in Germania: il suo “spontaneismo”, la
sua sottovalutazione del momento direttivo e organizzativo, del partito in
altre parole, sarebbe stata determinante nella mancata tempestiva scissione
della sinistra marxista dal partito socialdemocratico, nella mancata tempestiva
fondazione di un partito rivoluzionario, che Lenin invece fondò e preparò fin
dagli anni dell’esilio, creando così per tempo lo strumento indispensabile alla
vittoria della rivoluzione socialista in Russia. Fu lo stesso Stalin che nella
nota lettera alla redazione della rivista “Proletarskaja Revolutsija” del 1931
avanzò questa critica, che divenne la posizione ufficiale dei vari partiti e
scrittori comunisti in argomento, e che è ancor oggi ripetuta. In Italia invece
Ernesto Ragionieri l’ha combattuta nella sua Introduzione a K. Liebknecht
e R. Luxemburg - Lettere
1915-1918 (Roma 1967), osservando giustamente che “il movimento
socialdemocratico tedesco, negli anni della II Internazionale, era troppo
diverso da quello che si era potuto sviluppare in Russia, perché si possa
ritenere che nell’uno e nell’altro paese le cose dovessero svilupparsi allo
stesso modo”, e inoltre che lo stesso “Lenin, prima del 4 agosto 1914, né formulò
una condanna globale socialdemocratica tedesca, né ne criticò l’ala sinistra
perché questa non si separava organizzativamente dal resto del partito. Lenin
conosceva troppo bene il movimento operaio del proprio tempo e le
caratteristiche con le quali esso si era sviluppato in ciascun paese, era
troppo consapevole di che cosa significasse la tradizione di partito in
Germania, dove un movimento di massa si era formato attraverso una serie di
prove successive che ne avevano fortemente cementato il legame unitario, per
non avvertire che la lotta imposta ovunque dai comuni problemi dell’età
dell’imperialismo non poteva non essere combattuta in forme diverse. Tutto il
suo appoggio andava a quanti si opponevano alla degenerazione della
socialdemocrazia tedesca e cercavano di conservare le masse lavoratrici legate
alle sue grandi tradizioni internazionaliste e rivoluzionarie. Non c’è dubbio
però che, proprio per questo, Lenin pensò sempre, ripetiamo, prima del 4 agosto
1914, ad una lotta che dovesse essere condotta all’interno del partito e non al
di fuori di questo”. Potremmo addirittura aggiungere, come abbiamo già
dimostrato altrove, che Lenin, tutto assorbito dai problemi della
socialdemocrazia russa, avvertì molto più tardi della Luxemburg le
degenerazioni opportunistiche della socialdemocrazia tedesca e continuò per
parecchio tempo ad attribuire una immeritata fiducia al “marxismo” di Bebel e
di Kautsky. Ma gli eventuali errori di Lenin non giustificherebbero gli errori
della Luxemburg, se la mancata scissione dovesse esser sul serio considerata un
errore.
Ma
chiunque abbia una anche sommaria conoscenza della storia e della natura della
socialdemocrazia tedesca sa che una scissione, prima della guerra, non sarebbe
stata neppure pensabile, e chi l’avesse tentata, qualunque fossero le sue
capacità e il buon fondamento delle sue posizioni, sarebbe rimasto
assolutamente isolato dalle masse. Altro era il caso della socialdemocrazia
russa, partito che aveva i suoi leader nell’emigrazione, e che svolgeva le sue
battaglie e i suoi congressi principalmente nella ristretta cerchia degli
esuli, senza che nessuna delle diverse frazioni potesse vantare, a causa delle
condizioni di vita in Russia, stretti legami organizzativi con vaste masse
popolari. I socialdemocratici russi potevano permettersi di alternare scissioni
e unificazioni senza pregiudicare i loro rapporti con la classe operaia, e un
uomo come Trotsky, che era poco più che un isolato, poteva nel 1905 diventare
presidente del Soviet di Pietroburgo e poteva nel 1917, appena entrato nel
partito bolscevico, giocare un ruolo di primissimo piano accanto a Lenin nella
rivoluzione bolscevica. Nulla di simile sarebbe stato pensabile in Germania.
