Che cosa è la violenza: un dibattito attuale
La democrazia antidoto alla violenza politica
Continua la nostra inchiesta sulla violenza, che
vuole essere un contributo all’analisi di uno dei peggiori mali della nostra
epoca, nonché una ricerca dei possibili rimedi. Abbiamo cominciato pubblicando
l’opinione di un giurista, il prof. Giandomenico Pisapia, ed è seguito un
intervento di un sociologo, il prof. Franco Ferrarotti. Oggi partecipa al
dibattito il sen. Lelio Basso, il quale mette l’accento su aspetti nascosti
della violenza di classe e indica come antidoto una vera democrazia, anche
economica.
di LELIO BASSO
Si parla molto di violenza in questi tempi in
Italia: certo se ne parla anche perché la violenza è in questi ultimi tempi
aumentata, ma se ne parla ancora di più perché l’aumento della violenza è parte
essenziale di quella strategia della tensione che vuole tenere in allarme il
popolo italiano per indurlo a cercare nella repressione, nella reazione, nel
qualunquismo nixoniano di “ordine e legge” delle iniezioni rivitalizzanti per
una destra storicamente e politicamente sconfitta. Infatti questa formula è
stata invocata anche nel Parlamento italiano per far approvare la legge Reale,
che, come è stato da più parti osservato, ha dato alla polizia “licenza di
uccidere”, assicurandole di fatto l’impunità, come uno dei mezzi per prevenire
la violenza. E, naturalmente, come tutti i mezzi analoghi, ha avuto l’effetto
contrario, perché da un lato ha incoraggiato gli agenti ad uccidere, ma
dall’altro ha incoraggiato anche i ricercati, nel momento in cui si vedono
davanti il poliziotto, a sparare per primi per non essere uccisi. E così le
statistiche ci dicono che, mentre prima della legge il numero di agenti e
carabinieri uccisi era di circa tre al mese, dopo l’approvazione e l’entrata in
vigore della legge il numero è salito a 9 in settembre e 6 in ottobre: quindici
in due mesi di fronte a venti nei sei mesi precedenti.
Ma si tratta di violenza comune o politica? Prima
di affrontare questo tema, vorrei fare alcune considerazioni generali. In primo
luogo la violenza è in aumento in tutti i Paesi occidentali ed è molto maggiore
nei Paesi industrialmente più avanzati dell’Italia, come gli Stati Uniti.
Inoltre sappiamo che in tutti i periodi di crisi (e non c’è dubbio che il mondo
occidentale sta attraversando non solo una crisi economica, ma una crisi di
valori socio-culturali) la violenza è in aumento, perchè si rompe un certo tipo
di equilibrio prima che ne sia costituito un altro, equilibrio fra l’uomo e
l’ambiente, fra l’uomo e la società, e questa rottura toglie all’individuo
molti punti d’appoggio del vecchio ambiente, sacrifica la sua vita sociale e lo
sottrae ad ogni forma di controllo storico-sociale tradizionale, esponendolo
solo e indifeso a nuovi modi di vita che non possono non scatenare istinti
innati di aggressività che sono normalmente frenati dall’armonia con l’ambiente
in cui vive.
Questo fenomeno è accaduto in Italia a milioni di
uomini che sono stati sradicati dal loro ambiente e scaraventati a vivere in
baracche, ai margini della vita sociale, spesso senza lavoro, senza pane, e
quasi sempre senza scuole, ospedali, abitazioni e mezzi di trasporto decenti.
In tutti questi casi la violenza, anche quella comune, ha una profonda radice
sociale e quindi in un certo senso politica: questo spiega perché molti
criminali, che rapiscono o uccidono solo per interessi materiali, tentino poi
di ricoprire le loro gesta di una pretesa ideologia politica, che di solito
chiamano “anarchismo”, anche se con la tradizione autenticamente politica
dell’anarchia non hanno nulla a che fare.
Ma del resto nel periodo agitato che precedette la
rivoluzione francese, o in quello pure agitato che seguì l’unificazione
d’Italia, uomini come Cartouche e Mandrin, o i famosi “briganti” meridionali,
non si presentavano spesso anche come vendicatori di ingiustizie sociali, come
protettori del debole e dell’oppresso? Questo diventa ancor più agevole oggi,
in una società che ha per motore il profitto e per insegna il guadagno, il
successo, il potere: l’estorsione di miliardi a miliardari che non pagano tasse
può essere facilmente presentata come un modo di redistribuzione del reddito.
Allo stesso modo il giovane politico rivoluzionario che vuole sul serio
l’emancipazione sociale segue in tutta buona fede un processo convergente con
quello del criminale e cioè ricorre all’aggressione, alla rapina, magari al
sequestro, per combattere una società oppressiva. E naturalmente questo rende
qualche volta incerti e labili i confini tra la violenza politica e quella
comune.
Se ampliamo ora il nostro discorso, anche per
meglio precisarlo in vista delle conclusioni, e parliamo più propriamente di
violenza politica specifica, non credo che si possa parlare di ideologie
politiche serie quando hanno fatto della violenza il solo strumento di
emancipazione. Certo non Marx, il quale ha sempre considerato che l’uso o meno
della violenza da parte delle classi lavoratrici dipendesse esclusivamente
dall’atteggiamento delle classi dominanti: se queste ricorrono a mezzi
coercitivi di oppressione che impediscono la libera crescita e la libera
manifestazione della volontà popolare, la violenza è l’unica risposta
possibile. Ma la violenza può essere ammessa solo come “levatrice della
Storia”: cioè, quando una nuova società è matura nel grembo della vecchia -
nuovi rapporti sociali, nuove strutture, nuovi valori -, e solo la repressione
del potere o la violenza silenziosa dei rapporti economici già superati
impedisce di realizzarla, l’intervento della violenza come levatrice è
necessario come è necessario per la nascita di un feto giunto a maturazione.
In questo senso il solo vero antidoto contro la
violenza politica è la democrazia, ma una democrazia autentica come quella
prevista dal 2° comma dell’articolo 3 della nostra Costituzione, che fa obbligo
alla Repubblica di eliminare le disuguaglianze economiche e sociali che
impediscono ai lavoratori la piena partecipazione alla vita pubblica. Bisogna
finalmente persuadersi che la coscienza morale degli uomini d’oggi non tollera
più la disuguaglianza e il privilegio, e che non si potrà mai sopprimere la
violenza politica (e ancor meno, è chiaro, quella comune) finché vivremo in una
società che queste disuguaglianze e questi privilegi ostenta nel modo più
sfacciato e dove la TV ne porta l’immagine in ogni casa, in una società dove
gli scandali degli altolocati sono sistematicamente soffocati, dove i giudici
infliggono tranquillamente magari tre anni di carcere a un ladruncolo, ma si
affrettano a mandare all’ospedale il generale o l’industriale autori di ben più
gravi reati, e poi gli accordano la libertà provvisoria e magari gli danno il
passaporto perché se ne possano andare a vivere tranquillamente nel Libano;
dove i mafiosi, gli speculatori, i concussori trovano larghe protezioni mentre
i giovani colpevoli di reati minori sono rinchiusi in quella vera e propria
scuola di criminalità che è il carcere (dove è andato a finire l’articolo della
Costituzione approvata quasi trent’anni fa che prescriveva che la pena dovesse
servire alla rieducazione del reo?); dove le riforme si promettono e non si
fanno mai; oppure, se vogliamo guardare al di là delle nostre frontiere, in un
mondo dove è tollerato l’apartheid del Sudafrica, dove è consentito da anni ad
Israele di sfidare impunemente la legge internazionale (occupazione con la
forza di territori altrui) e di ignorare le decisioni vincolanti di un
organismo di cui fa parte (l’ONU), dove non si batte ciglio di fronte al
massacro di centinaia di migliaia di uomini in Indonesia o dove un intero continente,
come l’America Latina, è sottoposto alle più feroci dittature militari per il
profitto delle multinazionali.
Ecco dove risiede la violenza politica: solo quando
gli uomini ne avranno preso coscienza e avranno saputo esprimere nuovi valori
per una convivenza civile, e vivranno secondo questi valori, la violenza potrà
sparire. Io credo in questa utopia e mi batto per essa.