Qui
la socialdemocrazia, quando Rosa Luxemburg cominciò a militarvi nel 1898, aveva
già 35 anni di vita e aveva già superato brillantemente il dodicennio di legge
eccezionale, creandosi, grazie anche al dominio assoluto dei sindacati, una
larga base di massa, che la qualificava, tanto agli occhi dei tedeschi quanto
agli occhi del socialismo internazionale, come “il” partito, il solo, della
classe operaia tedesca. Si aggiunga che esso aveva il crisma ufficiale del
marxismo, perché Engels, fino alla sua morte nel 1895, lo aveva considerato
tale e anzi persino come il suo proprio partito, e Kautsky, considerato dopo la
morte di Engels come il “papa del marxismo” era il teorico ufficiale della
socialdemocrazia tedesca. Il suo principale leader, Bebel, era stato amico di
Engels e nessuno avrebbe osato in pubblico contestare la sua fedeltà al
marxismo. D’altra parte la mistica dell’unità e addirittura la mistica
dell’appartenenza al partito erano fortemente sentite: nulla sarebbe stato più
controproducente, agli occhi della classe operaia tedesca, che ribellarsi al
partito o infrangere l’unità. Si aggiunga che la Luxemburg, in parte proprio
per le posizioni polemiche assunte contro la destra, e in parte per il suo
carattere che non le consentiva di tacere il proprio pensiero, aveva molti
nemici, i quali, per denigrarla, arrivarono persino ad attaccarla come ebrea e
come straniera, e purtroppo l’antisemitismo e la xenofobia trovavano spesso eco
nell’animo del “filisteo” tedesco, del piccolo-borghese che occupava posizioni
di potere ai livelli intermedi del partito.
Neppure
costituire una frazione organizzata sarebbe stato possibile, in primo luogo
perché proprio la sinistra aveva invocato l’unità e la disciplina per molti
anni contro i revisionisti che si permettevano atti d’indisciplina contro le
decisioni dei congressi (p. es. approvando il bilancio in qualche parlamento
statale o stipulando alleanze con partiti borghesi, vietate dai congressi), ma
i revisionisti avevano dietro di sé l’immensa potenza dei sindacati che la
prassi tradeunionistica aveva facilmente spinto su posizioni riformistiche e
che, a partire dal 1906, grazie agli accordi stipulati con Bebel, avevano
raggiunto un grande potere anche sul partito. La sinistra poteva invece contare
solo sulle proprie forze che, apparentemente maggioritarie fino a che Bebel e
Kautsky si manifestavano, sia pure prudentemente, di sinistra, diventarono
rapidamente minoritarie appena Bebel cominciò a pencolare apertamente
dall’altra parte e Kautsky diede vita al cosiddetto “centro marxista”. Inoltre
l’apparato del partito, pur sottomesso all’indiscussa autorità del presidente
Bebel, si spostava sempre più a destra prima con la segreteria Auer e poi con
la segreteria Ebert.
Ciononostante
la sinistra non cessò mai di manifestare la sua attiva presenza nel partito,
soprattutto nella stampa con Rosa Luxemburg e Franz Mehring che erano fra i
pubblicisti più ricercati, nel movimento giovanile con Karl Liebknecht che ne
era l’anima, nelle frequenti riunioni locali e nei congressi dove
sistematicamente davano battaglia. Dopo la clamorosa rottura della Luxemburg
con Kautsky nel 1910, cominciò anche da parte della sinistra il tentativo di
dare una certa organizzazione alla corrente, prendendo soprattutto lo spunto
dal fatto che il gruppo parlamentare nel Landtag del Baden il 14 luglio 1910
aveva dato voto favorevole al bilancio, ribellandosi così apertamente alle
decisioni del congresso di Norimberga del 1903. In occasione del congresso
dell’Internazionale a Copenaghen (28 agosto - 3 settembre 1910), Wilhelm
Dittmann (che allora apparteneva alla sinistra, ma aderì poi al Partito
socialdemocratico indipendente e fu uno dei tre commissari del popolo di questo
partito, prendendo posizioni sempre più a destra) propose in una riunione di
“opporre un blocco radicale al blocco revisionista” a cominciare dal prossimo
congresso del partito a Magdeburgo, dove infatti fu sferrata una forte
offensiva contro i revisionisti badesi, ma dove appunto cominciò a manifestarsi
apertamente la posizione centrista Bebel-Kautsky. L’anno appresso, alla morte
del co-presidente Paul Singer, fu svolta con successo un’azione per eleggere al
suo posto il centrista di sinistra Hugo Haase (anch’egli futuro leader del
partito indipendente e commissario del popolo) in luogo di Ebert, ma fallì il
tentativo successivo di allargare il comitato direttivo includendovi altri nomi
appoggiati dalla sinistra, nonostante che risulti dalle carte Dittmann che vi
fu un tentativo organizzato in questo senso, sul quale peraltro, in una lettera
del 9 dicembre 1911 la Luxemburg mostrava di non farsi illusioni. La battaglia
si riaccese più vivace l’anno venturo al congresso di Chemnitz
sull’imperialismo e le sue conseguenze, e nel 1913 sul voto dato al Reichstag
sulle spese militari, ma furono le ultime battaglie della vecchia sinistra che
la ventata della guerra mondiale doveva disperdere. D’altra parte la burocrazia
dominante del partito aveva già provveduto negli ultimi anni a isolare sempre
più i dirigenti della sinistra, togliendo ad essi la possibilità di collaborare
alla stampa di partito, talché i più tenaci e più coerenti oppositori, Rosa
Luxemburg, Franz Mehring e Julian Karski-Marchlewski, fondarono nel 1912 un
bollettino “Sozialdemokratische Korrespondenz” in cui pubblicavano articoli,
inviando poi il bollettino alla stampa socialdemocratica con diritto di riproduzione.
È
impossibile dire con precisione, allo stato delle nostre conoscenze (molti
archivi sono stati distrutti e parecchi, anche conservati, non sono ancora
stati pubblicati) se la sinistra avrebbe potuto fare qualche cosa di più, ma
comunque assai poco, data la situazione del partito, dei sindacati, e in genere
della classe operaia, tedesca che, anche là dove ammetteva addirittura il
dissenso, non avrebbe tollerato un’aperta opera frazionistica che fosse stata
sconfessata e condannata dalle sfere dirigenti.
La
riprova si ebbe del resto con lo scoppio della guerra e il voto favorevole,
dato dal gruppo socialdemocratico al Reichstag, ai crediti di guerra. Gli
avvenimenti sono noti, e noi stessi ne abbiamo già parlato nella nostra citata
Introduzione: anche su questo punto non vogliamo ripeterci. È certo che la
classe operaia tedesca era contro la guerra e manifestò in questo senso
vivacemente e compattamente fino alla vigilia, cioè fino a che i giornali del
partito, ignari di quello che si stava tramando dietro le quinte, e la stessa
direzione del partito, per non scoprire troppo presto le sue carte, si
pronunciarono contro la guerra. Il voto del 4 agosto venne come un fulmine a
ciel sereno perché sembrava contraddire tutta la tradizione del partito, anche
se oggi, con una più approfondita conoscenza dei fatti, possiamo invece
ritenere che quel voto segnasse il logico coronamento di una politica di
integrazione. Fu quella l’occasione per misurare quale fosse la forza reale, o
piuttosto la debolezza, della sinistra e quanto grande invece fosse lo spirito
di disciplina non solo delle masse ma anche di molti dirigenti. Uomini come
Lensch, che erano stati sempre su posizioni radicali (passarono improvvisamente
dall’altra parte. Lo stesso Liebknecht, che era stato e che fu anche in seguito
uno dei più coraggiosi leader della sinistra, votò in favore dei crediti per
disciplina di gruppo, perché temette che un voto contrario avrebbe potuto
isolarlo dalle masse. E ancora una volta fu Rosa Luxemburg che ripartì quasi da
sola a ritessere la tela del movimento che venne poi sviluppandosi, come
vedremo, nel corso della guerra.
Senza
pertanto pretendere che la sinistra tedesca in generale, e Rosa Luxemburg in
particolare, abbia fatto tutto quello che era possibile, e non abbia commesso -
ciò che sarebbe impossibile - errori nel suo operare, crediamo di poter
tuttavia fondatamente respingere la critica sommaria e superficiale mossale da
Stalin di avere sbagliato per non aver provveduto in tempo a una scissione, che
non avrebbe avuto nessun seguito. E del pari crediamo infondata l’altra critica
che fa risalire la sconfitta spartachista agli errori teorici della Luxemburg,
traendone la prova dal fatto che i bolscevichi arrivarono invece alla vittoria,
grazie alla superiorità della teoria leninista. Anche questa critica ignora le
circostanze storiche così profondamente diverse in cui si sono svolte le due
rivoluzioni e non si rende conto che la rivoluzione bolscevica ha trionfato
grazie, certo, anche alle doti strategiche e tattiche di Lenin, ma soprattutto
grazie alle circostanze essenziali in cui Lenin si è trovato ad operare, che
non trovano in nessun modo riscontro nelle circostanze in cui operarono Rosa
Luxemburg e gli spartachisti.
I
due punti d’appoggio fondamentali su cui fece leva la rivoluzione bolscevica
furono i problemi della pace e della terra. Il primo fu uno strumento
efficacissimo adoperato per molti mesi, dalla rivoluzione di marzo a quella di
novembre, contro un governo che si ostinava a voler mantenere in guerra - e in
una guerra che non aveva più i mezzi per sostenere - un paese che non ne voleva
assolutamente sapere. La rivoluzione tedesca del 9 novembre fu seguita invece a
soli due giorni di distanza dall’armistizio con le potenze vincitrici; il
governo Ebert-Scheidemann, a differenza di quello Kerenski, aveva il merito
d’aver posto fine alla guerra e di voler arrivare il più rapidamente possibile
alla pace. Esso anzi aveva buon gioco a predicare la calma, la concordia, la
disciplina come fattori che avrebbero favorito delle migliori condizioni di
pace: poteva cioè al tempo stesso giocare sulla corda nazionalista per tutti
coloro che avevano creduto nella guerra e desideravano evitare una pace
umliante, e sulla corda pacifista per tutti coloro che erano ormai stanchi
della guerra e volevano tornare a un regime di vita normale.
Anche
il problema della terra non aveva in Germania l’importanza che aveva in Russia:
certo c’erano, soprattutto al di là dell’Elba, delle condizioni di vita
agricole che esigevano una riforma agraria e avrebbero potuto giustificare
un’insurrezione, ma non avevano neppure lontanamente l’importanza numerica e
sociale che avevano in Russia, la Germania essendo un paese prevalentemente
industriale anziché agricolo come la Russia. Certo, è vero, la sinistra
socialdemocratica tedesca e Rosa Luxemburg in specie si sono sempre occupati
poco dei problemi agrari, in quanto fondavano le loro speranze rivoluzionarie
sulla classe operaia, e que-sta è indubbiamente una carenza che ha un peso. Ma
non bisogna dimenticare che il problema agrario tedesco s’inseriva in un
contesto generale ben diverso da quello russo: la società tedesca era già
allora una società fortemente strutturata, dove gli junker prussiani, che erano
stati lungamente la classe dominante e conservavano ancora numerosi privilegi,
erano ora gli alleati della borghesia industriale, con la quale avevano spesso
rapporti anche familiari, per cui un’azione fra i contadini avrebbe incontrato
ben altre difficoltà in Germania che in Russia. E d’altra parte lo stesso Lenin
poté far leva sui contadini, solo modificando improvvisamente il programma
bolscevico per accettare le parole d’ordine dei socialrivoluzionari che aveva
sempre combattuto, e anche Rosa Luxemburg, appena poté parlare dalla tribuna del
nuovo partito rivoluzionario, pose subito anch’essa il problema dei contadini
come uno dei problemi che dovevano essere più urgentemente affrontati per
sottrarre alla reazione l’appoggio delle masse rurali e acquisirle invece alla
rivoluzione.
Si
aggiunga inoltre che mentre il governo russo rovesciato da Lenin era diretto da
Kerenski, un giovane avvocato più ricco di parole che di capacità politica, che
dopo il tentato colpo di stato di Kornilov non aveva più neppure l’appoggio
delle forze armate, il governo Ebert-Scheidemann era retto da leader politici
abili e sperimentati, che avevano dietro di sé - lo ripetiamo - la grande
maggioranza dei lavoratori tedeschi (come fu confermato alle elezioni per
l’Assemblea nazionale del 19 gennaio), e avevano stipulato un’alleanza con le
forze armate rimaste agli ordini di Hindenburg. L’avversario contro cui
combattevano gli spartachisti era quindi di ben altra taglia: era il risultato
di due duplici alleanze fra le forze organizzate ch’eran rimaste in Germania, e
cioè quella fra socialdemocrazia ed esercito, e quella fra industriali e
sindacati socialdemocratici. Tanto Ebert, capo del governo, quanto Hindenburg,
capo delle forze armate, avevano una duplice legittimità: quanto a Ebert,
quella del vecchio regime perché egli era stato designato successore
dell’ultimo cancelliere del Kaiser, il principe Max von Baden e il passaggio
era avvenuto senza scosse, con tutta la burocrazia rimasta al suo posto, e
quella del nuovo regime, perché il passaggio di poteri era avvenuto dopo
l’insurrezione berlinese del 9 novembre, perché la repubblica era stata
proclamata da Scheidemann, il secondo di Ebert, e perché il consiglio degli
operai e dei soldati di Berlino aveva ratificato questa nomina; quanto a
Hindenburg, perché aveva avuto la carica del Kaiser, che, abdicando, l’aveva
pregato di rimanere al suo posto, e perché il nuovo governo l’aveva
in quel posto confermato. L’avversario che gli spartachisti avrebbero dovuto
abbattere rappresentava quindi tutto quello che c’era in Germania di solido ed
organizzato e che si presentava, quasi senza soluzione di continuità,
nonostante la “rivoluzione”, compatto e garante sia della pace futura che della
ripresa economica dopo le privazioni imposte dalla guerra.
Anche senza gli errori che certamente furono
commessi dagli spartachisti, sarebbe stato impossibile, nei due mesi in cui
Rosa Luxemburg sopravvisse, abbattere il regime: in condizioni estremamente più
favorevoli furono necessari a Lenin sette mesi, dopo il suo ritorno in patria.
Perciò ogni ragionamento che voglia trarre, dalla mancata vittoria
rivoluzionaria degli spartachisti, una conferma dell’errata posizione
ideologica della Luxemburg, ci sembra sfornito di qualsiasi serietà. Senza
contare che Lenin era veramente il capo dei bolscevichi e riusciva, pur con
qualche difficoltà, ad imporre le sue vedute nei momenti eccezionali, mentre
presso gli spartachisti il capo più prestigioso era certamente Liebknecht e la
responsabilità delle parole d’ordine errate del gennaio, alle quali la Luxemburg
e la maggioranza della direzione erano contrari, grava in gran parte su di lui.
E
infine, se si volesse spingere fino in fondo questi paragoni assurdi che non
tengono conto delle differenze di situazione e credono che le strategie
rivoluzionarie siano dei modelli trasportabili ovunque, si potrebbe aggiungere
un altro argomento: è vero che Lenin, con una strategia basata soprattutto sul
partito d’avanguardia che si trascina dietro la classe, è riuscito a
conquistare il potere, mentre la Luxemburg, con la sua strategia dei tempi
lunghi che vuol portare al potere non un partito, non un’avanguardia ma la
maggioranza della classe, è stata battuta prima di avere avuto il tempo di
portare avanti la sua strategia, ma se badiamo agli sviluppi dobbiamo pur
ammettere che la vittoria di Lenin non ha portato in URSS, neppure dopo oltre
mezzo secolo, quella società socialista per la quale la Luxemburg combatteva,
il che potrebbe anche significare che la strategia leninista, la strategia
dell’avanguardia, non è la strategia che corrisponde ad una rivoluzione
socialista quale noi l’abbiamo descritta nelle pagine precedenti con le parole
della Luxemburg, che corrispondono in larga misura al socialismo per il quale
anche noi abbiamo modestamente combattuto. Perché il nocciolo del problema è
appunto qui: se al potere va soltanto un’avanguardia e non la classe, la
burocratizzazione del potere diventa una necessità di fronte a una classe
impreparata, e non a caso la burocratizzazione in URSS è cominciata già vivente
Lenin; come si passerà allora dal governo della burocrazia alla dittatura della
classe, cioè alla democrazia socialista che è appunto il problema non ancora
risolto nei paesi comunisti? L’insistenza con cui la Luxemburg voleva le masse
titolari e protagoniste dell’azione politica, naturalmente sotto la guida di un
partito, ha trovato, ci sembra, negli sviluppi successivi della storia, una
giustificazione e non una condanna.
[...]
Bibliografia
Per chi volesse maggiormente approfondire il
pensiero di Rosa Luxemburg, diamo qui di seguito una sommaria bibliografia:
I) Raccolte importanti di scritti
a) in lingua tedesca:
Gesammelte
Werke, a cura di C. Zetkin e A.
Warski, Berlino 1923, sgg. Di questa edizione sono usciti soltanto i seguenti
volumi curati da P. Frölich:
III (1925) Gegen
den Reformismus
IV (1928) Gewerkschaftskampf
und Massentreik
VI (1923) Die
Akkumulation das Kapitals
I primi due volumi contengono un’ampia introduzione
di P. Frölich e delle brevi introduzioni ad ogni singolo capitolo.
Ausgewählte
Reden und Schriften, a cura del
Marx-Engels-Lenin Institut beim ZK der Sed, con una prefazione di W. Pieck,
Dietz Verlag, Berlino 1951, 2 voll.
Politische
Schriften, a cura e con prefazione
di O.K. Flechtheim, Europäische Verlagsanstalt, Francoforte 1966-68, 3 voll.
Gesammelte
Werke, a cura dell’Institut für
Marxismus-Leninismus beim ZK der Sed, Dietz Verlag, Berlino 1970. (È uscito
sino ad oggi solo il primo volume in due tomi e sono previsti in tutto cinque
volumi: sarà questa la più completa raccolta di scritti luxemburghiani).
b) in lingua polacca:
Wybór
pism, a cura di B. Krauze,
Ksiaźka i Wiedza, Varsavia 1959, 2 voll. (Contiene molti scritti della
Luxemburg in polacco, che mancano
in generale nelle raccolte tedesche).
c) in lingua italiana:
L’accumulazione
del capitale, con una Introduzione
di P. M. Sweezy, Einaudi, Torino 1960.
Scritti
scelti, a cura e con introduzione di L. Amodio, Edizioni
Avanti!, Milano 1963.
Scritti
politici, a cura e con Introduzione di L. Basso, Editori
Riuniti, Roma 1967. 11 ed. 1970).
Lo sciopero
spontaneo di massa, a cura e con
Introduzione di A. Agosti, Musolini Editore, Torino 1970.
R. LUXEMBURG - F. MEHRING, Scioperi selvaggi, spontaneità delle masse,
Della Vecchia Talpa Editore, Napoli 1970.
La
rivoluzione tedesca 1918-19, a
cura e con Introduzione di L. Basso, di prossima pubblicazione.
II) Raccolte di lettere
a) in lingua tedesca:
Briefe an
Karl und Luise Kautsky, Premessa e conclusione di L.
Kautsky, E. Laub’sche Verlagsbuchhandlung GMBH, Berlino 1923. (Si tratta di una
raccolta incompleta).
Briefe aus
dem Gefängnis, Dietz Verlag, Berlino
1946.
Briefe an
Freunde, Edite da Benedikt Kautsky secondo il manoscritto
predisposto da Luise Kautsky, Europäische
Verlagsanstalt GMBH, Amburgo 1950.
b) in lingua polacca:
Listy do
Leona Jogischesa-Tyszki, a cura di F. Tych.
Ksiazka i Wiedza, Varsavia 1968, sgg., 3 voll., di
cui sono usciti sino ad oggi i primi due volumi, il terzo è in corso di
pubblicazione.
c) in lingua italiana:
W. LIEBKNECHT - R. LUXEMBURG, Lettere 1915-18, con
una Introduzione di E. Ragionieri, Editori Riuniti, Roma 1967.
Lettere
alla famiglia Kautsky, a cura e
con Introduzione di L. Basso, di
prossima pubblicazione presso gli Editori Riuniti,
Roma. (Edizione completa).
Lettere a
Leone Jogiches Tyszko, a cura e con
Introduzione di L. Basso, di prossima pubblicazione, presso Feltrinelli, Milano
(Antologia).
III) Biografie
P. FRÖLICH, Rosa
Luxemburg, La Nuova Italia, Firenze 1969.
P. J. NETTL, Rosa
Luxemburg, Il
Saggiatore, Milano 1970, 2 voll.
Una bibliografia completa degli scritti finora
accertati di Rosa Luxemburg si trova nel volume Scritti politici, cit., con l’integrazione che uscirà nel
volume Lettere alla famiglia Kautsky,
cit.